Riguardo la scelta presa nel 2001 di tenere le Olimpiadi del 2008 in Cina, faccio notare che senza di essa gli occhi del mondo oggi probabilmente non sarebbero puntati sulla Cina e i tibetani non avrebbero avuto questo scatto d'orgoglio. Ciò non significa che ora i Giochi non possano essere boicottati. Le due scelte, l'assegnazione prima il boicottaggio poi, sono solo in apparente contraddizione, come dimostra il caso di Mosca nel 1980. L'organizzazione delle Olimpiadi ha fornito alla Cina una grande opportunità per dimostrare che ai progressi economici corrispondono anche aperture politiche e progressi nel rispetto dei diritti umani. Una volta che fosse eclatante, oltre che evidente, che questa occasione è stata sciupata dalle autorità cinesi, il boicottaggio sarebbe una sanzione ancor più forte di quanto lo sarebbe stata nel 2001 la bocciatura di Pechino come sede dei Giochi.
Per Franco Venturini, «accostare le violazioni cinesi dei diritti umani all'invasione sovietica dell'Afghanistan (che portò a qualificate assenze in occasione dei Giochi di Mosca) significa ignorare quel cinico codice internazionale che distingue tra "affari interni" e violazione della sovranità di un altro Stato». Ebbene, quel «codice» bisognerebbe contestarlo e metterlo in discussione di proposito, perché la violazione dei primi conduce prima o poi alla violazione della seconda e, in ogni caso, a problemi di stabilità e di sicurezza per tutti.
Ma Venturini non ha le idee chiare, si contraddice. Auspica che il boicottaggio resti un'opzione sul tavolo, seppure come «arma estrema, da tenere in riserva e da far pesare» e biasima «chi dovrebbe agitare il bastone» ma intanto ha già «staccato i biglietti» per Pechino, definendo le Olimpiadi una «grande festa di sport e una festa ancor più grande di ipocrisia», nonostante avesse espresso poco prima l'ipocrita auspicio che «resti valida la strategia del "coinvolgimento" che ispirò l'assegnazione delle Olimpiadi».
Il Dalai Lama è per evidenti ragini politiche contrario al boicottaggio. Per Richard Perle si tratta di un problema forse troppo complesso, «insolubile», quindi propone un gesto politico altrettanto - e forse, dal punto di vista politico, maggiormente - significativo: i «leader del mondo disertino le Olimpiadi, e George W. Bush dia l'esempio. Sarebbe un messaggio chiaro, che costringerebbe i cinesi a riflettere». La loro presenza «sarebbe una legittimazione della politica repressiva cinese, un grave sbaglio».
E inoltre, rivedere la politica con la Cina a prescindere dai Giochi: «Richiamarla costantemente, protestare sempre quando lede le libertà civili, non condonarla implicitamente... Le nostre pressioni devono diventare più dure e quotidiane». Alla politica di inclusione e di apertura commerciale nei confronti della Cina bisogna sempre accompagnare «un appoggio sistematico ai cittadini cinesi, o a popoli come quello tibetano, che vogliono un cambiamento».
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Sunday, March 16, 2008
Tuesday, March 13, 2007
Una Russia democratica è il nostro primo interesse

Venturini commette a mio avviso un errore nel contrapporre «valori» a «interessi». Dice: non si può fare a meno di avere buoni rapporti con la Russia, per quella «reciprocità di convenienze» che ci accomuna, ma d'altra parte in politica valgono anche le questioni di principio, cioè il rispetto dei diritti umani. E' un approccio che ha fatto il suo tempo e che finisce per rendere marginale la questione della democrazia e dei diritti fondamentali, ma anche per trarci in inganno nella valutazione dei nostri fondamentali interessi.
E l'evoluzione democratica della Russia è tra i primi di questi interessi. Innanzitutto, per motivi di sicurezza, essendo una potenza confinante con l'Unione europea; poi, perché nessun accordo commerciale o equilibrio tra potenze può essere alla lunga ritenuto affidabile con un paese autoritario.
A criticare la politica e l'intellettualità europea è ancora una volta André Glucksmann, che oggi ricorda come Prodi abbia «sempre praticato l'assenza totale di critica nei confronti di Putin», in questo non rappresentando alcuna «discontinuità» rispetto alla politica di Berlusconi. Alla vigilia di questa visita, Prodi ha rilasciato all'agenzia Ria Novosti un'intervista nella quale parla di «comune visione e modo di sentire» con Putin. Ma se «la cultura russa è la gloria dell'Europa, Putin è il Kgb».
La capitale cecena, Grozny, «è stata due volte distrutta, rasa al suolo... uno scempio compiuto alla luce del sole, sotto gli occhi del mondo intero». Eppure, silenzio, tranne pochi. Chirac ha persino insignito Putin della legion d'onore, appena una settimana dopo l'assassinio di Anna Politkovskaja. In Europa, osserva Glucksmann, «solo due personalità si smarcano dal silenzio complice, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy».
La «distrazione» riguarda tutti: politici, intellettuali, pacifisti. Alla base, «la simpatia quasi inconscia per un regime palesemente non democratico, non liberale, non sociale...» Ma anche una paura che Glucksmann definisce «stupida», per la minaccia di Putin di chiudere i rubinetti di gas e petrolio. In realtà, «più ci inchiniamo, più incoraggiamo il lato pericoloso... Stiamo accettando che ai confini dell'Unione nasca una potenza senza controllo. Assistiamo all'edificazione di un impero dotato di fonti energetiche e della seconda forza nucleare del mondo».
Gli europei, conclude Glucksmann, «rischiano di macchiarsi di nuovo del "crimine di indifferenza" di cui parlava lo scrittore austriaco Hermann Broch a proposito dell'ascesa del nazismo. Il "crimine di indifferenza" oggi è dimenticare il vanto di una parte della sinistra, l'anticolonialismo. Il massacro dei ceceni è una guerra coloniale che dura da tre secoli. Dove sono oggi gli anticolonialisti?». Dove sono i capitalisti, che confidano nel libero mercato, quando si tratta di difendere Kodorkovski, l'ex capo della Yukos espropriato e rinchiuso in Siberia. Glucksmann ricorda che la civiltà occidentale è nata dalla lotta per la libertà: «Quando l'Europa se ne dimentica, le conseguenze sono sempre catastrofiche».
Thursday, February 15, 2007
E' il momento di approfittare delle difficoltà iraniane

Mentre Bertinotti dà l'ennesima prova di scorrettezza istituzionale, chissà cosa avrà stavolta da ridire D'Alema di Bush, che in un discorso all'American Enterprise Insitute ha annunciato l'offensiva di primavera contro i Talebani ed è tornato a ribadire la richiesta di un maggiore impegno degli alleati in Afghanistan, con più uomini e meno limiti operativi.
Ma l'attenzione di questi giorni è puntata sull'Iran. Avevamo sottolineato, quando Bush presentò il suo nuovo piano per l'Iraq, quanto oltre l'invio di circa 20mila soldati fosse centrale la novità strategica: tornare a combattere sul terreno le varie milizie e, soprattutto, affrontare l'influenza destabilizzante dell'Iran.
Finalmente Bush si è convinto di qualcosa che ha sempre sostenuto Michael Ledeen, cioè che sia impensabile risolvere qualsiasi crisi in Medio Oriente, dal Libano al conflitto israelo-palesinese, per non parlare del confinante Iraq, senza prima sciogliere il nodo iraniano.
Così la Casa Bianca ha finito di autocensurarsi e sempre più apertamente, in un crescendo, accusa l'Iran di armare le milizie irachene con l'obiettivo di destabilizzare il paese a vantaggio degli sciiti radicali e di provocare il ritiro americano. «Sappiamo che queste bombe arrivano dall'Iran, sappiamo che la Forza Al Quds fa parte del governo ma non sappiamo se chi guida il governo è a conoscenza dell'invio di esplosivi», ha denunciato Bush, aggiungendo: «Non so davvero dire cosa sia peggio, se ne sono a conoscenza o meno».
Il presidente Bush sembra finalmente convinto - anche perché si è aperta a Teheran la lotta per la successione a Khamenei, gravemente malato - che l'Iran sia destabilizzabile da una parte attraverso le sanzioni e il blocco economico, finanziario, bancario, dall'altra fornendo appoggio agli oppositori interni, alla diffusa ribellione studentesca e ai moti di protesta dei lavoratori e delle minoranze etniche. Anche se non è da escludere un blitz di "fine mandato" contro le installazioni nucleari, contro il regime iraniano Washington non pensa a una soluzione di forza, a una nuova guerra, ma a operazioni di destabilizzazione interna tramite l'intelligence e la diplomazia, sfruttando le sue stesse crepe.
Non è ancora chiaro se l'amministrazione Usa abbia apertamente optato per il regime change, ma la destabilizzazione conviene in ogni caso.
Riguardo il dossier nucleare iraniano usciamo da una settimana in cui uno scoop del Financial Times ha portato alla luce in Europa quello che Franco Venturini oggi, sul Corriere, ha chiamato «partito della rassegnazione davanti alla bomba atomica iraniana».
Pochi giorni fa il presidente francese Chirac si era lasciato scappare di bocca che in fondo uno o due ordigni in mano a Teheran non sarebbero così preoccupanti, poiché quand'anche li utilizzasse la capitale iraniana verrebbe rasa al suolo all'istante. Non potendo escludere che il regime degli ayatollah, una volta ottenute le bombe, attacchi davvero Israele, Chirac evidentemente ritiene accettabile che Stati Uniti o Israele ricorrano al loro arsenale nucleare provocando milioni di vittime. Uno scenario per scongiurare il quale non varrebbe la pena sacrificare qualche accordo commerciale.
Intervenendo sempre sul Financial Times, i due analisti Reuel Marc Gerecht e Gary Schmitt, dell'American Enterprise Insitute, avvertono gli europei: se volete davvero evitare una nuova guerra, siate disposti a sacrificare i vostri rapporti commerciali con Teheran e accettate di imporre le sanzioni che, viste le precarie condizioni economiche iraniane, potrebbero rivelarsi fatali al regime degli ayatollah.
«Do the Europeans really want to prevent a war between the US or Israel and Iran? If they had to choose between curtailing trade with the Islamic republic, or seeing either America or Israel preventatively strike Iran's nuclear facilities, which would London, Paris and Berlin prefer?»Stati Uniti e Israele «non desiderano attaccare l'Iran», ma se gli europei precludono l'opzione delle sanzioni economiche e finanziarie, «le probabilità di attacchi aumenteranno in modo significativo».
Gli Stati Uniti hanno inviato nel Golfo una nuova portaerei, deciso di fermare le infiltrazioni iraniane in Iraq, interrompere il flusso di contante delle banche iraniane, e andare avanti nel proporre un rigido regime di sanzioni contro Teheran alle Nazioni Unite. Insomma, si comincia a fare sul serio.
Le pressioni su Teheran aumentano e rischiano di avere un effetto destabilizzante sul regime. E' ovvio quindi, che l'oligarchia iraniana stia cominciando a farsi due conti sui risultati di una politica aggressiva come quella del presidente Ahmadinejad, che sembra sempre più criticato e indebolito. Accantonata per il momento la solita retorica minacciosa, cominciano a filtrare verso l'esterno segnali di moderazione e pragmatismo. Potrebbero significare un'inedita attitudine al dialogo, ma anche rivelarsi i soliti diversivi tattici per alleggerire la pressione e tentare di evitare altri danni all'economia, ulteriore benzina sul fuoco del dissenso interno.
In ogni caso, sembra questo il momento propizio per affondare il colpo delle sanzioni, tentare la spallata al regime, l'unico modo realistico per scongiurare una nuova guerra.
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