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Wednesday, April 30, 2008

I dolori del giovane-vecchio Pd

Luca Ricolfi, oggi su La Stampa, torna a sostenere che la sinistra dovrebbe scrollarsi di dosso l'atteggiamento per cui sembrerebbe che «quando vince la destra è la pancia che parla, quando vince la sinistra è la testa che ragiona». Invece, secondo Ricolfi, il centrosinistra avrebbe ignorato «due fattori macroscopici»: la portata del disastro del Governo Prodi, che Veltroni ha continuato a difendere anche in campagna elettorale minando alla base la credibilità della sua "rupture"; e la mancata «rivoluzione antisnob, quel percorso di rottura con il mondo dei salotti che fu una delle carte vincenti» del New Labour di Blair. Il primo problema della sinistra italiana si conferma quindi la sua «immagine elitaria e anti-popolare», di «seriosi e impermeabili custodi del bene».

Il punto, conclude Ricolfi, «è che questi signori il contatto con la realtà sembrano averlo perso completamente. A forza di parlarsi tra loro non sanno più in che Paese vivono».

E se ieri Andrea Romano nel suo editoriale aveva concluso che «la strada del Pd è ingombra di una generazione politica che ha tentato di sopravvivere a se stessa», oggi salta agli occhi ciò che Blair - secondo quanto riportato da Maria Teresa Meli sul Corriere - avrebbe detto a Veltroni nel loro recentissimo incontro a Roma: «In Europa bisogna chiudere con tutto ciò che ha a che fare con la sinistra».

Ormai l'hanno appurato le analisi dei flussi e lo ha scritto giorni fa Ricolfi: alle elezioni politiche il Pd ha tenuto perché ha sopperito alla perdita di voti verso Udc, PdL e Lega, prosciugando la sinistra. E' comprensibile che nelle prime ore ciò fosse inconfessabile: mentre il centro dell'elettorato veniva conquistato da PdL e Udc, il Pd spostava il suo asse a sinistra. Ma credo che Veltroni fosse consapevole che la via verso il centro gli fosse sbarrata dal mancato accordo tra Berlusconi e Casini. Così ha mirato a drenare voti alla sinistra. Infatti, se nei discorsi di candidatura e investitura a leader sembrava volesse puntare su meno tasse e più sicurezza come temi di "rupture", nel corso della campagna elettorale l'attenzione si è spostata sempre più sulla lotta al precariato. Quella svolta tattica, e l'appello al voto utile anti-berlusconiano sulla base di una rimonta inesistente, gli hanno permesso di limitare i danni, ma i voti presi in prestito dalla sinistra potrebbero tornare a casa molto presto, già alle europee del 2009.

Per questo Veltroni dovrebbe trovare subito con Berlusconi l'accordo per una riforma elettorale (sia per le politiche che per le europee) in grado di blindare l'assetto tendenzialmente bipartitico uscito dalle urne.

Per il Pd sarebbe un errore clamoroso cedere alla tentazione di cercare alleanze a sinistra o al centro. Prosciugando i partiti della Sinistra Arcobaleno, il Pd ha dimostrato che in presenza di voto utile può sbaragliare chiunque. Cercare alleanze proprio con l'Udc e la sinistra vorrebbe dire farsi parassitare. L'unica alternativa al PdL è il Pd, che da oggi in avanti deve solo pensare a prendere i voti che sono andati all'Udc, al PdL e alla Lega. A quelli lì deve mirare, non ad altri. E per andarseli a prendere deve rompere più decisamente con il passato.

Ma farebbe un errore anche il PdL, se credesse di avere una tale forza da poter fare a meno di parlare con Veltroni sulle riforme, e non solo istituzionali. Se il dialogo tra Berlusconi e Veltroni funzionasse, tra mezze intese e un confronti civile, i sindacati difficilmente potrebbero giocare da "veto player", perché ne uscirebbero delegittimati presso un'opinione pubblica che pretende decisioni e cambiamenti.

Le riforme vanno fatte nella prima parte della legislatura (e il referendum elettorale incombe già nel 2009). I due nuovi presidenti delle Camere, sia Fini («La XVI sia una legislatura costituente») che Schifani, hanno pronunciato discorsi d'insediamento pieni di riferimenti al dialogo sulle riforme nella «reciproca legittimazione delle parti» e di omaggi ad alcuni esponenti della sinistra (Napolitano, Marini e la Finocchiaro, sempre «composta e corretta»). Parole evidentemente non casuali o di circostanza, che si aggiungono alla presidenza della Commissione Lavoro che potrebbe essere offerta a Ichino.

Aperture che il Pd non deve assolutamente lasciar cadere nel vuoto, perché non sono che la ripresa di un discorso che lo stesso Veltroni aveva avviato prima della campagna elettorale e, in qualche modo, dimostrano che nonostante la bruciante sconfitta il Pd può davvero essere protagonista di una "nuova stagione" di cui, anche dall'opposizione, potrà raccogliere i frutti. Non solo riforme istituzionali, anche lavoro, merito, tasse, sicurezza. Veltroni dovrà incalzare il governo affinché muova un metro in più nella direzione indicata dagli italiani nelle urne. Solo così potrà catturare gli sguardi proprio di coloro che il 13 e il 14 aprile si sono rivolti per la terza volta a Berlusconi e alla Lega.

Il Pd è in mezzo al guado: non deve spaventarsi della voragine a sinistra, e puntare dritto a riconquistare il centro, magari abbandonando quella spocchia che ha indotto Rutelli, preso dal panico, a ricorrere al pericolo fascista e leghista contro Alemanno.

L'ultimo morso del vampiro Visco

Per fortuna ce lo siamo tolti di vista, speriamo una volta per tutte. Ma Visco il "vampiro" ci saluta con l'ultimo, per la verità annunciato, morso: dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti on line.

«Un fatto di trasparenza, di democrazia, non vedo problemi: c'è in tutto il mondo, basta vedere qualsiasi telefilm americano», dice l'ex viceministro. Iniziativa «mai sottoposta all'attenzione del Garante della privacy», replica il Garante stesso, il quale però - si ricorda nei provvedimenti di pubblicazione - avrebbe fornito il proprio via libera con pareri del 17 gennaio 2001 e del 2 luglio 2003.

Non so come funzioni negli Stati Uniti (anche se non credo che le dichiarazioni siano on line), ma in ogni caso speriamo che il nuovo governo cancelli quanto prima questa ennesima aberrazione del "terrorismo" fiscale di Visco, capace solo di scatenare invidie e delazioni (che per lo più si rivelerebbero infondate, con aggravio per l'Agenzia delle Entrate) tra vicini di casa, parenti e colleghi di lavoro.

E per una volta siamo d'accordo con Beppe Grillo, che pone una questione che non ci pare affatto secondaria: «Dopo l'indulto che ha liberato le carceri questo ex governo di imbelli, presuntuosi e deficienti fornisce ai criminali le informazioni sul reddito e l'indirizzo di casa dei contribuenti. Pagare le tasse così è troppo pericoloso, meglio una condanna per evasione fiscale che una coltellata o un rapimento». Secondo Grillo, infatti, con la pubblicazione online dei redditi «i rapimenti di persone saranno facilitati, il pizzo potrà essere proporzionato al reddito dichiarato. La criminalità organizzata non dovrà più indagare, presumere. Potrà andare a colpo sicuro collegandosi al sito dell'agenzia delle entrate. I nullatenetenti e gli evasori non avranno comunque nulla da temere. Chi paga le tasse sarà punito, chi ne paga molte potrà essere sequestrato, taglieggiato, rapinato».

Le dichiarazioni dei redditi sono già oggi pubbliche e accessibili, ma pubblicarle on line è cosa ben diversa. Chiunque volesse, può sapere quanto dichiara un suo concittadino, ma deve inoltrare una richiesta formale per essere a sua volta identificato. La tracciabilità del richiedente e le sue motivazioni sono (almeno lo spero) garanzie dovute ai contribuenti su dati comunque così sensibili.

Spleen liberista

Malinconico editoriale di Francesco Giavazzi, oggi sul Corriere della Sera, che si interroga sulle difficoltà delle politiche liberiste a convincere (e non solo in Italia).
«Sostengo i benefici della concorrenza e dell'apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenza siano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalle loro capacità».
E' questa la premessa: il liberismo non come ideologia ma come organizzazione economica che funziona, produce benessere e mobilità sociale.

Tuttavia, dando uno sguardo a ciò che accade nel mondo non sembrano in tanti a pensarla così. «Prezzi e forniture di gas — l'80% dell'energia utilizzata in Italia — sono determinati da un cartello dominato dalla Russia»; la Cina che «non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato»; negli Stati Uniti lo stato che interviene per salvare le banche dalla crisi e i candidati democratici alla presidenza, sia Obama che Hillary Clinton, che parlano con accenti protezionistici; in Francia Sarkozy che solo «a parole (e non sempre) predica il mercato»; in Italia Berlusconi che promette di salvare Alitalia con denaro pubblico, ma nessuno viene visto «sfilare perché le nostre tasse vengono usate per tenere in piedi un'azienda da anni decotta»; a Roma vince un candidato sindaco che «due anni fa aveva manifestato solidarietà per la violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni». Giavazzi si interroga su eventuali errori dei liberisti:
«Il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe meno Stato e più mercato... I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette "protezione" dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove abbiamo sbagliato?»
In questi anni, osserva, l'Italia ha perso «dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati raggiunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna». C'è il rischio di un circolo vizioso che porta al declino: «Quando un Paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato, merito, concorrenza — i fattori la cui assenza è all'origine della mancata crescita — spaventano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvita».

I liberisti, conclude Giavazzi, dovrebbero porsi «un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l'alternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità».

«Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l'Italia ammetterlo è fallito» con Prodi, ammette Giavazzi. I «nuovi interlocutori» oggi sono i «protezionisti», che «sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini». Ma «la risposta alla "mobilità planetaria" non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. E' un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l'Italia sarebbe un suicidio».

Monday, April 28, 2008

Alemanno strappa Roma alla sinistra

Disfatta personale di Rutelli e Veltroni. La sinistra estranea alla realtà del Paese, non solo del Nord.

La vittoria di Alemanno su Rutelli è sorprendente per ampiezza (53,65% a 46,35%, quasi l'8%), considerando che al primo turno era stato l'ex sindaco a staccare il candidato del PdL di circa 5 punti percentuali. Una rimonta clamorosa e un sorpasso di slancio, non il testa-a-testa che molti di noi prevedevano come ipotesi migliore possibile per Alemanno.

Rispetto al primo turno l'affluenza è calata dal 73,5% al 63% (-10,5%). Certamente Rutelli è stato tradito dalla sinistra antagonista romana, che forse ha voluto così vendicarsi per essere stata "ingannata" da Veltroni, che facendo appello al voto utile anti-berlusconiano sulla base di una rimonta inesistente ha prosciugato la sinistra determinandone la scomparsa dal Parlamento.

Ma per le sue dimensioni la disfatta di Rutelli non si può spiegare solo con l'astensionismo della sinistra estrema, che pure aveva cercato di richiamare al voto sotto la spinta del pericolo fascista. Anche i Ds, soprattutto i dalemiani, potrebbero aver tirato un brutto scherzo. Dal confronto dei voti reali tra il primo e il secondo turno sembrerebbe che Alemanno sia riuscito a ottenere tutti i suoi voti e quasi tutti quelli dell'Udc e della Destra. Ma siccome non è ipotizzabile che l'astensionismo abbia del tutto risparmiato il campo del centrodestra (da Ciocchetti a Storace), è probabile che molti elettori abbiano scelto Alemanno al ballottaggio pur avendo votato per Rutelli al primo turno, magari dopo averli visti confrontarsi in tv.

Dunque, per l'ex sindaco una sconfitta personale: è risultato antipatico a molti potenziali elettori di sinistra, che alla Provincia infatti non hanno avuto difficoltà a preferire Zingaretti ad Antoniozzi. Maturità degli elettori, che hanno saputo distinguere tra le diverse schede che si sono trovati tra le mani.

Rutelli ha perso sul tema della sicurezza? Certo, anche. Il suo approccio al problema è stato rinunciatario, le sue proposte da radical chic irritanti, veri e propri boomerang. L'immagine edificante della città e del lavoro svolto dal centrosinistra che Rutelli si è sforzato di far passare era troppo discordante con la realtà quotidiana che vivono i cittadini, che di fronte all'impostura hanno reagito: "Nun ce prova'!". Quindi, una sconfitta anche per Veltroni: è ormai chiaro che non esiste e non è mai esistito alcun "modello Roma", dal quale si è preteso di far partire una riscossa a livello nazionale: non ci hanno creduto a Roma, figuriamoci al Nord.

Ridimensionato anche il "fenomeno Lega". Dove non si presentava la Lega Nord, gli elettori comunque hanno preferito il PdL al Pd, anche al Centro e al Sud.

Chissà se questa ennesima sberla nelle urne sveglierà i vertici del Pd dal sogno di una presunta superiorità antropologica che non si è mai trasformata in superiorità politica ed elettorale. E' sempre più la sinistra dei "salotti", degli intellettuali, dei grandi giornali; rappresenta sempre più i ceti alti, che vivono comodi e non avvertono i morsi del declino. La sinistra deve modificare il suo linguaggio, reso opaco e inespressivo dal politically correct, quindi lontano dalla gente; chiamare i problemi con il loro nome e avere il coraggio di indicare con chiarezza anche soluzioni non "buoniste". Ed è forse giunto il momento che in presenza di sconfitte elettorali così cocenti venga posta la parola fine su molte carriere politiche. Serve un salto generazionale: via i cinquantenni.

L'ipotesi dei "travasi" da sinistra verso destra sostenuta anche da Ricolfi

Acquisiti i risultati definitivi delle elezioni del 13 e 14 aprile, mi era subito sembrato chiaro, seppure basandomi sulla logica e l'intuito più che su dati di cui non disponevo, quanto fosse accaduto nelle urne. La mia impressone iniziale trovava conferma nei giorni successivi dalle prime analisi sui flussi elettorali. Ciò che mi era apparso subito evidente, un travaso di voti da sinistra a destra, viene ora sostenuto anche da Luca Ricolfi, su La Stampa, probabilmente l'unico sociologo e analista politico di area riformista a tenere saldi i piedi per terra e con lucidità e onestà intellettuale a tentare di fare luce su una realtà della quale i vertici della sinistra sembrano non avere la minima percezione.
«Se fra uno o due anni si tornasse a votare, non mi stupirei che l'Udc sparisse, la sinistra estrema tornasse in Parlamento, e il Pd perdesse fra il 5 e il 10% dei suoi consensi attuali. Sto scherzando, naturalmente, perché chissà quante cose saranno successe nel frattempo. Ma queste tre finte profezie mi aiutano a dire che cosa, secondo me, si nasconde negli ultimi risultati elettorali».
Ricolfi intende proprio dire che i travasi da sinistra verso destra di cui ho parlato ci sono stati per davvero: se l'Udc ha tenuto, nonostante avesse perso oltre un terzo del suo elettorato a vantaggio del PdL, è perché ha parzialmente sopperito grazie ai transfughi da altri partiti cattolici (Udeur e Margherita). Quindi, «se il bipolarismo Pd-Pdl dovesse rafforzarsi... è verosimile che molti elettori cattolici tornino a scegliere fra i due poli principali, per non disperdere il proprio voto»; la disfatta della sinistra massimalista si deve in gran parte al fatto che è «guidata da persone del tutto prive di senso comune». Mentre un 3% di elettorato gli è rimasto fedele perché ancora ideologizzato, comunista, gli altri elettori se ne sono accorti e hanno abbandondato i partiti dei veti.

Certo, osserva Ricolfi, un «2% o 3% potrebbe tornare all'ovile, dopo essere stato inutilmente sacrificato sull'altare del Pd per "sconfiggere Berlusconi"». Dunque, anche per Ricolfi la "cannibalizzazione" c'è stata, nel senso che molti potenziali elettori della Sinistra Arcobaleno sono stati irretiti dal "sogno" della rimonta di Veltroni. Si può dire, insomma, che proprio l'antiberlusconismo viscerale li ha spinti a votare Pd, tradendo i partiti dell'alleanza rosso-verde: chi di antiberlusconismo ferisce, di antiberlusconismo perisce, verrebbe da dire. E chissà che quegli stessi elettori non si siano vendicati rifiutandosi di votare Rutelli contro Alemanno...

Ma questo non è certo un dato lusinghiero per il Pd, la cui perdita di voti verso Udc, PdL e Lega, a sua volta, è stata compensata prosciugando la sinistra.
«Capisco che i suoi dirigenti non possano che ripetere quel che ripetono: il Pd ha suscitato entusiasmo e speranze, la nostra rimonta è stata formidabile, il risultato finale è buono, in così poco tempo non si poteva fare di più, eccetera eccetera... Però ora abbiamo i dati delle elezioni politiche, i risultati di alcune consultazioni amministrative, le stime dei flussi elettorali. Ebbene, se analizzati con cura quei dati tracciano un quadro un po' diverso da quello ottimistico che molti vi hanno voluto vedere... Primo. L'arretramento della sinistra nel suo insieme è drammatico. Il distacco fra destra e sinistra, che era pari a zero nel 2006, in soli due anni è salito a quasi 11 punti, ed è oggi molto maggiore di quello del 2001, quando Berlusconi stravinse le elezioni (allora il distacco era dell'ordine di 2-5 punti, a seconda del metodo di calcolo). Tanti elettori di sinistra hanno votato a destra, pochi elettori di destra hanno votato a sinistra. Secondo. Della famosa super-rimonta di Veltroni non c'è traccia nei sondaggi della campagna elettorale, che talora segnalano un piccolo recupero, talaltra segnalano addirittura un lieve arretramento. Terzo. Secondo le analisi di flusso, che misurano gli spostamenti effettivi (fra 2006 e 2008), il Pd è riuscito ad attirare da destra a sinistra solo l'1,5% dei voti, per lo più sottraendoli ad An, mentre è parzialmente riuscito nell'opera di "cannibalizzazione" delle altre formazioni di sinistra, estrema e non. Quarto. Se si tiene conto che il Pd, oltre a Ds e Margherita, ha incorporato sotto il proprio simbolo i radicali, i voti del Pd nel 2008 sono di pochi decimali al di sopra di quelli del 2006. Quinto. Sottraendo i voti presi in prestito alla Sinistra Arcobaleno, il risultato del Pd nel 2008 risulta decisamente peggiore di quello del 2006 (-2,8), e ciò vale sia al Nord, sia al Centro, sia al Sud: al netto del "soccorso rosso", il "valore aggiunto" del Pd pare dunque negativo (con tre eccezioni: la circoscrizione Lazio 1, la Basilicata, la Puglia). Ecco perché penso che, se si votasse oggi, il Pd perderebbe colpi e si attesterebbe intorno al 30% (il valore storico del vecchio Pci), mentre la Sinistra Arcobaleno potrebbe anche tornare in Parlamento: per determinare questo esito, infatti, basterebbe che la metà di quanti hanno prestato il loro voto per "fermare Berlusconi" ritirassero il prestito, e decidessero di impiegarlo per garantire la sopravvivenza di una lista di estrema sinistra».
Se poi, osserva Ricolfi, consideriamo che «la fiducia dell'elettorato di centro-destra in Berlusconi è sempre rimasta decisamente bassa», bisogna concludere che «un popolo non certo entusiasta di Berlusconi ha preferito affidarsi per la terza volta a lui piuttosto che mettersi nelle mani di Veltroni».

Ma Veltroni, il Pd e la sinistra comunista continuano a ritenersi egemoni culturalmente e politicamente, mentre è dal 1994 che dalle urne ricevono ripetute prove del contrario. C'è una parte maggioritaria del Paese che pur insoddisfatta delle sue prove al governo continua a preferire Berlusconi. Né tutto si può spiegare con il "fenomeno Lega". Dove la Lega non c'è, comunque si registra uno spostamento di voti dalla sinistra verso l'astensione o verso il PdL, come sta dimostrando in queste ore la clamorosa rimonta di Alemanno per il Comune di Roma.

Thursday, April 24, 2008

Era meglio Air France subito, ma mi sbagliavo: la cordata c'è

Dalla qualità del partner internazionale cui Alitalia finirà dovrà essere giudicato l'operato del Governo Berlusconi nella vicenda

Al di là di quanto possa rivelarsi comprensiva la Commissione Ue, non c'è dubbio che ha ragione il Wall Street Journal: il prestito-ponte di 300 milioni concesso dal governo ad Alitalia è un aiuto di stato. I sindacati hanno fatto fuggire i francesi, trovando però in Berlusconi, che manifestava apertamente la sua contrarietà alla loro offerta, definita «irricevibile», una sponda politica importante.

Come commentava ieri Alberto Mingardi, su il Riformista, «una volta di più ce l'abbiamo messa tutta per far capire al mondo le difficoltà di fare affari in Italia».

«La politica è un crocevia obbligato. L'esecutivo uscente ha tutto il diritto di biasimare le "dichiarazioni irresponsabili" della ex opposizione: ma si farebbe fin troppo in fretta a ricordare i casi Autostrade-Abertis e Telecom-AT&T. Entrambe le volte Prodi era riuscito in qualcosa di più grave che non cedere un asset pubblico a un compratore sgradito: aveva reso impossibile ai loro proprietari di disporre liberamente di due realtà ormai privatizzate. L'immagine dell'Italia ne è uscita come sappiamo».
Continuo a pensare che avremmo dovuto svendere, e di corsa, Alitalia ad Air France. E questo a prescindere dalle condizioni offerte dai franco-olandesi. La compagnia è di fatto in fallimento, ha un valore prossimo allo zero, e quindi tutto ciò che potevamo chiedere (e che Spinetta era disposto a concedere) era la conservazione del marchio Alitalia. Bisognava svendere ad Air France soprattutto perché sarebbe stata la soluzione migliore, più rapida, di maggior prestigio e dalle prospettive di sviluppo più promettenti per l'azienda e i lavoratori.

Nel valutare l'offerta, infatti, non bisognava soffermarsi sul prezzo d'acquisto (che comunque difficilmente verrà eguagliato dai prossimi compratori), ma sul piano industriale e sull'affidabilità dell'acquirente. Con Air France saremmo entrati nel primo gruppo aereo al mondo. Era l'unica cosa che contava davvero e ieri Franco Locatelli, sul Sole 24 Ore, l'ha spiegato bene.

I criteri da seguire erano soprattutto il modello di business e la qualità del partner industriale. Sul primo aspetto, spiegava, «nell'evoluzione della moderna industria del trasporto aereo ci sono tre soli modelli di business vincenti: quello delle compagnie low cost, quello delle grandi alleanze internazionali e quello delle compagnie regionali». Nessuna «quarta via». In Europa nessuna compagnia nazionale che punti a operare su scala internazionale riesce a fare profitti e a stare sul mercato con le sue sole gambe. Da sola una compagnia nazionale può solo buttarsi sul low cost o al massimo accontentarsi di diventare un operatore regionale.

Oggi «soltanto l'ingresso in una grande alleanza internazionale può permettere ad Alitalia il raggiungimento della massa critica necessaria» per svolgere un ruolo di primo piano nel trasporto aereo mondiale. Dunque, «l'idea che possa bastare una cordata nazionale ad assicurare un futuro di lunga durata, stabile e profittevole, per Alitalia è pura illusione». Il problema quindi non è quello di trovare imprenditori italiani volonterosi o banche amiche, ma un «partner industriale efficiente, esperto e disponibile a imbarcarsi in un'avventura ad alto rischio... Più ancora di nuovi capitali, che a breve sono certamente necessari, all'Alitalia serve una gestione manageriale finalmente libera dai troppi vincoli politici e sindacali che l'hanno sempre soffocata fino ad affossarla e che solo un'alleanza internazionale può garantire». Siccome oltre ad Air France non se ne vedono molte in giro che fanno al caso nostro, provocare il ritiro della sua offerta non è stata una mossa geniale.

Già, ma adesso? Adesso non credo che Berlusconi pensi seriamente ad Aeroflot come partner industriale: trasporta un terzo dei viaggiatori di Alitalia, possiede aerei ancora più decrepiti, il record di incidenti e di piloti ubriachi. E una privatizzazione a una compagnia statale straniera suona ridicola.

Non credevo che la fantomatica cordata italiana ci fosse davvero. Invece, devo ammettere che con ogni probabilità ci sarà. Anche se continuo a ritenere che sarebbe stato più saggio e molto più semplice svendere ai francesi, devo ammettere anche che il tentativo Ermolli-Letta sembra, dalle notizie che trapelano, più serio di quanto si pensasse. L'ipotesi che si fa strada non è quella di lasciare Alitalia a una cordata di imprenditori (Ligresti e Tronchetti Provera) e banche (Intesa-San Paolo) senza alcuna esperienza nel settore, oppure al massimo ricorrendo a una fusione con AirOne di Toto.

No, il piano è rischioso ma sembra diverso. Lo stesso Oscar Giannino, che da «liberista da anni ripete che occorreva commissariarla», fa notare che «la cordata italiana è qualcosa che nella testa del premier, come di Gianni Letta o di Bruno Ermolli... è di molto diversa da come sinistra e scettici la dipingono». Nessuno di coloro che ne farà parte è «scemo», scrive Giannino: «Sanno che il traffico aereo va gestito da esperti del settore, e in una modularità complementare a una rete e a una flotta integrata nei grandi flussi e nelle grandi alleanze internazionali».

La cordata italiana, dunque, servirà per una ricapitalizzazione (700 milioni-1 miliardo di euro tra imprenditori, banche e AirOne) che consenta alla compagnia di superare lo stato di insolvenza e operare i tagli dolorosi cui accennava Berlusconi. Solo dopo, in una seconda fase, si aprirà la porta al partner estero, dinanzi al quale Alitalia potrebbe presentarsi in condizioni migliori per trattare con pari dignità un'integrazione internazionale.

«Prima o poi una soluzione per Alitalia si troverà, ma il metro di paragone di Air France-Klm resterà», avvertiva ieri Locatelli: «La nuova offerta sarà davvero migliore di quella franco-olandese? Ma migliore per chi? Per i soli dipendenti o anche per i consumatori e per i contribuenti?». La nostra impressione è che sarà certamente inferiore o uguale dal punto di vista del prezzo di acquisto e dei tagli; e che difficilmente la qualità del partner industriale sarà paragonabile al livello di Air France: Lufthansa, British, o qualche compagnia americana (con l'apertura dei corridoi atlantici e gli accordi Open Skies) sono le uniche alternative valide. Al di fuori di queste Alitalia ha solo da rimetterci e la politica avrà fallito di nuovo. E' dal nome del partner internazionale cui verrà venduta Alitalia che potremo dare un giudizio conclusivo sull'operato del governo Berlusconi in questa vicenda.

Pechino soffia sul nazionalismo, ma in Tibet ancora proteste

Mentre proseguono le solite schermaglie diplomatiche – ieri la Commissione Ue ha reiterato il suo appello nei confronti di Pechino perché si impegni in un «dialogo costruttivo e sostanziale» con il Dalai Lama, sentendosi però accusare di «ingerenze» riguardo un «affare interno della Cina» - dal Tibet trapelano in qualche modo notizie di decine di manifestazioni represse nel sangue, come riporta Claudio Tecchio (Ufficio Internazionale Cisl) sul sito Icn-News. A partire dal 10 marzo hanno avuto luogo oltre 50 proteste in altrettanti centri situati anche oltre i confini della Regione Autonoma del Tibet. La rivolta ha infatti raggiunto l'Amdo e il Kham, aree tibetane oggi province cinesi. E nonostante i morti, gli arresti, la mobilitazione di truppe e le campagne di "rieducazione patriottica", ancora la scorsa settimana ci sono state manifestazioni e scontri e la polizia (che ha avuto l'ordine di sparare su ogni assembramento «ostile») ha aperto il fuoco uccidendo molti pacifici manifestanti tibetani, in maggioranza giovani, sia laici che religiosi.

I più importanti monasteri rimangono sotto assedio e si registrano i primi casi di morte per fame. I religiosi vengono costretti ad abiurare sottoscrivendo una dichiarazione di fedeltà al regime. I tibetani sembrano aver compreso che questa potrebbe essere l'ultima occasione per ribellarsi al giogo cinese, considerando che la "Via di Mezzo", dialogante e moderata, preseguita dal Dalai Lama non ha prodotto risultati e che il regime non può permettersi stragi su vasta scala con le Olimpiadi alle porte. Le deportazioni in atto da mesi (800 mila pastori nomadi e contadini deportati nei nuovi "villaggi socialisti") e l'immigrazione di cinesi di etnia han rappresentano la "soluzione finale" della questione tibetana. Nel corso di una recente manifestazione, prima di essere ucciso dalla polizia, un giovane monaco avrebbe gridato «ora o mai più».

In vista del passaggio della torcia olimpica a Lhasa, le autorità cinesi stanno pianificando qualcosa di simile alle manifestazioni pro-Cina viste soprattutto a San Francisco. Le agenzie di viaggio nella capitale tibetana, hanno riferito a Radio Free Asia fonti del luogo, sono state autorizzate dalla Lega giovanile del Partito comunista ad organizzare «un'attività patriottica» per l'arrivo della fiaccola nel cortile del Potala Palace. Su Lhasa confluiranno almeno 20 mila persone sventolando la bandiera rossa della Repubblica popolare. Saranno chiamati ad unirsi ai cortei i turisti cinesi di etnia han, mentre sarà vietato ai tibetani.

Pochi giorni fa le autorità avevano soffiato sul nazionalismo incoraggiando in diverse grandi città manifestazioni per il boicottaggio delle merci francesi vendute dalla catena Carrefour, come rappresaglia per le contestazioni subite a Parigi al passaggio della fiaccola olimpica.

Intanto, è sempre più evidente che la Cina potrà contare su un nuovo stato satellite ai suoi confini. Nessuno poteva davvero credere che la fine della monarchia, con la rinuncia al potere da parte del re Gyanendra, potesse significare per il Nepal l'inizio di un cammino verso la democrazia. Elezioni ci sono state, certo, ma a prevalere sono stati i maoisti, la cui linea è strettamente filo-cinese. Da pochi giorni dominano il governo e come primo atto hanno duramente represso le manifestazioni degli esuli tibetani. Nei giorni scorsi la polizia ne ha arrestati oltre 400. Siamo democratici, ma non permetteremo alcuna protesta contro Pechino, ha spiegato ad AsiaNews il portavoce del governo: «Non permetteremo mai alcuna attività anti-cinese. Siamo molto severi con chi assume questi atteggiamenti. Questo non vuol dire che siamo contrari alla democrazia: abbiamo avvertito più volte i manifestanti dei rischi che corrono».

Wednesday, April 23, 2008

Rutelli è vivo e lotta, e spera nei voti arcobaleno

Prendendo come metro di giudizio la performance espressiva e il tipo di elettorato cui mirava la sua comunicazione, Rutelli si è forse aggiudicato il primo duello televisivo, a Ballarò. Qualcuno gli deve aver fatto presente il rischio di apparire stanco e ingrigito, perché ieri sera l'ex sindaco ha tirato fuori gli artigli, ha saputo mantenersi per tutta la durata della trasmissione all'attacco e persino provocatorio. Alcune escandescenze, verbali e gestuali, mi sono sembrate addirittura forzate, ma non ha mai dato l'idea di perdere la calma perché rimasto senza argomenti. Nel complesso, quindi, direi che è riuscito ad apparire energico e nient'affatto dimesso, scrollandosi di dosso il grigiore delle più recenti apparizioni. Uno dei suoi obiettivi principali era naturalmente quello di motivare gli elettori della sinistra estrema, che potrebbero essere tentati dall'astensionismo per le sue posizioni centriste e moderate degli ultimi anni.

Al contrario, Alemanno è apparso teso. Sudava e arrossiva e solo verso la fine della trasmissione è riuscito a trovare le misure giuste e a sentirsi a proprio agio. E' stato un duello molto combattuto, dai toni accesi al limite della rissa, durante il quale Alemanno non ha mancato di affondare il coltello nei molti punti molli del suo avversario, il quale però ha sempre saputo far fronte con abilità agli attacchi, a volte eludendo a volte mentendo spudoratamente o indignandosi, ma senza apparire mai davvero in difficoltà. Viceversa, Alemanno ha attraversato un momento molto critico, quando è rimasto ammutolito, messo letteralmente all'angolo da Rutelli, sulla questione Alitalia.

Ma i punti deboli di Rutelli sono formidabili e ieri sera emergevano spontaneamente dai suoi stessi interventi. Sul tema della sicurezza i suoi tentativi di chiamare in causa Milano, o il Governo Berlusconi, sono apparsi per quello che erano: diversivi. La sua gestione e quella di Veltroni portano tutta intera la responsabilità delle situazioni di degrado e abbandono che favoriscono il crimine e il loro lassismo nei confronti del problema dei rom è vissuto quotidianamente dai cittadini, che vedono da anni i campi abusivi ricomparire come funghi a poche centinaia di metri dai luoghi da dove solo pochi giorni prima erano stati sgombrati.

La stessa idea del braccialetto, su cui Rutelli ha insistito, mi sembra un boomerang. Può certamente essere un'arma di difesa di cui il singolo cittadino sceglie di dotarsi (come lo spray irritante, ben più efficace e stranamente rimasto fuori dal dibattito), ma non può divenire la soluzione avanzata da chi si candida a guidare l'amministrazione. Non solo perché presta il fianco a una facile battuta: invece dei braccialetti alle donne, cerchiamo di mettere le manette agli aggressori. Ma soprattutto, proponendo di risolvere il problema sicurezza con braccialetti e colonnine SOS, Rutelli sta lanciando un messaggio perdente e di resa dell'amministrazione. Sta dicendo: le aggressioni sono inevitabili, pensiamo a come attrezzare i cittadini per rendere più tempestivi i soccorsi. Sarà anche un aspetto importante, ma suona senz'altro come arrendevole.

Così come un'altra proposta, quella di scontare la bolletta elettrica a quei negozianti disposti a lasciare accese le luci durante la notte, tradisce implicitamente l'incapacità di garantire l'illuminazione notturna delle strade, tra le mansioni imprescindibili che competono a un'amministrazione comunale.

Alemanno ha avuto gioco facile nel ricordare come Rutelli sia stato già per 7 anni sindaco senza risolvere nessuno dei grandi problemi della città: traffico, trasporti, case. Quando l'ex sindaco, tirando fuori una mappa per mostrare tutti i cantieri aperti e il futuro tracciato delle metropolitane, ha annunciato l'imminente conclusione dell'ultimo tratto dell'anello ferroviario, il candidato del PdL lo ha "pizzicato" mostrando un articolo in cui Rutelli annunciava già nel 2000 il completamento di quell'opera.

Alemanno ci è sembrato efficace soprattutto perché ha saputo spiegare con parole semplici quale fosse a suo avviso l'essenza della scelta che i romani si trovano a dover compiere: tra il "continuismo" dello stesso gruppo di potere che gestisce Roma da 15 anni e il cambiamento da lui rappresentato. Tuttavia, a mio avviso, avrebbe dovuto sottolineare di più la sua scelta di «correre da solo», rinunciando all'apparentamento con "La Destra" di Storace, antitetica a quella di Rutelli, appoggiato da una coalizione di cui fa ancora parte la sinistra antagonista romana. Alemanno ha sì contestato a Rutelli che in Consiglio comunale è stato già eletto con la Sinistra Arcobaleno il famigerato "Tarzan", che rivendica le occupazioni delle case sfitte, ma in queste elezioni, nelle quali molti elettori forse per la prima volta hanno votato per il Pd perché non più alleato con Rifondazione comunista, il candidato del PdL avrebbe dovuto rimarcare di più il fatto che Rutelli, a differenza di Veltroni, si è presentato con la vecchia coalizione. Venerdì, a Matrix, il secondo e ultimo duello.

Sunday, April 20, 2008

A Giuliano

Metti un gattino nero che si contorce sul ciglio di una strada,
Metti una falena che rimbalza su un parabrezza,
Metti una carpa che abbocca al gioco,
Metti un sogno interrotto dall'alba,
Metti un urlo liberato senz'aria,
Metti la notte che piomba giusto al primo sorso,
Metti un diritto d'asilo revocato,
Metti che sia durato il tempo di una corsa in taxi,
Metti un amico che cade addormentato,
quasi fosse inciampato nella vita per caso.


Saturday, April 19, 2008

Una riforma federalista per la sicurezza

Si mette male per Rutelli, che non può far altro che definire «strumentalizzazioni» le polemiche seguite a una nuova aggressione a Roma, ai danni di una 31enne, pugnalata e stuprata da un romeno a poca distanza dalla stazione della periferia di "La Storta". Come non è mai esistito un "modello Napoli", è bene che si capisca che non è mai esistito un "modello Roma".

La città continua a essere insicura, sia per le orde di nomadi che vivono esclusivamente di furti, sia per il manto stradale letteralmente assassino; traffico e trasporti pubblici rimangono dopo 15 anni di alternanza Rutelli-Veltroni problemi irrisolti; l'illuminazione salta anche in quartieri centrali. E con una bassa percentuale di raccolta differenziata e la chiusura imminente della discarica di Malagrotta, già posticipata di anni in attesa del termovalorizzatore (comunque insufficiente), rischiamo di fare la fine di Napoli.

Oltre alla gestione clientelare e partitocratica di municipalizzate, commesse, consulenze, manifestazioni, permessi di costruzione, ciò che ha favorito il permanere al potere di giunte di centrosinistra nella capitale è la coincidenza che spesso nelle ultime tornate elettorali si è verificata tra voto politico e amministrativo. Il dibattito sulla città è stato troppo spesso "coperto" dalla campagna per le elezioni politiche.

La «reazione pronta» dei carabinieri di cui parla Giuliano Amato - che questa volta ha evitato alla ragazza di fare la fine di Giovanna Reggiani e dell'uomo cui è stata spaccata la testa su una pista ciclabile per rubargli l'ipod - è stata possibile grazie all'allarme lanciato da due passanti, ma il punto è che la città non dovrebbe offrire zone di degrado e di abbandono tali da indurre in tentazione.

E' vero che i sindaci non hanno poteri di polizia, ma se le stazioni sono totalmente incustodite, non vi è alcuna forma di vigilanza, né personale ferroviario, né videocamere, l'illuminazione è quasi assente, e se il Municipio segnala le situazioni di pericolo ma il Comune non provvede, allora la responsabilità non può essere che del sindaco. E' un problema che riguarda anche Milano, dove il sindaco, Letizia Moratti, è del PdL.

Non direi, invece, che mancano le leggi. Leggi e direttive europee per espellere anche tutti i rom ci sono già. E' solo una questione di volontà: fuori i barbari dall'Italia.

Sorprende che in tutti questi anni la Lega non abbia condotto una vera battaglia federalista, quella per l'abolizione dei prefetti e il trasferimento ai sindaci (almeno delle città medio-grandi) della responsabilità delle forze di sicurezza. I prefetti non sono espressione della volontà popolare e dunque non rispondono politicamente della gestione delle forze dell'ordine. Al contrario, se ne fossero responsabili i sindaci, questi ne risponderebbero davanti ai cittadini che votando potrebbero sanzionare o premiare la loro gestione della sicurezza.

Alemanno corre da solo, Rutelli cotto

Mossa astuta di Alemanno che annuncia di voler «correre da solo» (do you remember?) al ballottaggio per il Comune di Roma. Consapevole di ottenere la stragrande maggioranza dei voti al primo turno andati a "La Destra" e all'Udc senza bisogno di scendere a compromessi con i loro leader, Alemanno incalza Rutelli, che invece è stato costretto a elemosinare - invano - l'apparentamento con l'Udc e a presentarsi con Rifondazione comunista, di cui fa parte quel consigliere già eletto, di nome "Tarzan", che non è esattamente il miglior biglietto da visita per intercettare i voti moderati.

Rutelli avevamo già avuto modo di vederlo alla chiusura della campagna elettorale, all'Eur, e nella sua stanchezza avevamo letto la consapevolezza di dati piuttosto deludenti. L'ex sindaco appare stanco, pallido, ingrigito, opaco, direi prodizzato nel tentativo di dare un tocco di solennità a un eloquio che è solo lento e trascinato. Quasi cotto, se non fosse che il comune di Roma rappresenta ormai per tutta la sinistra una vera e propria "linea del Piave" e l'apparato del Pd verrà mobilitato per una battaglia all'ultimo voto.

Friday, April 18, 2008

La prima prova è la squadra di governo

Tratta con l'opposizione per una soluzione condivisa; parla con Putin per coinvolgere Aeroflot; riapre ai francesi, a patto che sia «un gruppo internazionale con pari dignità». Cos'ha in mente di fare Berlusconi per Alitalia. L'impressione è che di cordata non ce ne sia neanche mezza; che Aeroflot sia un modo per mettere del pepe alla coda di Air France. Con Putin si è parlato soprattutto di gas, della collaborazione tra Eni e Gazprom, una politica russa implementata nella più assoluta continuità dai governi Berlusconi-Prodi-Berlusconi.

Nel frattempo, rimane il nodo Formigoni-Lega (la Lega vuole il Viminale) sulla formazione del Governo. Certi giornali fremono, non gli pare vero di poter già parlare di un Berlusconi in difficoltà con la Lega. Ma non s'illudano, dureranno cinque anni e forse più. Il dissidio c'è e non è di poco conto, ma sarà difficile eguagliare l'indecoroso spettacolo cui abbiamo dovuto assistere nel 2006, quando Prodi dovette accontentare ben nove partiti componendo alla fine una pletorica squadra di oltre 100 tra ministri e sottosegretari, di cui molti incapaci e qualche impresentabile. Ma la composizione del nuovo governo sarà indicativa degli anni che ci attendono.

Riguardo le azioni che dovrebbe sviluppare, Piero Ostellino, sul Corriere di oggi, invita giornali e opinion-makers liberali ad alzare l'«asticella» delle pretese, indicando tre macro-settori di intervento liberale.

Riguardo il «conformismo culturale», nel quale rientrano la polemica sui libri di testo e il sistema educativo, Ostellino ricorda che «non spetta ai governi orientare le scelte culturali dei cittadini. Ma il governo può favorire la nascita di un mercato culturale aperto». Favorendo l'acquisizione da parte dei docenti «di una metodologia empirica della conoscenza, rispetto a quella preponderante attuale di matrice filosofico-idealistica»; riformando il sistema scolastico secondario «in modo da lasciare maggiore libertà di scelta dei programmi» a scuole, insegnanti e famiglie; «liberalizzando e privatizzando le università e mettendole in concorrenza fra loro sulle diverse modalità di insegnamento».

Un governo liberale dovrebbe poi agire contro le chiusure corporative degli ordini professionali, «abolendo il valore legale del titolo di studio» e il sistema delle «concessioni» governative, e liberalizzando «accesso ed esercizio» alle professioni.

Infine, dovrebbe delegificare e deregolamentare per contrastare «forme sempre più diffuse di "illegalità legale" e di arbitrarietà della Pubblica amministrazione», un'opera di «semplificazione legislativa in senso liberale, che riduca il numero delle leggi e regolamenti a 9-10mila in tutto». Vedremo se il prossimo governo sarà in grado di saltare l'«asticella». I nomi che ne faranno parte già ci diranno qualcosa in proposito.

Berlusconi in bilico tra Washington e Mosca

da L'Opinione

Con il ritorno al governo di Berlusconi la politica estera italiana, di cui non si è parlato affatto durante la campagna elettorale, cambierà in modo rilevante. L'Italia di Berlusconi sarà più in sintonia con gli Stati Uniti e più amica di Israele. Dopo la Germania (con Angela Merkel) e la Francia (con Sarkozy) sarà la terza grande nazione europea a tornare su posizioni più atlantiste. Berlusconi ha sempre privilegiato il rapporto con gli Usa e in Europa giocato al fianco dei migliori amici di Washington. Non c'è motivo di ritenere che non sarà così anche nei prossimi cinque anni. E' probabile, per esempio, che dica sì a un maggior impegno in Afghanistan e che sostenga con Sarkozy la candidatura di Blair alla nuova presidenza dell'Ue.

Ma quale sarà la posizione italiana sui principali dossier che dividono Nato e Russia? Berlusconi, infatti, è anche molto amico del presidente russo uscente, e futuro premier, Vladimir Putin. Lo ha sempre difeso dalle critiche europee e americane, persino sulla guerra in Cecenia e le violazioni dei diritti umani, e ripete che la Russia è ormai parte dell'Occidente. E' giunto persino a criticare apertamente le dichiarazioni di Bush sull'ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato: «La Russia si sente circondata e rischiamo, dopo che si sono fatti tanti sforzi per farla diventare parte dell'Occidente, di rovinare tutto».

Secondo Oksana Pakhlovska, docente di studi ucraini all'Università "La Sapienza" di Roma, l'elezione di Berlusconi «non è una buona notizia» per Kiev, che non potrà contare sul sostegno di Roma per l'accesso al Membership Action Plan della Nato: è un «populista», «non ha convinzioni politiche, per lui l'Europa orientale è solo un mercato». Crediamo invece che Berlusconi si rimetterà all'opinione prevalente all'interno della Nato, limitandosi ad assumere un ruolo di mediazione.

Non solo l'amicizia con Putin, anche l'endemica dipendenza energetica dell'Italia e la necessità di attirare capitali ed esportare "made in Italy" per rivitalizzare la nostra economia suggeriscono a Berlusconi di privilegiare i rapporti con Mosca.

Putin è stato il primo leader che Berlusconi ha incontrato, ieri in Sardegna, dopo le elezioni. Per parlare di un possibile interessamento di Aeroflot ad Alitalia, dei recenti attriti tra Ue e Russia, ma anche di energia. Putin, di ritorno dalla Libia, sta da tempo rafforzando l'intesa con il regime di Gheddafi e l'Algeria per le forniture di gas all'Europa. Gazprom, che a Tripoli ha siglato un accordo di joint venture con la compagnia petrolifera libica, è interessata alla costruzione di un oleodotto sottomarino dalla Libia alla Sicilia. L'Eni, ha ricordato il numero uno Aleksei Miller, è coinvolta nello sviluppo di grandi giacimenti di petrolio e di gas in Libia. «Visti i rapporti tra Gazprom ed Eni per lo scambio di asset, ci aspettiamo che anche noi potremo far parte di questi progetti». «Abbiamo buone possibilità di collaborare in progetti comuni», ha confermato lo stesso Berlusconi ricevendo Putin ad Olbia.

L'Eni sta cooperando con Gazprom ad un gasdotto sul Mar Nero, alternativo a quello europeo del Progetto Nabucco, ideato per rompere la dipendenza energetica dell'Ue dalla Russia. L'amicizia tra Berlusconi e Putin potrebbe ostacolare gli sforzi Ue per una comune politica energetica. Se è innegabile il feeling tra i due, non si deve però dimenticare che il Governo Prodi si è mosso in assoluta continuità con il precedente Governo Berlusconi per quanto riguarda i rapporti con Mosca: di «partnership strategica», sul piano politico, economico, ed energetico, parlò D'Alema al vertice di Bari nel marzo 2007.

Thursday, April 17, 2008

L'ipotesi dei "travasi" pone un problema al Pd di Veltroni

Le prime analisi sui flussi elettorali (la Repubblica; Libero) e la comparazione dei dati reali tra 2006 e 2008 confermano, anzi rafforzano, la mia impressione iniziale sui travasi da sinistra verso destra.

Circa la metà dei voti persi dai partiti della Sinistra Arcobaleno (1,2 milioni su 2,4) è finita nelle casse del Pd (600 mila) e di Di Pietro (600 mila). Dell'altra metà, certamente una quantità politicamente rilevante è finita persino alla Lega, ma parecchi dei potenziali elettori dell'arcobaleno hanno ingrossato le file dell'astensione. Di Pietro, oltre ad aver raccolto circa 600 mila voti da sinistra, ha tenuto anche la maggior parte dei suoi voti, vedendo così i suoi consensi crescere di oltre 700 mila unità. Viceversa, se il Pd si ritrova più o meno con lo stesso numero di voti che l'Ulivo si aggiudicò nel 2006 (+120 mila), che cosa ne ha fatto dei circa 600 mila voti drenati alla sua sinistra? Anche il Pd ha ceduto voti, circa 500 mila possiamo stimare, andati presumibilmente soprattutto verso l'Udc (azzardiamo 300 mila) ma anche verso la Lega (azzardiamo 200 mila). Un travaso che ha permesso a Casini di sopperire parzialmente alla fuga di voti verso il PdL (ben 1/3 del suo elettorato del 2006, cioè circa 7-800 mila). E infatti l'Udc si ritrova con 500 mila voti in meno rispetto al 2006. Ma anche i voti del PdL, se più o meno nel totale corrispondono a quelli presi da FI e An nel 2006 (-120 mila) non sono gli stessi di due anni fa. E' ipotizzabile infatti che ne abbiano incassati ben 800 mila dall'Udc ma ne abbiano persi circa 500 mila in uscita verso la Lega e altri 400 mila verso "La Destra". La Lega, dunque, ha beneficiato di quasi 1,3 milioni di voti in più rispetto al 2006, pescando un po' da tutti: 500 mila dal PdL, altri 600 mila tra Pd (200 mila) e Sinistra Arcobaleno (400 mila), recuperando qualcosa dall'astensionismo.

Non siate troppo rigidi nel considerare le cifre. Ho cercato di individuare i flussi maggiori a fronte di flussi minori che ci saranno sicuramente stati ma che tra uscite ed entrate per lo più si annullano.

Se questa lettura del voto fosse corretta, bisognerebbe concludere che al contrario di quanto Veltroni e alcuni giornali e commentatori hanno sostenuto in campagna elettorale, il PdL si sia spostato non a destra, ma al centro dal punto di vista elettorale. L'Udc di Casini sarebbe sempre più posizionata letteralmente con il piede in due staffe. E' comprensibile che Veltroni non voglia caricarsi, soprattutto politicamente, i voti presi alla sua sinistra, perché significherebbe poi doverli rappresentare e ammettere uno spostamento a sinistra della base elettorale del Pd, in contrasto con lo scopo dichiarato di sfondare al centro.

Sebbene il risultato dell'Udc non sia tale da alimentare le velleità terziste e da ago della bilancia di Casini - o, forse, a maggior ragione per questo - D'Alema manda segnali inequivocabili di volerlo reclutare come nuova componente centrista in un'alleanza con un Pd rappresentante unico della sinistra. Un disegno che Veltroni dovrebbe contrastare, per difendere la sua idea di partito a «vocazione maggioritaria», rinnovando la disponibilità al dialogo con Berlusconi soprattutto per consolidare il bipartitismo. Perché, d'altra parte, dovrebbe regalare a Casini la posizione di utilità marginale che per anni il Cav. ha concesso all'Udc?

Il «complesso dei migliori» aiuta la sinistra, ma solo nei sondaggi

Su questo blog si è parlato molto di sondaggi ed exit poll, del loro fallimento anche in queste elezioni. La maggior parte dei sondaggi pre-elettorali registravano fino a due settimane prima del voto un forte avvicinamento tra i principali contendenti, fino ad un 4,5% di differenza. Per chi non ha seguito le maratone elettorali in tv dopo le 15.00 di lunedì, ecco un breve riassunto. I primi exit poll Consortium danno Berlusconi e Veltroni distaccati di soli 2 punti percentuali. Praticamente un testa a testa. Poco prima delle 16 la prima proiezione della Consortium di Piepoli (per Rai e Sky Tg24) assegna un distacco di 4 punti. Verso le 16.30-17 la svolta. Esce la prima proiezione Ipsos (per Mediaset). E' una doccia gelata per i sogni di rimonta del Pd: il distacco è di ben 9 punti. Nel pomeriggio si susseguono le proiezioni di Consortium che si avvicinano sempre più alla stima - poi rivelatasi corretta - di Ipsos. Il paradosso è che Emilio Fede ha dato i numeri giusti e la Rai (servizio pubblico) quelli tendenziosi.

Ma perché sondaggi ed exit poll sovrastimano sempre il centrosinistra e sottostimano il centrodestra? Nel 2006 alla chiusura dei seggi proclamavano la vittoria netta di Prodi e fu pareggio. Quest'anno hanno diffuso l'idea quasi di un testa a testa e si è rivelato un trionfo per Berlusconi. La risposta che più mi convince, e che qui ho avanzato più volte, è la stessa di Luca Ricolfi, su La Stampa di oggi.

I sondaggi sono ingannati dalla "rispettabilità sociale" della risposta. Gli elettori che scelgono un'opzione elettorale non politically correct tendono a nascondersi, perché «quando una persona viene intervistata le sue risposte non sono influenzate solo da quel che l'intervistato pensa, ma anche da quel che l'ambiente intorno a lui gli suggerisce di pensare... La società, il gruppo di riferimento, i media definiscono continuamente ciò che è bene, ciò che è appropriato, ciò che è corretto, ciò che è "in". Simmetricamente definiscono ciò che è male, ciò che è inappropriato, ciò che è scorretto, ciò che è "out". Se in una società le istituzioni richiamano continuamente determinati valori (ad esempio la solidarietà) e stigmatizzano sistematicamente determinati atteggiamenti (ad esempio l'ostilità verso gli immigrati), una parte degli intervistati preferisce non rivelare le proprie preferenze se esse sembrano confliggere con ciò che è considerato socialmente desiderabile».

A livello politico la sinistra continua a considerare «moralmente inferiore chi vota per forze politiche cui essa - la parte sana del Paese - non riconosce piena legittimità democratica», una sorta di «partiti maledetti».
«Per molti cittadini progressisti o illuminati se voti Forza Italia come minimo sei un affarista, un mafioso, o un abbindolato. Se voti Lega sei una persona rozza, egoista e intollerante. Se voti i post-fascisti non hai diritto di sedere al desco dei veri democratici. Se sei di sinistra e ti capita di comprare il Giornale ti guardano come se avessi acquistato un rotocalco pornografico (è successo a me)».
Una disapprovazione che non è «quasi mai esplicita», ma, spiega Ricolfi, che «genera un clima che definirei di intimidazione dolce. Tutti possono dire e fare quel che vogliono, ma sanno anche che - in molti contesti - saranno giudicati severamente se confesseranno di aver votato determinati partiti. C'è una parte del Paese che si sente nella posizione di giudicare gli altri, e c'è una parte del Paese che - proprio per questo - si sente permanentemente sotto esame». In questo meccanismo è caduto Veltroni quando ha sfidato Berlusconi a sottoscrivere quattro principi di «lealtà repubblicana», dando l'idea di sentirsi autorizzato a fornire «patenti di legittimità democratica all'avversario politico».

Molti elettori di destra se ne fregano, ma una parte non trascurabile di essi preferisce nascondersi: sul lavoro, nelle cene, al bar, ma anche nei sondaggi. Se uno pensa di votare un partito un «partito maledetto» - di cui i «sinceri democratici» dicono tutto il male possibile - può essere tentato di non scoprirsi, magari dichiarandosi indeciso, o astensionista.

Si tratta di un fenomeno, quindi, che deriva da quel «complesso dei migliori» che già Ricolfi, tra molti altri, aveva individuato come «una delle grandi malattie della cultura di sinistra».

Wednesday, April 16, 2008

Già i primi dissidi?

Note positive e note negative dalla prima conferenza stampa dei quattro leader della coalizione vincitrice. Innanzitutto, possiamo star certi che quando Berlusconi parla di «momenti difficili» non si riferisce a nuove tasse. Ed è già qualcosa. Ma, pare, a «un forte rinnovamento per fare le riforme necessarie che avranno anche contenuti di impopolarità».

E' stato fatto il nome di Giulia Bongiorno per il Ministero della Giustizia ed è un altro segnale positivo.

Negativo, invece, che il premier in pectore abbia frenato sui nomi della squadra di governo nascondendosi dietro il ruolo del presidente della Repubblica, da non scavalcare: «Ricordo a tutti che è il capo dello Stato a nominarli su proposta del presidente del Consiglio e io non lo sono ancora».

Segno che nonostante si definiscano «distesi» i rapporti e si assicuri che non c'è «alcuna difficoltà nella composizione della squadra» di governo, questa in realtà è ancora in alto mare e qualche intoppo sembrerebbe esserci. Sensazione confermata dalle parole di Bossi all'uscita dall'incontro: «Non si è combinato niente. Finché non si fanno i nomi, prima di fare l'elenco completo passano secoli».

Altro segnale negativo su Alitalia. Da una parte Berlusconi evoca «un'altra possibilità, che è quella di tornare alla primitiva soluzione e cioè la formazione di un grande gruppo internazionale con pari dignità delle tre compagnie aeree», riferendosi ad Alitalia, Air France e Klm. Ma dall'altra sembrerebbe tornare in campo la soluzione russa, avvalorata dall'imminente incontro di Berlusconi con l'"amico" Putin. «Con nuove basi di gara, con la possibilità di una partecipazione di Aeroflot e con una proposta senza dubbio prenderemo in considerazione» la cosa, spiega, all'agenzia Apcom, Lev Koshlyakov, il numero due della compagnia di bandiera russa, che potrebbe addirittura inviare un suo manager in Sardegna per l'incontro Berlusconi-Putin.

Davvero meglio i russi, supponiamo con una compagnia sotto il diretto controllo dello Stato, che i franco-olandesi?

Per quanto riguarda l'accenno di Berlusconi a possibili ministri del Pd la riteniamo una boutade.

Il travaso Sinistra-Pd-Lega e i veri miracolati

Non credo affatto al travaso diretto di voti dalla sinistra massimalista e comunista alla Lega Nord. Certo, è una teoria comoda per il Pd, ma ci dev'essere stato un passaggio intermedio:
Ulivo -> Udc + Lega
Sinistra Arcobaleno -> Pd + Di Pietro + astensione.

Mi sembra poco probabile che un elettore di Bertinotti o di Diliberto voti la Lega. E' molto più probabile che, se scoraggiato si astenga, o se affabulato dal sogno della rimonta voti Veltroni o Di Pietro in funzione anti-berlusconiana. Se fosse così, non sarebbero Berlusconi e la Lega ad essersi spostati a destra dopo aver rinunciato all'Udc, ma Veltroni e il Pd ad essersi spostati a sinistra per fare spazio al centro, guarda un po', proprio alla Lega.

Ne parlo più ampiamente in questo articolo per Ideazione.com.

Ma i veri miracolati di queste elezioni sono i radicali, che vedono tutti eletti i 9 candidati nelle liste del Pd. Non è vero che Pannella ha mentito e Veltroni ha mantenuto la promessa dei «9 eletti sicuri», come scrivono oggi, da sponde opposte, Renato Farina su Libero e Adriano Sofri nella sua "piccola posta" su Il Foglio, i quali devono essere senz'altro più rincoglioniti di Pannella se non hanno ancora capito come funziona la legge elettorale con la quale si è votato.

I candidati radicali sono stati tutti eletti solo perché la Sinistra Arcobaleno non ha ottenuto il 4% alla Camera. Il Pd si è trovato così a spartirsi il 45% dei seggi di minoranza solo con l'Udc e con Di Pietro, mentre era previsto che almeno alla Camera la ripartizione dovesse riguardare anche l'alleanza rosso-verde. Sorprende l'ignoranza di alcuni commentatori.

E c'è da rimanere davvero ammirati del cinismo dei radicali, che senza il minimo sforzo riescono addirittura a migliorare la loro presenza parlamentare, nonostante la sconfitta della coalizione. Entrano al Senato e aumentano di due unità il numero di parlamentari. Ciò a fronte del progressivo azzeramento del loro elettorato, come dimostra il dato su Roma, dove presentandosi con il simbolo "Lista Bonino-Radicali" ottengono lo 0,68% dei voti. Tanto per capirci, la lista "Forza Roma" ha preso lo 0,32%. E nella capitale storicamente raggiungevano percentuali al di sopra della loro media nazionale. Dunque, dovrebbero ringraziare Veltroni per non avergli fatto presentare il loro simbolo collegato, che' probabilmente avrebbero fatto la fine di Boselli.

E a proposito di Roma, andiamo verso un ballottaggio interessante. Rutelli è provatissimo da un deludente 45,7 (inferiore di un punto al totale dei voti presi dalle liste che lo appoggiano), mentre Alemanno è lanciatissimo dopo aver sfondato quota 40%. Sarà una sfida all'ultimo sangue, perché dopo la sconfitta Roma per il Pd e la sinistra diventa una linea del Piave, ma Alemanno potrà sfruttare l'effetto traino della vittoria "landslide" a livello nazionale.

Tuesday, April 15, 2008

Italian Voters Give Berlusconi One Last Chance

da Pajamas Media

Silvio Berlusconi has won a third term as Italy's prime minister with an unexpectedly landslide victory. People of Freedom and its two allies have gained a 9-point lead over rival Walter Veltroni. They won 47 percent of the vote, which ensures them an overall seat majority both in the Chamber of Deputies and in the Senate. It was a great demonstration of strength and political vitality by the 71-year-old Berlusconi.
(...)
Democrats have to provide their party with new political language and culture, which they need to come back into power. They also have to commit themselves to an open-minded and thoughtful opposition, by avoiding the temptation to conform with conservative and regressive demands by the trade unions and the communist left. Rather, they have to urge Prime Minister Berlusconi to accomplish bolder reforms and more changes. If hate against the political enemy prevails, there will be a new strategic failure of the reformist left. If Mr. Veltroni will be reliable as a "rupture" leader, he will build a new left on today's ruins.

Leggi tutto su Pajamas Media

UPDATE: ... E ora le riforme (su Ideazione.com)

Gli italiani si concedono a Silvio III

I risultati definitivi.
Senato, tutte le sezioni:
PdL 38,17% (147)
Lega Nord 8,06% (25)
MpA 1,08% (2)
Totale: 47,32% (174)

Pd 33,69% (118)
Di Pietro 4,31% (14)
Totale: 38% (132)

Udc 5,69% (3)
Sinistra Arcobaleno 3,2% (--)
La Destra 2,09% (--)
Socialisti 0,86% (--)
Altri (6)

Camera, tutte le sezioni:
PdL 37,38% (276)
Lega Nord 8,29% (60)
MpA 1,1% (8)
Totale: 46,8% (344)

Pd 33,17% (217)
Di Pietro 4,37% (29)
Totale: 37,54% (246)

Udc 5,6% (36)
Sinistra Arcobaleno 3,08% (--)
La Destra 2,4% (--)
Socialisti 0,97 (--)
Altri (4)

Mi ritengo soddisfatto dell'esito di queste elezioni. Innanzitutto, perché è stato evitato il "male maggiore": una vittoria zoppa di Berlusconi. Dato per scontato che avrebbe facilmente ottenuto il premio di maggioranza alla Camera, un pareggio al Senato sarebbe servito solo a ritrovarci di nuovo impantanati. E l'Italia altri due-tre anni di non governo non se li poteva proprio permettere. Meglio così, dunque.

Soddisfatto perché gli elettori hanno approvato la tendenza bipartitica avviata con la nascita di Pd e PdL, consegnando ai due principali partiti il 72% dei voti e alle due coalizioni addirittura l'85%. Era essenziale che gli elettori mandassero un segnale chiaro alle velleità terziste di Casini. Da non sottovalutare l'esclusione totale dal Parlamento dei comunisti e dei verdi, cioè delle forze politiche più anti-moderne, il partito del "No". Adesso i fratelli Pecoraro Scanio potranno prestare direttamente le loro mani per l'ambiente nel napoletano. Per questo non finiremo mai di ringraziare Veltroni, che ha indotto con destrezza molti dei potenziali elettori della Sinistra Arcobaleno a votare Pd, nell'illusione di una rimonta che non c'è minimamente stata. Ha sfruttato il loro anti-berlusconismo per "cannibalizzare" la sinistra.

Un esito positivo anche perché ha dimostrato a Veltroni che per rendere credibile un nuovo partito non basta qualche faccia nuova e sprovveduta, una mano di vernice qua e là a coprire i segni del tempo. L'opposizione sarà per Veltroni e il Pd il vero banco di prova. E' nei prossimi cinque anni che il leader del Pd dovrà dimostrarsi capace di una vera "rottura" con il passato. Ricadrà nella solita, sterile opposizione a Berlusconi, appiattendosi sulle posizioni conservatrici dei sindacati e gridando alla "macelleria sociale" per qualsiasi timido tentativo di riforma, o incalzerà Berlusconi perché realizzi riforme più coraggiose e cambiamenti più drastici?

Se avessimo avuto un esito più incerto al Senato, Veltroni avrebbe trascorso i prossimi anni a cercare di cucinarsi Berlusconi come Berlusconi ha fatto con Prodi. Ora, invece, non ha più alibi e dovrà utilizzare il tempo all'opposizione in modo più proficuo per il rinnovamento del Pd. Ne sarà capace?

Rispetto al mio pronostico ho indovinato l'ampio distacco (ben 9 punti) tra Berlusconi e Veltroni (chiunque non si fosse bevuto la propaganda dei principali quotidiani ne avrebbe avuto sentore), sottostimando però entrambi perché non ho saputo prevedere l'exploit della Lega e il crollo della Sinistra Arcobaleno. Anche per quanto riguarda il dato dell'affluenza sono stato troppo pessimista. Un calo fisiologico per la seconda elezione in due anni: 80% e non 78, a dimostrazione che gli italiani blaterano blaterano ma poi a votare ci vanno.

L'unica nota negativa è che il grande successo ottenuto dopo una campagna dal profilo ben poco liberale dal punto di vista economico rischia di rafforzare in Berlusconi e nella Lega le tendenze assistenzialiste e protezioniste. Vigileremo. E' anche vero però che con una vittoria così netta e una coalizione che si proclama più coesa non ci sono più alibi: o riforme o morte.

Monday, April 14, 2008

L'Italia si fida ancora di Berlusconi

Dopo la brutta figura dei soliti exit poll che hanno sovrastimato il centro-sinistra, Consortium (l'istituto di Piepoli che ha curato i dati per Rai e Sky Tg24) si è prontamente corretto, diffondendo proiezioni che nel corso del pomeriggio si sono sempre di più avvicinate a quelle subito diffuse da Ipsos (l'istituto di Pagnoncelli che ha lavorato per Mediaset).

Ma a questo punto è meglio passare ai dati reali, cioè ai voti davvero scrutinati.

Senato: 59.780 sezioni su 60.048
PdL + Lega + MpA 47,29%
Pd + Idv 38,04%
Udc 5,6%
SA 3,2%
Destra 2,1%
Socialisti 0,8%

Camera: 60.657 sezioni su 61.062
PdL + Lega + MpA 46,7%
Pd + Idv 37,6%
Udc 5,6%
SA 3,1%
Destra 2,4%
Socialisti 0,9%

Berlusconi ha vinto a valanga e sarà per la terza volta primo ministro. Sia alla Camera che al Senato dovrebbe avere una salda maggioranza di seggi. A quanto pare, alla fine di una campagna in cui la gente ha guardato più alla storia politica dei due contendenti che ai programmi, gli italiani hanno dato a Berlusconi l'ultima chance per cambiare il Paese. Non si sono fatti incantare dal "nuovismo" di Veltroni, che non si è potuto smarcare dalla catastrofica eredità del Governo Prodi e, forse, neanche avrebbe potuto farlo visto il suo passato. Una grande dimostrazione di forza dell'anziano leader, che fa volare il suo nuovo soggetto politico fino a sfiorare il 40% dei voti (oltre il 26 di FI e il 12 di AN). Ha avuto più successo la fusione rapida tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, promossa da Berlusconi in pochi mesi e battezzata nelle urne, che la lunga gestazione del Partito democratico (fermo agli anni di Cristo: 33%), in cui sono confluiti Ds e Margherita dopo anni di dibattiti. Grande successo anche per la Lega Nord, che ha intercettato il malcontento dei ceti industriosi del Nord.

Sondaggi di parte

Le prime proiezioni sono molto negative per il Pd rispetto all'exit poll. Non solo non sarebbe più il primo partito, ma tra le due coalizioni ci sarebbe un distacco di oltre 4 punti percentuali. Secondo Consortium per Rai e Sky Tg24, al Senato: PdL + Lega 43,7%; Pd + Idv 39,1%; Udc 5,8%, SA 4,9%.

Ma fa irruzione la prima proiezione di Ipsos per Mediaset, secondo la quale sarebbe un trionfo per Berlusconi: PdL + Lega 47,8%; Pd + Idv 38,1%; Udc 5,6%, SA 3,3%, La Destra 2,1%. Comunque, questi dati confermerebbero che i consensi sono slittati tutti verso destra. Da Rifondazione a Pd (e a Di Pietro); dall'Ulivo all'Udc; dall'Udc al PdL. Con la Sinistra Arcobaleno che è rimasta senza travaso ed è crollata, favorendo Berlusconi nell'attribuzione dei seggi a Palazzo Madama. Tiene l'Udc, ma falliscono le sue velleità centriste.

Il susseguirsi dei dati però non fa che accentuare la sgradevole impressione che Rai e Mediaset diffondano previsioni di parte: con la Rai favorevole a Veltroni e Mediaset a Berlusconi. Come nel 2006 gli exit poll attribuirono subito la vittoria dell'Unione, mentre in serata era chiaro un pareggio, così quest'anno gli exit poll sono partiti dando l'idea di un testa a testa (solo -2%) per poi venire smentiti dalle prime proiezioni. Gli exit poll sovrastimano sempre il centro-sinistra. Come mai?

UPDATE: nelle seconde proiezioni Consortium aggiusta il tiro e risulta più netta la vittoria del PdL, che sul 44% del campione conduce sul Pd di quasi 7 punti percentuali (44,9% a 38,2%)

Dagli exti poll vince la fifa dei sondaggisti

I primi exit poll (Consortium per Rai e Sky Tg24) sono scandalosi. Non perché a favore di una o dell'altra coalizione, ma perché danno forchette ridicolmente ampie, inservibili. In questo modo saremmo stati tutti capaci di fare previsioni senza muovere un passo da casa.

Al Senato:
PdL + Lega + MpA tra il 39 e il 46% (una forchetta di ben 7 punti).
Pd + IdV tra il 36,5% e il 42,5% (forchetta di ben 6 punti).

Alla Camera:
PdL + Lega + MpA tra il 38,5 e il 45,5%.
Pd + IdV tra il 37 e il 43.
(Anche qui forchette tra i 7 e i 6 punti).

Comunque, se gli exit poll dovessero essere confermati dallo scrutinio, il Pd sarebbe il primo partito italiano. Exploit della Lega e dell'Idv. Male l'Udc, malissimo la Sinistra Arcobaleno. Per lo strano scherzo del sistema elettorale, se il 5% della SA fosse distribuito uniformemente sul territorio nazionale sarebbe soprattutto Berlusconi ad avvantaggiarsene, conquistando una maggioranza di seggi piuttosto netta al Senato.

UPDATE: Qualcuno deve aver fatto notare a Piepoli l'eccessiva ampiezza delle forchette, che sono state prontamente ridotte a 4 punti. Alla Camera PdL + Lega + MpA tra il 40 e il 44%, Pd + IdV tra il 38 e il 42%. Al Senato PdL + Lega + MpA tra il 40,5 e il 44,5%, Pd + IdV tra il 37,5 e il 41,5.

Saturday, April 12, 2008

Italian Elections Unlikely to Provide Needed Reform

da Pajamas Media

Italians are looking forward to the end of this campaign. They are impatient to decide who will govern their country for the next five years — even though they can't stand their privileged, unaccountable, inconclusive, and onerous politicians. These politicians are also referred to as "The Caste", and they represent the same old faces of the past.

The electorate is exhausted and bored. It has been a flabby campaign without any debate over proposals. No TV spots and no face-to-face debates, which were banned by the absurd "Par Condicio" Act. Italians are numbed by a dangerous cocktail of resignation and generic fear of the future. They can't derive hope from an effectual government. This means that many Italians will probably desert the polls on April 13-14 — perhaps many more than did so in the 2006 election.

The challenge for Chigi Palace, the House of Italian government, is between Silvio Berlusconi and Walter Veltroni. If Mr. Berlusconi wins, he will be Prime Minister for the third time.

Prosegue su Pajamas Media

Friday, April 11, 2008

Il mio non endorsement e un pronostico

Qualche grande giornale, scottato dall'esperienza del 2006, ha già abbandonato la pratica dell'endorsement, una trasparenza sempre dovuta al lettore, soprattutto se tra le righe la scelta è compiuta.

Per motivi diversi anche qui, al contrario che nel 2006, non troverete un endorsement. Eserciterò il mio diritto di voto ma senza la convinzione che ti spinge a scrivere un vero e proprio endorsement. Dunque, mettiamola così.

Alla Camera Berlusconi non avrà problemi a conquistare il premio di maggioranza, ma per consolidare l'assetto bipartitico (spianando la strada nella prossima legislatura ad una riforma elettorale in questo senso) è essenziale che entrambi i principali partiti, Popolo della Libertà e Partito democratico, superino insieme il 70% dei consensi. Non è molto importante la percentuale del PdL, perché comunque basterà a ottenere il premio alla Camera, seppure il risultato potrebbe non essere esaltante, sia per la disaffezione dell'elettorato liberale che per il voto di coloro che alla Camera decideranno di "aiutare" "La Destra" e l'Udc. E' importante invece che non ci sia il crollo del Pd e che Veltroni lo tenga al di sopra della soglia minima del 32%.

In una campagna in cui molto si è parlato del voto per il "male minore", a me è sempre apparso evidente il "male maggiore", che può derivare non dalla vittoria di uno o dell'altro, ma da una vittoria zoppa come quella di Prodi nel 2006. Il male maggiore è un "pareggio" di seggi al Senato e il Lazio è la regione più in bilico: PdL e Pd sono neck-and-neck. Avremmo una situazione di stallo che aprirebbe la strada ad una Grossa Coalizione sul modello tedesco; oppure, come ritengo più probabile, se Berlusconi vincesse alla Camera ottenendo uno striminzito margine di seggi al Senato, Veltroni cercherebbe di cucinarselo in un paio d'anni come Berlusconi ha fatto con Prodi, anche considerando che nei prossimi due anni ci sono tre insidiosi appuntamenti elettorali (europee e referendum nel 2009 e regionali nel 2010). Non sarebbe certo da rimpiangere la fine anticipata del Cav., solo che questa volta l'Italia non può assolutamente permettersi altri due anni di non-governo.

Ecco, voterò alla luce di queste considerazioni. E adesso un pronostico (ovviamente solo per la Camera), che - è bene specificarlo per non essere accusati di violare la legge - non si fonda su alcun sondaggio né su alcuna rilevazione scientifica. Giusto un giochino. E lunedì vediamo se ci ho preso.

PdL + Lega + MpA 44,4%
Pd + Di Pietro 35,5%
Sinistra Arcobaleno 8,1%
Udc 4,8%
La Destra 4,0%
Socialisti 1,2%
Altri 2%

Thursday, April 10, 2008

La guerra mediatica di Pechino rivela il volto del regime

Atene, Londra, Parigi, San Francisco. Ad ogni passaggio nelle capitali occidentali sono puntuali le contestazioni degli attivisti pro-Tibet, che costringono le autorità a modificare i percorsi e a volte persino a nascondere la torcia olimpica al pubblico, a celebrarne il transito quasi in clandestinità. Uno stillicidio che ha già inferto non pochi danni all'immagine trionfalistica che Pechino voleva attribuire all'evento. Le autorità cinesi osservano da lontano, impotenti, quanto accade, malcelando il proprio nervosismo dietro comunicati freddi e stizziti, in cui si accusano i dimostranti di contraddire lo spirito olimpico, di voler «sabotare» i Giochi e, nel caso di San Francisco, di voler «danneggiare le relazioni sino-americane». Ma non mancano le critiche anche alle autorità pubbliche occidentali, accusate di non saper garantire alla fiaccola un cammino tranquillo.

Al presidente del Cio, Jacques Rogge, che ha osato chiedere alla Cina di rispettare gli impegni sui diritti umani presi proprio con il Cio come condizione per l'assegnazione dei Giochi, e rispetto ai quali è in flagrante inadempienza, Pechino ha risposto esortandolo a non introdurre nelle Olimpiadi «questioni politiche irrilevanti». Nei confronti degli uiguri Pechino gioca la carta dell'allarme terrorismo. Sarebbero stati smantellati, nello Xinjiang, regione dell'estremo ovest a maggioranza musulmana, due gruppi che preparavano attentati e rapimenti degli atleti, ha reso noto un portavoce del Ministero della Pubblica sicurezza.

Il premier britannico Brown ha annunciato che non si recherà alla cerimonia inaugurale dei Giochi. Sarkozy deciderà a seconda dell'evoluzione della situazione e consultandosi con i partener europei. Anche Bush, che aveva dapprima confermato la sua presenza, lascia trapelare che a disertare si fa sempre in tempo, mentre Condoleezza Rice ipotizza l'apertura di un consolato americano in Tibet. Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui ipotizza il boicottaggio della cerimonia di apertura da parte dei leader Ue se la Cina non dovesse aprire un dialogo con il Dalai Lama. Per una volta le capitali europee non si sono voltate dall'altra parte, ma stanno esercitando pressioni su Pechino e ragionando con discrezione sul da farsi, per giungere all'appuntamento dell'8 agosto con una posizione comune.

Il Gigante cinese sperimenta un isolamento, quanto meno morale, da parte dell'Occidente a cui da anni non era più abituato. E reagisce chiudendosi a riccio, tetragono, e tentando l'unica arma che possiede: la propaganda. Ma il regime sbaglia se crede di poter trattare l'opinione pubblica mondiale con gli stessi metodi con i quali inganna i suoi cittadini. La tesi del complotto anti-nazionale ordito da «cricche criminali» è la classica reazione da dittatura accerchiata, che non può far breccia presso i governi e le opinioni pubbliche occidentali. Anzi, ha l'effetto contrario. Il regime nazional-comunista tenta di far leva sull'orgoglio dei cinesi, tenuti all'oscuro di ciò che realmente accade in Tibet, ancora off limits per giornalisti e diplomatici.

A Pechino proprio non riescono a comprendere che i governi occidentali non possono chiudere entrambi gli occhi pensando esclusivamente agli interessi economici perché hanno delle opinioni pubbliche cui rispondere. E' il concetto stesso di opinione pubblica, la sua influenza sulla politica, che la nomenklatura cinese non riesce nemmeno a concepire.

Altro che dialogo. Come rivela Asianews, da Pechino partono le direttive di una «feroce guerra mediatica» per contrastare la cattiva pubblicità sulle Olimpiadi da parte della «manipolata stampa occidentale» e per delegittimare il Dalai Lama. Il Dipartimento della propaganda ha diffuso una circolare a editori di giornali e televisioni di Stato per spingerli a pubblicare in fretta la quantità maggiore possibile di notizie e immagini che difendano la linea ufficiale sul Tibet e sulle proteste olimpiche. Sospesa la consegna del silenzio, da ieri i giornali, come il People's Daily, si sono riempiti di attacchi contro coloro che «umiliano lo spirito olimpico», persone «blasfeme» che si oppongono ai «popoli del mondo amanti della pace». Intanto, da Tokyo, il Dalai Lama reagisce con fermezza: «Non siamo anticinesi e nessuno ci può dire di stare zitti. Fin dall'inizio siamo stati favorevoli alle Olimpiadi in Cina, sono rattristato per i tentativi di demonizzarmi da parte del governo di Pechino. Io sono umano, non sono un demone».

Rieccomi

Riprendo le trasmissioni dopo alcuni giorni di sospensione coatta, dovuta a problemi tecnici di blogger, il cui motore anti-spam ha incluso il mio blog tra quelli di spam da bloccare. Dopo i lunghi controlli del caso me l'hanno finalmente sbloccato. Non vi preoccupate, in questi giorni ho preso appunti. Intanto, ecco qualcosa che forse vi siete persi:

La Via del Dalai Lama è sbagliata? Una nuova politica con la Cina serve anche all'Occidente
(9 aprile)

Vertici positivi per la Nato, Mosca non è in grado di porre veti
(8 aprile)

Per il Pd il vero banco di prova sarà all'opposizione
(8 aprile)

Pechino ha fatto male i suoi calcoli; ma noi un giorno arrossiremo
(5 aprile)

Il "giorno nero" dei sindacati e il "nuovo Fanfani"
(4 aprile)

Inaffidabilità di sistema
(3 aprile)

Wednesday, April 09, 2008

La Via del Dalai Lama è sbagliata? Una nuova politica con la Cina serve anche all'Occidente

da Ideazione.com

Il più rilevante elemento di novità politica riscontrabile nella crisi tibetana iniziata il 10 marzo scorso è senz'altro lo scollamento tra il movimento di protesta montato all'interno del Tibet e la sua leadership spirituale e politica, il Dalai Lama, che è fuori dal Tibet e che siamo portati a identificare con la causa tibetana. Le manifestazioni di monaci e civili, a volte rabbiose e violente, rappresentano una risposta, sia pure discutibile, a un interrogativo che dovremmo porci seriamente anche noi in Occidente e che si è posto, su Ideazione (31 marzo 2008), Enzo Reale. Quale risultato concreto, quale miglioramento reale nelle vite di milioni di tibetani ha prodotto mezzo secolo della politica del Dalai Lama?

In queste settimane dal Tibet è giunta una risposta chiara: nessun risultato. La frustrazione ha indotto i tibetani a una ribellione i cui eccessi violenti rappresentano una forma di contestazione implicita, e istintiva, alla linea nonviolenta e dialogante del Dalai Lama. Da qui in avanti potremmo sempre più avere a che fare con «la storia di due Tibet»: uno oppresso e disperato, cui sembra non essere concesso di discostarsi dalla moderazione e dalla nonviolenza dell'altro, quello ormai fissato nell'immaginario collettivo. C'è il rischio infatti che i tibetani rimangano prigionieri dell'immagine che della loro causa ha diffuso nel mondo il Dalai Lama. Se a Sua Santità va certamente il merito di aver conquistato l'apprezzamento e la solidarietà sia dei governi che delle opinioni pubbliche occidentali, questa simpatia potrebbe rivelarsi troppo condizionata a quell'immagine e ad una sola linea politica, che finora non ha prodotto risultati.

Se i tibetani dovessero decidere di mutare strategia di lotta, continuerebbero a ricevere lo stesso sostegno di oggi da parte del mondo occidentale? Un vero e proprio dilemma: da una parte non si può certo dire che la simpatia abbia spinto i governi occidentali a interventi e pressioni tali da smuovere l'intransigenza di Pechino e consentire al Tibet di godere di quella autonomia che nella costituzione cinese sarebbe prevista; dall'altra, un mutamento di rotta negli obiettivi (l'indipendenza) e nei metodi (violenti) renderebbe ancor più difficile per l'Occidente sostenere apertamente i tibetani.

Nel frattempo, nuove personalità politiche si affacciano alla ribalta dei media e vengono in visita nelle capitali europee a rappresentare la causa tibetana. Thewang Rigzin e Dondup Landhar, leader del Congresso dei giovani tibetani, già su posizioni radicali, e Karma Chophel, presidente del Parlamento in esilio, che invece per ora non si discosta dalla linea del Dalai Lama (autonomia e nonviolenza), ma prende atto che «non ha dato i risultati sperati» e non esclude affatto che «per il popolo tibetano sia arrivato il momento di cambiare registro», dicendosi convinto che, se i tibetani vorranno un cambio di strategia, il Dalai Lama «ne prenderà atto e sosterrà le loro istanze».

Il Dalai Lama deve inoltre affrontare il grave problema della sua successione. Tenzin Gyatso da sempre incarna la causa tibetana agli occhi del mondo intero. Da anni le autorità cinesi fingono di non credere che accetti il dialogo alle loro condizioni, per il semplice motivo che non hanno alcuna intenzione di dialogare. La strategia di Pechino nei confronti del Dalai Lama è un'opera di meticolosa e paziente delegittimazione: all'interno del Tibet, non aprendo né al dialogo né a concessioni che possano accreditare il suo approccio; e all'esterno, come abbiamo potuto constatare in queste settimane con la campagna mediatica per attribuire al Dalai Lama e alla sua «cricca» la responsabilità degli scontri in Tibet.

Il tempo gioca a favore di Pechino: alla sua morte nessun successore potrà godere dello stesso prestigio internazionale e ci vorrebbero comunque una ventina d'anni prima che il nuovo Dalai Lama abbia piena consapevolezza del suo ruolo. Inoltre, c'è sempre la possibilità che Pechino riesca a nominare un successore di sua fiducia o che il popolo tibetano nel frattempo sia già quasi scomparso dal punto di vista demografico e culturale. Tenzin Gyatso è consapevole del problema e sembra che stia valutando di indicare prima della sua morte un successore già adulto, contravvenendo alla tradizione del buddismo tibetano secondo cui il nuovo Dalai Lama è colui nel quale viene riconosciuta la reincarnazione del predecessore. Dunque, l'emergere di una nuova leadership politica, da preparare e far conoscere al mondo, potrebbe venire favorita dallo stesso Dalai Lama, che ha evocato giorni fa la possibilità di "dimettersi" dal ruolo di guida politica.

Ma neanche Sua Santità ha il dono della verità. E' probabile che l'obiettivo dell'indipendenza e i metodi di lotta violenti non giovino ai tibetani, ma non è detto che quella indicata dal Dalai Lama sia automaticamente la via migliore possibile. Eppure, ben poco laicamente in Occidente identifichiamo la causa tibetana con una guida spirituale «la cui santità non ammette critiche sul piano politico», attribuendogli un'autorità quasi teocratica. Politici, opinionisti, attivisti, pendono dalle sue labbra: boicottare le Olimpiadi? Dev'essere proprio sbagliato, se lo dice persino il Dalai Lama. La "Via di mezzo" da lui indicata è ritenuta giusta perché ragionevole, dialogante e nonviolenta, ma rischia di diventare soprattutto un comodo alibi per le nostre coscienze, perché poco impegnativa politicamente. Occorre fare attenzione perché la giusta preoccupazione di non adottare misure che possano scavalcare le posizioni moderate del Dalai Lama, aiutando di fatto la Cina nell'opera della sua delegittimazione, non divenga però un ipocrita paravento che ci solleva dallo sforzo intellettuale di immaginare politiche più efficaci nei confronti della Cina. Ma quali?

La nonviolenza non va mitizzata: Gandhi stesso riteneva la violenza un male minore rispetto «alla codardia o alla debolezza». E non tutti i popoli oppressi hanno a che fare con un governatore britannico. Tuttavia, il ricorso alla violenza implica non solo uno scrupolo di carattere morale, ma anche e soprattutto pragmatico. Occorre, cioè, che ci sia qualche possibilità concreta che quella forza si dimostri effettivamente liberatrice. Se il popolo tibetano avesse qualche chance di liberarsi con la forza dal giogo cinese, dovremmo senz'altro essere disposti a sostenere tale soluzione. Ma quali speranze avrebbe di uscire vittorioso da un conflitto con le armate cinesi? E' la risposta a questa domanda che rende ancora solida la posizione del Dalai Lama. Anche se improduttiva e fallimentare, ad oggi, appare drammaticamente irreversibile e senza alternative.

Dunque, più che su una svolta "radicale" da parte dei tibetani, faremmo meglio a concentrarci su una diversa politica cinese da parte dell'Occidente. L'elemento più pericoloso della linea del Dalai Lama non sta tanto nell’obiettivo riduttivo o nei metodi rinunciatari, ma nell'alibi che rischia di fornire all'ignavia e alla pusillanimità dell’Occidente. Poiché non vedremo un Tibet libero prima di una Cina libera, democratica e federale, occorre spingere Pechino verso questa direzione. Anche ammettendo che la politica del Dalai Lama sia la più efficace e opportuna per i tibetani, potrebbe non esserlo per l’Occidente, cui ancor più che l'autonomia del Tibet dovrebbe interessare l'evoluzione democratica della Cina. Se il modello di capitalismo autoritario e nazionalista che Pechino sta perseguendo avrà successo, costituirà una minaccia per quello democratico. Dunque, porre i progressi nel rispetto dei diritti umani e graduali cambiamenti politici come presupposti anche dei nostri rapporti con la Cina non risponde solo a un'esigenza di carattere morale, ma a una necessità anche per gli interessi, e in primo luogo per la sicurezza, dell'Occidente democratico.

Tuesday, April 08, 2008

Vertici positivi per la Nato, Mosca non è in grado di porre veti

I "mainstream media" non sono riusciti a tenersi nel cassetto le analisi già pronte sui fallimenti di Bush al vertice Nato di Bucarest e a quello di Soci con Putin, nonostante l'evidenza del buon esito di entrambi. Permangono divergenze all'interno dell'Alleanza, e tra Stati Uniti e Russia, ma questa volta si inseriscono in una ritrovata armonia dal punto di vista strategico.

Nessuno dei presunti ritorni alla Guerra Fredda, né grande né piccola, che i media amano tanto evocare. Mosca e Washington dichiarano il passaggio delle loro relazioni «dallo stato di rivalità strategica a quello di partnership strategica». C'è «disponibilità reciproca a lavorare insieme per superare le divergenze nello spirito del reciproco rispetto». I giornali hanno sottolineato il mancato accordo sullo scudo anti-missile, ma Bush e Putin tornano da Soci con una solida premessa sulle cui basi costruire proprio quell'accordo in tempi brevi: Russia, Usa e Ue «parteciperanno come partner paritari» al progetto. Putin ha finalmente fatto capire di credere alle rassicurazioni americane sul fatto che lo scudo non sia rivolto contro la Russia: gli Usa «non solo capiscono la nostra preoccupazione ma sono anche interessati a farla scomparire. Dunque posso dirmi prudentemente ottimista e, per un eventuale accordo finale, devo dire che secondo me è possibile trovarlo».

Sorprendenti i toni concilianti e il cauto ottimismo di Putin a Bucarest e a Soci, a poche settimane dall'aver subito l'indipendenza del Kosovo. Ok al transito logistico della Nato dal territorio russo all'Afghanistan; accordo vicino sull'impostazione dei nuovi trattati sulle forze convenzionali in Europa e sulla limitazione degli armamenti nucleari; collaborazione sul dossier iraniano. Lo scudo si farà e alla fine Ucraina e Georgia entreranno nella Nato, anche se la Russia continua a ritenere l'allargamento alle due ex repubbliche sovietiche una minaccia esplicita alla sua sicurezza nazionale, di fronte alla quale sarà costretta a prendere delle contromisure.

L'impressione è che alla fine la Nato riuscirà a far accettare a Mosca tutti i suoi obiettivi e che nella sostanza il Cremlino non sia affatto in grado di porre veti. Nonostante toni a volte minacciosi e gesti aggressivi, non può impedire alla Nato di installare difese missilistiche o di allargarsi verso Est. Si può concludere quindi che il successo di Putin, al termine del suo mandato, stia nell'aver garantito alla Russia di non ritrovarsi di fronte a fatti compiuti e di avere, invece, una sorta di diritto a fare la "voce grossa" sulle scelte dell'Occidente, il quale se non vuole perseguire una politica aggressiva verso Mosca, deve parlarci, per scendere a compromessi o quanto meno per non ferirne l'orgoglio.

Insomma, Putin ha il merito di aver portato la Russia a dialogare con l'Occidente da pari, minacciando ma di fatto non trasformandosi mai in controparte. Non è tutto rose e fiori. Mosca proverà a destabilizzare l'Ucraina e ad alimentare il separatismo filo-russo in Georgia per far saltare il loro ingresso nella Nato e continuerà a giocare sulle divisioni tra i Paesi europei, e tra Ue e Usa, ma le "ambizioni imperiali", se ci sono, per ora rimangono tali.

All'interno della Nato, al di là delle divergenze, è tornata la concordia strategica. Sarkozy ha ottenuto quel che la diplomazia francese inseguiva da decenni: la difesa europea. Ancora tutta da costruire, ma per la prima volta Parigi ha avuto il via libera da Washington, perché per la prima volta un presidente francese non è stato ambiguo sul ruolo della nuova struttura, abbandonando ogni velleità di una politica estera europea in contrapposizione agli Usa: nell'ambito di una Nato globale, sarà una difesa europea «complementare» all'Alleanza.