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Wednesday, February 16, 2011

Forse Obama s'è svegliato

Il seme della ribellione sembra diffondersi da Tunisia ed Egitto a macchia d'olio in tutto il Medio Oriente. Da Algeria e Libia fino a Bahrein ed Iran, dove l'onda verde che si era opposta alla rielezione truffaldina di Ahmadinejad si mostra viva e vegeta, rinvigorita dai successi della piazza al Cairo. Difficile prevedere gli esiti delle proteste, ma la storia anche recente ci insegna che regimi che sembrano molto solidi sono in realtà molto fragili e basta una scintilla - magari la consapevolezza della forza dei numeri nella gente - a farli crollare. Ma a Teheran è diverso. C'è un potere che è disposto a versare tutto il sangue necessario. Il paradosso di un regime che celebra le vittoriose proteste del popolo egiziano contro Mubarak, mentre nega al suo popolo il diritto a simili proteste, è solo apparente. La caduta di un alleato dell'odiata America e di Israele nella regione è un evento obiettivamente favorevole per le ambizioni egemoniche della leadership iraniana, e la propaganda imponeva che così fosse letto all'interno, ma erano inoccultabili le aspirazioni alla democrazia e alla libertà che hanno mosso le proteste egiziane, e impensabile che gli iraniani non ne cogliessero la natura anti-regime.

La rivoluzione egiziana sembra aver assestato una scossa anche ad Obama, che sembra uscito dall'intorpidimento "realista". E' naturalmente presto per dirlo e bisognerà verificare i fatti, ma le parole di queste ore indicano che forse alla Casa Bianca è in corso un aggiustamento di rotta. Subito il presidente si è pronunciato a favore dei manifestanti iraniani, con l'auspicio che «anche in Iran il popolo sia libero di esprimersi» come ha potuto fare il popolo egiziano al Cairo. Ha detto di «sperare» che l'Egitto «possa essere di esempio a tutta la regione mediorientale, anche se ogni Paese ha la propria identità». E che, come successo in Egitto, gli iraniani «abbiano il coraggio» di continuare a protestare. Un Obama comunque rimasto sul generico, avvertendo che «l'America non può dettare quello che succede in Iran, più di quanto abbia potuto dettarlo in Egitto», mentre Hillary Clinton sembra in queste ore assumere una linea più coraggiosa, dichiarando di «sostenere chiaramente e direttamente» le aspirazioni dei manifestanti iraniani contro il regime.

E parlando alla George Washington University, il segretario di Stato ha chiarito il contributo dell'America ai processi di democratizzazione. Non era la prima volta che parlava di libertà di internet, enunciando un vero e proprio manifesto politico sulla Freedom of Internet, ma farlo di nuovo in questo momento ha una particolare rilevanza. Tanto più che ne ha parlato nei termini di un nuovo «pilastro della politica estera degli Usa», perché nella «piazza digitale» globale devono valere «gli stessi diritti universali di Times Square o Piazza Tahrir». «Le libertà di espressione, associazione, fede e petizione al governo devono essere garantite anche nel cyberspazio - ha spiegato - perché una Chiesa, una ong o un sindacato devono poter esercitare i propri diritti anche sul web». La nuova «libertà di connettersi» che molti Stati tuttavia ostacolano o negano del tutto. E la Clinton li ha nominati esplicitamente cinque, «Birmania, Cina, Cuba, Vietnam e Iran», ribadendo che come governo «spendiamo per sviluppare tecniche di comunicazione che consentano agli attivisti della libertà digitale di sviare attacchi e controlli» e dunque «ogni volta che uno Stato dispotico applica nuove contromisure noi rispondiamo con innovazioni». Sarebbe già qualcosa.

Anche perché il «domino democratico» in Medio Oriente è già scattato e il governo americano si è fatto trovare impreparato, è stato l'ultimo ad accorgersene, la sua intelligence e la sua politica estera non erano al passo con i tempi. «L'errore più grave dell'Intelligence americana - spiega Reuel Marc Gerecht a La Stampa - è stato di non accorgersi della maturazione di idee democratiche nelle nuove generazioni. E' un processo in atto da anni. Ma non ci hanno voluto credere, rimanendo aggrappati all'immagine di un mondo arabo-musulmano congelato dai dittatori». Si tratta di Paesi per molti aspetti diversi, ma per altri «hanno caratteristiche simili: carenza di libertà, repressione, problemi economici irrisolti e una nuova generazione che rappresenta gran parte della popolazione. La miccia sono le informazioni, che corrono molto veloci, più di quanto avveniva anni fa». Non solo internet: «A portare in milioni di case quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto sono state Al Jazeera e Al Arabiya, due tv con grande seguito. Il resto lo ha fatto internet con Google, Facebook, Twitter, le email. E c'è anche un terzo fattore: gli sms. Sono uno strumento molto efficace per mobilitare. Neanche il regime può permettersi di bloccarli a lungo». Per Gerecht Obama è un presidente «con una doppia identità, realista e idealista». In questi giorni sta prevalendo la seconda. Speriamo non si tratti solo di retorica.

Tuesday, June 23, 2009

La mano di Obama è ancora tesa

Dall'attesa conferenza stampa di oggi del presidente Obama nessuna novità di rilievo sull'Iran. Aveva già corretto la sua linea alcuni giorni fa, in un'intervista alla CBS e con un comunicato, ribadendo la non intromissione e l'offerta di dialogo, ma chiarendo finalmente che l'America è al fianco di chi reclama diritti «universali». E per ora il presidente Usa è fermo a quella linea. Però ha indurito i toni, la sua condanna dell'uso della violenza sui manifestanti, e si è espresso in modo meno distaccato, mostrando più indignazione e maggiore vicinanza («deploriamo la violenza contro civili innocenti ovunque questo accada»; «siamo sbigottiti e oltraggiati dalle minacce, dai pestaggi e dagli arresti» le cui immagini si vedono in tv e ci giungono sui computer). Ha citato anche la tragica fine di Neda («una donna che moriva dissanguata in mezzo alla strada») per rafforzare il suo sdegno.

Obama ha respinto con forza le accuse di aver istigato la rivolta («clamorosamente false e assurde») lanciate da Ahmadinejad, Khamenei e dal Consiglio dei Guardiani, all'indirizzo degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali, smascherando efficacemente l'abusata propaganda del regime: si tratta di «un ovvio tentativo di distrarre la gente da ciò che sta realmente accadendo entro i confini iraniani. Questa stanca strategia di usare vecchie tensioni per fare di altri Paesi i capri espiatori non funziona più in Iran. In ballo adesso non vi sono gli Stati Uniti o l'Occidente. Ma gli iraniani e il futuro che loro, solo loro, sceglieranno».

Ha ribadito quindi che gli Stati Uniti sono solo «testimoni» («rispettano la sovranità della Repubblica islamica dell'Iran e non intendono intromettersi negli affari interni del Paese»), ma non ha nascosto che il cuore dell'America batte per i manifestanti: «Chi chiede giustizia è dalla parte giusta della storia». Eppure, la testa continua a suggerire non intromissione e «strada ancora aperta» al dialogo: «Quello che abbiamo visto negli ultimi giorni, nelle ultime settimane, non è ovviamente incoraggiante», ma «continuiamo ad aspettare».

Certo è che la strada del dialogo si fa sempre più impervia anche per Obama e non è escluso che la strategia dell'engagement debba prima o poi essere rivista, o persino essere riposta in un cassetto già nelle prossime settimane. La mia impressione è che la strategia del dialogo sul nucleare con l'attuale leadership iraniana sia ormai stata spazzata via dagli eventi e che all'amministrazione non resti che prenderne atto prima possibile. Non solo e non tanto perché sedersi al tavolo con Khamenei e Ahmadinejad sia deplorevole dal punto di vista morale, ma perché le condizioni, anche da un punto di vista "realista", sono mutate.

Quella strategia si basa necessariamente sul riconoscimento della legittimità del regime, ma ora per uno strano scherzo del destino questa legittimità viene negata al regime dallo stesso popolo iraniano. Ed è un problema non facilmente trascurabile per l'amministrazione Usa. Inoltre, se il passato da hard-liner di Mousavi autorizza a nutrire forti dubbi sulle sue reali intenzioni, tuttavia metterlo sullo stesso piano di Ahmadinejad è un errore, come è stato un errore non considerare affatto il popolo iraniano come un potenziale attore politico.

Obama e i suoi consiglieri hanno creduto che Mousavi e i manifestanti non avessero alcuna chance contro Ahmadinejad e Khamenei e che quindi fosse inutile esporsi dalla loro parte, per poi ritrovarsi a dover dialogare con interlocutori indeboliti, innervositi e delegittimati. La cautela iniziale non è stata dettata dal timore che un appoggio esplicito dell'America potesse danneggiare l'opposizione, ma come ha osservato Robert Kagan, dal timore che appoggiando l'opposizione in qualsiasi modo Obama potesse apparire ostile al regime con il quale avrebbe dovuto dialogare.

Tuttavia, con il passare dei giorni è emerso in modo sempre più evidente che non si trattava di un fuoco di paglia. Gli iraniani continuano a scendere in strada nonostante la repressione, ma soprattutto l'alleanza Mousavi-Rafsanjani-Khatami non si è sciolta come neve al sole dopo il discorso di Khamenei di venerdì scorso, ma ha sfidato apertamente l'autorità della Guida Suprema e sono in corso delle manovre - il cui esito non è ancora scontato - per portare la maggioranza del clero della città santa di Qom contro Khamenei e Ahmadinejad. E se il clero si sposta, pezzi delle forze militari e di sicurezza potrebbero seguirlo. Ma è tutto da vedere, i segnali che giungono dai vari Consigli (dei Guardiani e degli Esperti) sono contrastanti.

Insomma, la sfida di Mousavi e Rafsanjani alle parole, e agli ordini, di Khamenei ha colto molti di sorpresa anche nell'amministrazione Usa, e infatti da quel venerdì in poi Obama ha corretto la sua linea. A Washington si sono accorti che all'interno del regime la spaccatura è seria e profonda, che potrebbe durare ancora settimane o mesi, che l'autorità posta a fondamento stesso della Repubblica islamica è messa in discussione e che un cambiamento ai vertici, nonché nelle strutture di potere, non è da escludere. Almeno finché Mousavi e Rafsanjani tengono duro, come sembrano fino a questo momento intenzionati a fare.

Come ha fatto giustamente notare Reuel Marc Gerecht, se Ahmadinejad e Khamenei dovessero trionfare, non cederanno di un centimetro sul nucleare perché a quel punto per loro, e per le Guardie rivoluzionarie dietro di loro, le armi nucleari sarebbero la migliore garanzia di restare al potere, dal momento che non potrebbero più sperare di restarci con il consenso del loro popolo. Per questo, ma anche per la sua sorprendente reazione di sfida a Khamenei, ammesso che Mousavi sia mai stato uguale ad Ahmadinejad, sicuramente non lo è più adesso.

Dunque, se prima delle elezioni iraniane le chance di successo del dialogo sul nucleare con Ahmadinejad e Khamenei erano prossime allo zero, alla luce degli eventi di questi giorni sono sensibilmente diminuite e non sono molte di più di quelle di una loro rimozione. Insomma, quella del dialogo sul nucleare è una strategia che va abbandonata, se al potere rimangono Ahmadinejad e Khamenei, non solo per motivi morali, ma anche perché dopo questa crisi le loro paranoie sui complotti americani volti a rovesciare il regime non potranno che aumentare, rendendo ai loro occhi le armi nucleari ancora più irrinunciabili per restare al potere. A fronte di ciò, perseguire ancora il dialogo significherebbe probabilmente non ottenere alcun risultato se non quello di offrire al regime una legittimità che il popolo iraniano gli ha appena tolto.

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa

Le analisi di Amir Taheri e Reuel Marc Gerecht convergono nell'individuare negli ultimi sviluppi della crisi in Iran un salto di qualità tale da poter parlare di una vera «rivoluzione» in corso. Comunque andrà a finire, e qualsiasi siano le reali intenzioni di Mousavi e del cartello che lo sostiene, l'autorità della Guida Suprema, che è a fondamento dell'intero sistema khomeinista, è entrata in crisi, forse irreversibilmente. Gli iraniani, ma per la prima volta anche pezzi importanti dell'establishment come lo stesso Mousavi, sfidando la parola e gli ordini di Khamenei, hanno messo in dubbio la validità del principio del velayat-e faqih, su cui si fonda la Repubblica islamica. Hanno messo in dubbio, in definitiva, la natura divina della legittimazione del potere della Guida Suprema.

«Poco prima di mezzogiorno di venerdì 19 - scrive Amir Taheri - la Repubblica islamica è morta» e l'Iran si è «trasformato da una Repubblica islamica a un emirato islamico guidato da Khamenei». La sua decisione di «uccidere» la Repubblica islamica «può condurre l'Iran in acque inesplorate». L'establishment è «diviso come mai prima. Tutte le figure autorevoli dell'"opposizione leale", compresi gli ex presidenti Rafsanjani e Khatami, hanno boicottato il sermone di venerdì. Quasi metà dei membri del Parlamento, insieme alla maggior parte del Consiglio degli Esperti, erano assenti». Se Khamenei sperava di «intimidire» i manifestanti, ha dovuto presto ricredersi. «Ha cercato di dividere l'opposizione offrendo rassicurazioni a Rafsanjani», ma non c'è riuscito: Rafsanjani «ancora rifiuta di appoggiare la rielezione di Ahmadinejad». E Mousavi, nonostante l'aut-aut della Guida Suprema, e «virtualmente agli arresti domiciliari», continua a sostenere le proteste.

Khamenei ha ridotto a carta straccia l'autorità di cui è investito, posta dalla rivoluzione islamica al vertice del sistema. «Oggi ci sono due Iran», conclude Taheri:
«Uno pronto a sostenere il tentativo di Khamenei di trasformare la Repubblica in un emirato al servizio della causa islamica. Poi c'è un secondo Iran, desideroso di cessare di essere una causa e che aspira ad essere una nazione normale. Questo Iran non ha ancora trovato i suoi leader definitivi. Per ora, è pronto a scommettere su Mousavi. La lotta per il futuro dell'Iran è solo all'inizio».
Per Reuel Marc Gerecht «una cosa è chiara: siamo testimoni non solo di un'appassionante lotta di potere tra uomini che si sono frequentati intimimamente per 30 anni, ma anche del disfarsi della concezione religiosa che ha dato forma alla crescita del moderno fondamentalismo islamico... la volontà di Dio e la volontà popolare non sono più compatibili». Inoltre, aggiunge, «siamo testimoni» del «collasso delle fondamenta strutturali dell'intero approccio islamico» alla gestione del potere negli stati moderni.
«Dopo 9 anni da quando fu stroncato, il movimento riformista che sosteneva Khatami è diventato solo più forte. Ha portato tra le sue file Mousavi, una volta discepolo prediletto dell'ayatollah Khomeini, che oggi di tutta evidenza non ha alcun riguardo per Ahmadinejad, né per la Guida Suprema. Ciò che può sembrare più sorprendente è che così tanti preminenti rivoluzionari della prima ora si siano schierati con Mousavi. Ci sono molte ragioni, ma tra le principali c'è la crescente consapevolezza che la Repubblica islamica e la rivoluzione sono spacciate a meno che l'Iran non diventi più democratico. Può essere una speranza ingenua (come sembrava ai suoi inizi la glasnost), ma è una potente motivazione per coloro che hanno dato l'anima per rovesciare lo shah».
«Non è chiaro - ammette Gerecht - ciò che Mousavi pensa della democrazia, ma ci sono buone probabilità che voglia affidare al popolo più potere di quanto avesse intenzione Khatami, che malgrado alcune differenze non potrebbe né rompere davvero con i suoi confratelli del clero, né liberarsi della vecchia convinzione islamica secondo cui il fedele ha bisogno della supervisione da parte del clero. E anche se Mousavi non è il tipo ideale di riformatore, è circondato dai migliori e più brillanti iraniani... e anche presso il clero, le migliori menti, come il grande ayatollah Montazeri, hanno preso le distanze da Khamenei». Secondo Gerecht infatti, l'esperienza diretta della teocrazia ha convinto «brillanti chierici» della necessità della «separazione tra chiesa e stato come strumento per salvare la fede dal potere corruttore della politica».

«Che lo volesse o meno, Mousavi ha probabilmente dato inizio al conto alla rovescia finale» per la Repubblica islamica e ciò pone al presidente americano Obama una serie di «complicati problemi», di cui «dovrebbe prendere nota»: «All'interno dell'Iran, la questione nucleare non è ciò per cui la gente sta lottando. Sta lottando per la libertà. Anche se l'ayatollah Khamenei dovesse vincere questo round, il presidente dovrebbe mettersi dalla parte giusta della storia. Non ha nulla da perdere: la Guida Suprema non concederà mai nulla sul nucleare. E più il regime clericale diventerà impresentabile al suo interno, più diventerà impresentabile all'estero. Mousavi è la sola speranza di Obama», conclude Gerecht.

Sul Weekly Standard, lo stesso Gerecht approfondisce il tema: «Ci si è sempre chiesti se l'istituto del velayat-e faqih sarebbe sopravvissuto a Khamenei. Egli stesso ora ha dato abbastanza garanzie che non sopravviverà». «Non importa cosa accade - è convinto Gerecht - la Repubblica islamica come l'abbiamo conosciuta probabilmente è finita». Tutti i regimi, spiega, «hanno bisogno di una qualche legittimazione per sopravvivere, e la Repubblica islamica si reggeva su due pilastri»: la convinzione che gli iraniani continuassero a sostenere la rivoluzione islamica e le basi essenziali del suo sistema politico; l'adozione del clero come strumento di legittimazione della Repubblica. «Se nelle prossime settimane - prevede Gerecht - Khamenei commette l'errore di dare luce verde al massacro dei giovani iraniani nelle strade, probabilmente perderà il sostegno del clero, tutto tranne il più retrogrado, che però non è rappresentativo dell'establishment. Un golpe da parte delle Guardie della Rivoluzione verrebbe visto come un assoluto disastro dalla maggior parte dei mullah, che hanno gelosamente custodito la loro posizione preminente nella società».

E allora, «il più importante esperimento di ideologia islamista dalla nascita della Fratellanza musulmana si rivelerà - agli occhi del suo stesso popolo, dei guardiani della fede, e del mondo intero - un fallimento». A meno che Mousavi non si ritiri e non riporti la calma tra i suoi sostenitori, la rivoluzione islamica, «che fu uno shock per il mondo musulmano 30 anni fa, diventerà o un vero laboratorio di democrazia, o una brutale e violenta dittatura paragonabile per la sua ferocia ai regimi baathisti in Iraq e in Siria». In entrambi i casi non sarà mai più la stessa e, soprattutto, perderà la sua legittimazione religiosa.

Ma perché ci sia «qualche possibilità» che l'Iran «desista» dal nucleare, avverte Gerecht, «Mousavi deve vincere questa battaglia. Se Ahmadinejad e Khamenei trionfano, non cederanno. Per loro, e per le Guardie rivoluzionarie dietro di loro, le armi nucleari sono il mezzo per diventare attori globali e la migliore garanzia di restare al potere», non potendo più sperare di restarci con il consenso del loro popolo. «Anche se Mousavi non è nostro amico - e si rivelasse essere in molti casi nostro nemico - dovremmo tutti augurarci che vinca» e Obama «farebbe bene ad essere più determinato nel difendere la democrazia per un popolo che si è guadagnato il suo rispetto. Gli iraniani - è convinto Gerecht - perdoneranno al presidente l'intromissione».

Thursday, March 19, 2009

Ci risiamo

In questi giorni sembrano davvero sincere le aperture della Siria alla nuova amministrazione Usa. Sembrano. Damasco si offre come mediatore tra Washington e Teheran; per la prima volta apre un'ambasciata libanese. Sembra la fine del sogno della "Grande Siria". Sembra. Reuel Marc Gerecht, senior fellow della Foundation for Defense of Democracies, ricorda che non è la prima volta che a Washington crescono le aspettative sulla Siria.
Per decenni amministrazioni repubblicane e democratiche hanno tentato di persuadere il regime siriano alawita, sponsor del terrorismo, di abbandonare le sue posizioni anti-israeliane e anti-americane. Dalla rivoluzione islamica nel 1979, Washington ha nutrito la speranza che il clan alawita guidato dalla famiglia Assad avrebbe reciso i suoi legami con i mullah iraniani e la loro prole rivoluzionaria, gli Hezbollah libanesi, per unirsi agli arabi moderati, guidati dai governi fermamente anti-iraniani di Egitto, Giordania e Arabia Saudita.

Nel 2000, con la morte del presidente Hafez al-Assad, il più brutale dittatore siriano moderno, il Dipartimento di Stato e molti esperti di Medio Oriente hanno visto in Bashar al-Assad il possibile precursore di una Siria che abbandonasse l'estremismo per una maggiore apertura. Lo stesso Bashar al-Assad il cui governo poco dopo avrebbe dato l'ordine di assassinare il primo ministro libanese Rafiq Hariri, che avrebbe osato reclamare il diritto della Siria a comandare la politica libanese e a rubare dalla sua economia. Bashar al-Assad ha aperto un po' l'economia siriana - oggi l'elite può vivere più alla moda - ma ha accresciuto i legami con Teheran e permesso ai Guardiani della Rivoluzione di armare pesantemente Hezbollah. Una prova estremamente convincente: i mullah iraniani hanno appoggiato la costruzione, in Siria, a Dayr az-Zawr, di un impianto per l'arricchimento dell'uranio di fabbricazione nordcoreana - quello distrutto da Israele - perché assolutamente certi che un regime siriano con armi nucleari sarebbe rimasto il loro più stretto alleato.

E così siamo ancora con un'altra amministrazione americana che vede la possibilità di convertire gli alawiti di Damasco in uomini di pace. Si dimostreranno ancora una volta incorreggibili, naturalmente. Sono una minoritaria, eretica, dittatura sciita circondata da siriani sunniti che li odiano. Per gli alawiti, unirsi alla corrente sunnita anti-iraniana non è una proposta allettante. Molto meglio commerciare (clandestinamente se necessario) con gli europei, assassinare i libanesi, sostenere i terroristi anti-israeliani (migliorando la loro immagine in Medio Oriente), sostenere Hezbollah e tenersi stretti gli iraniani, che sono stati sempre leali e generosi.

Thursday, February 15, 2007

E' il momento di approfittare delle difficoltà iraniane

L'ayatollah Khamenei sarebbe gravemente malato«Se non fossi presidente della Camera, andrei alla manifestazione di sabato a Vicenza contro l'allargamento della base americana». Ma dire così è come esserci andati...

Mentre Bertinotti dà l'ennesima prova di scorrettezza istituzionale, chissà cosa avrà stavolta da ridire D'Alema di Bush, che in un discorso all'American Enterprise Insitute ha annunciato l'offensiva di primavera contro i Talebani ed è tornato a ribadire la richiesta di un maggiore impegno degli alleati in Afghanistan, con più uomini e meno limiti operativi.

Ma l'attenzione di questi giorni è puntata sull'Iran. Avevamo sottolineato, quando Bush presentò il suo nuovo piano per l'Iraq, quanto oltre l'invio di circa 20mila soldati fosse centrale la novità strategica: tornare a combattere sul terreno le varie milizie e, soprattutto, affrontare l'influenza destabilizzante dell'Iran.

Finalmente Bush si è convinto di qualcosa che ha sempre sostenuto Michael Ledeen, cioè che sia impensabile risolvere qualsiasi crisi in Medio Oriente, dal Libano al conflitto israelo-palesinese, per non parlare del confinante Iraq, senza prima sciogliere il nodo iraniano.

Così la Casa Bianca ha finito di autocensurarsi e sempre più apertamente, in un crescendo, accusa l'Iran di armare le milizie irachene con l'obiettivo di destabilizzare il paese a vantaggio degli sciiti radicali e di provocare il ritiro americano. «Sappiamo che queste bombe arrivano dall'Iran, sappiamo che la Forza Al Quds fa parte del governo ma non sappiamo se chi guida il governo è a conoscenza dell'invio di esplosivi», ha denunciato Bush, aggiungendo: «Non so davvero dire cosa sia peggio, se ne sono a conoscenza o meno».

Il presidente Bush sembra finalmente convinto - anche perché si è aperta a Teheran la lotta per la successione a Khamenei, gravemente malato - che l'Iran sia destabilizzabile da una parte attraverso le sanzioni e il blocco economico, finanziario, bancario, dall'altra fornendo appoggio agli oppositori interni, alla diffusa ribellione studentesca e ai moti di protesta dei lavoratori e delle minoranze etniche. Anche se non è da escludere un blitz di "fine mandato" contro le installazioni nucleari, contro il regime iraniano Washington non pensa a una soluzione di forza, a una nuova guerra, ma a operazioni di destabilizzazione interna tramite l'intelligence e la diplomazia, sfruttando le sue stesse crepe.

Non è ancora chiaro se l'amministrazione Usa abbia apertamente optato per il regime change, ma la destabilizzazione conviene in ogni caso.

Riguardo il dossier nucleare iraniano usciamo da una settimana in cui uno scoop del Financial Times ha portato alla luce in Europa quello che Franco Venturini oggi, sul Corriere, ha chiamato «partito della rassegnazione davanti alla bomba atomica iraniana».

Pochi giorni fa il presidente francese Chirac si era lasciato scappare di bocca che in fondo uno o due ordigni in mano a Teheran non sarebbero così preoccupanti, poiché quand'anche li utilizzasse la capitale iraniana verrebbe rasa al suolo all'istante. Non potendo escludere che il regime degli ayatollah, una volta ottenute le bombe, attacchi davvero Israele, Chirac evidentemente ritiene accettabile che Stati Uniti o Israele ricorrano al loro arsenale nucleare provocando milioni di vittime. Uno scenario per scongiurare il quale non varrebbe la pena sacrificare qualche accordo commerciale.

Intervenendo sempre sul Financial Times, i due analisti Reuel Marc Gerecht e Gary Schmitt, dell'American Enterprise Insitute, avvertono gli europei: se volete davvero evitare una nuova guerra, siate disposti a sacrificare i vostri rapporti commerciali con Teheran e accettate di imporre le sanzioni che, viste le precarie condizioni economiche iraniane, potrebbero rivelarsi fatali al regime degli ayatollah.
«Do the Europeans really want to prevent a war between the US or Israel and Iran? If they had to choose between curtailing trade with the Islamic republic, or seeing either America or Israel preventatively strike Iran's nuclear facilities, which would London, Paris and Berlin prefer?»
Stati Uniti e Israele «non desiderano attaccare l'Iran», ma se gli europei precludono l'opzione delle sanzioni economiche e finanziarie, «le probabilità di attacchi aumenteranno in modo significativo».

Gli Stati Uniti hanno inviato nel Golfo una nuova portaerei, deciso di fermare le infiltrazioni iraniane in Iraq, interrompere il flusso di contante delle banche iraniane, e andare avanti nel proporre un rigido regime di sanzioni contro Teheran alle Nazioni Unite. Insomma, si comincia a fare sul serio.

Le pressioni su Teheran aumentano e rischiano di avere un effetto destabilizzante sul regime. E' ovvio quindi, che l'oligarchia iraniana stia cominciando a farsi due conti sui risultati di una politica aggressiva come quella del presidente Ahmadinejad, che sembra sempre più criticato e indebolito. Accantonata per il momento la solita retorica minacciosa, cominciano a filtrare verso l'esterno segnali di moderazione e pragmatismo. Potrebbero significare un'inedita attitudine al dialogo, ma anche rivelarsi i soliti diversivi tattici per alleggerire la pressione e tentare di evitare altri danni all'economia, ulteriore benzina sul fuoco del dissenso interno.

In ogni caso, sembra questo il momento propizio per affondare il colpo delle sanzioni, tentare la spallata al regime, l'unico modo realistico per scongiurare una nuova guerra.