Per riformare la giustizia serve un BlitzkriegEzio Mauro, che stupido non è, si è accorto subito che «sotto attacco» c'è l'obbligatorietà dell'azione penale. I due emendamenti Vizzini-Berselli, cosiddetti «salva-premier», prevedono da una parte l'indicazione dei procedimenti penali d'urgenza per quei reati cui deve essere riconosciuta la priorità rispetto agli altri e, dall'altra, la sospensione per un anno degli altri processi penali (e del trascorrere dei rispettivi tempi di prescrizione) per i fatti commessi fino al 30 giugno 2002. Vengano giudicati presto i colpevoli dei reati che generano più allarme sociale e insicurezza. Poi verranno tutti gli altri, compreso il reato contestato al premier dalla "solita" Procura di Milano.
«Per la prima volta nella storia repubblicana, il governo e la sua maggioranza entrano nel campo dell'azione penale per stravolgerne le regole e stabilire una gerarchia tra i reati da perseguire. Uno stravolgimento formale delle norme sulla fissazione dei ruoli d'udienza, che tuttavia si traduce in un'alterazione sostanziale del principio di obbligatorietà dell'azione penale. Principio istituito a garanzia dell'effettiva imparzialità dei magistrati e dell'uguaglianza dei cittadini».
Quel principio che secondo
Ezio Mauro garantisce l'«imparzialità dei magistrati», ritenuto già da Calamandrei un errore dei costituenti, a mio avviso è la garanzia della loro assoluta arbitrarietà, che anche in assenza di malafede produce mala-giustizia. Quindi, al contrario del direttore di
Repubblica, saluto con favore il fatto che finalmente, per la prima volta, abbiamo in questo Paese una politica giudiziaria. Spero che questo emendamento sia solo l'inizio e che venga seguito da una vera e propria riforma (anche costituzionale, nel caso sia necessaria), che stabilisca chiaramente, una volta per tutte, a chi spetta, a ciascun livello, elaborare una politica giudiziaria, stabilire cioè delle priorità nel perseguimento dei reati, e rispondere davanti ai cittadini delle proprie scelte.
I due emendamenti (che, tra l'altro, riprendono il senso di un protocollo proposto dal procuratore generale di Torino, che in passato aveva ricevuto anche il plauso del Csm) danno una risposta pragmatica al triste e pericoloso fenomeno dell'«indulto di fatto», delle centinaia di migliaia di processi che ogni anno vanno in prescrizione a causa dell'ingolfamento dei tribunali. Avere una politica giudiziaria significa, per esempio, stabilire che hanno priorità quei processi in cui gli imputati sono già in galera (e quindi innocenti: presunti tali secondo la Costituzione, riconosciuti tali nella maggior parte dei casi secondo le statistiche), e quei processi con i capi d'imputazione più gravi, in modo che la prescrizione (e la scarcerazione) riguardi semmai un ladro di polli piuttosto che un mafioso.
Inoltre, sono norme propedeutiche alla riformulazione del "lodo Schifani", che prevede la sospensione dei processi, ma anche del trascorrere dei tempi di prescrizione, contro le alte cariche istituzionali durante il loro mandato. Una norma che esiste in molti Paesi civili e democratici.
Certo, si tratta di un nuovo atto della guerra tra la politica e la magistratura politicizzata. La politica cerca di sottrarsi a quello stillicidio di inchieste (e arresti) che guarda caso le piovono addosso ogni qual volta cerca di occuparsi della riforma della giustizia. Un modo per evitare ciò che è accaduto a Mastella e che, il centrosinistra non dovrebbe dimenticarlo, ha causato la caduta del governo Prodi; e per rispondere all'offensiva della Procura di Napoli contro la squadra del sottosegretario Bertolaso nella vicenda rifiuti, mandando un messaggio chiaro ai pm: il governo non è disposto ad arretrare né a farsi intimidire. Non può permetterselo nei confronti dei cittadini.
L'hanno subito ribattezzata norma «salva-premier», ma si dovrebbe chiamare salva-politica, perché in questi anni chiunque abbia osato toccare i fili - gli interessi della casta dei magistrati - ci è rimasto secco. Quella in atto tra politica e magistratura è una guerra in cui il fattore tempo è determinante. Bisogna "sparare" per primi. Tuttavia, ci auguriamo che i tre "colpi" di Vizzini e Berselli e del "lodo Schifani" siano solo i primi, servano a prender tempo e che il governo provveda quanto prima a mettere in cantiere una profonda riforma della giustizia, con l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere, l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione e la riforma del Csm.
Berlusconi è consapevole che questa mossa potrebbe pregiudicare il dialogo con Veltroni, ma ha accettato di correre questo rischio, non potendo sacrificare, tra i due, il decisionismo e l'azione di governo, che potrebbero trovarsi presto e pesantemente sotto il ricatto della magistratura. Se alla fine ci rimette il dialogo con Veltroni, è perché quest'ultimo non è in grado di sostenerlo. Cioè, non è in grado di ammettere fino in fondo con i suoi (compagni di partito ed elettori) gli errori commessi in passato dal centrosinistra sulla giustizia e sull'antiberlusconismo.
Molti a sinistra non aspettavano di meglio che tornare alla sola musica che sanno suonare: l'antiberlusconismo. I giornali, da
Liberazione a
il manifesto, da
L'Unità a
la Repubblica, tornano a lanciare l'"allarme democratico", a gridare al «regime», agli «attentati alla Costituzione», ergendosi a guardiani supremi di una supposta "normalità democratica". Rischia di esserne risucchiato anche il Pd. Veltroni dimostra di non avere le doti della leadership, non sa scendere in campo aperto e affrontare alla luce del sole oppositori interni e i vecchi richiami della foresta. Anzi, cede e torna all'antico, come uno che sperava ardentemente che giungesse un pretesto per tornarvi. Non ha il carattere per lasciare ai Di Pietro certi, ormai esigui, spazi politici e provare a recitare altri copioni.
Così, se prima delle elezioni doveva essere l'Italia dei Valori a confluire nel Partito democratico, in queste ore sembra che il Partito democratico stia confluendo nel movimento di Di Pietro.
Eppure, come ha correttamente osservato
Panebianco, questa via «ha fatto male alla sinistra in passato. È stata una strada politicamente fallimentare. Se verrà imboccata di nuovo (e ce ne sono i segnali) farà ancora male alla sinistra». «E' strano, o perlomeno prematuro, che si accusi un sistema politico cronicamente malato d'indecisionismo di essere un regime». Anche questo governo «appare già oggi indeciso a tutto», perché «a differenza di quanto accade in altre democrazie, in Italia ottenere grandi consensi elettorali e disporre di una grande maggioranza non garantisce la capacità decisionale del governo». A causa, spiega Panebianco, dei «debolissimi poteri di cui gode il premier e di un numero di poteri di veto, diffusi a tutti i livelli del sistema istituzionale, più elevato di quello di altre democrazie». La malattia dell'Italia è l'«indecisionismo». E' il vuoto, non il pieno, di decisioni che rischia di aprire crepe nell'ordine democratico.
Gli elettori si sono espressi chiaramente e più volte: tra Berlusconi e la magistratura che lo perseguita si fidano più del primo. Berlusconi ha vinto le elezioni nonostante i processi e le aggressioni mediatico-giudiziarie. E quando le ha perse non è stato per quelle.
Dalle urne è uscita forte e chiara una domanda di cambiamento. Un governo che tentennasse, che si rivelasse indeciso; un'opposizione o altri poteri, come i sindacati e la magistratura, che si opponessero al cambiamento, pagherebbero tutti un altissimo prezzo in termini di consenso e credibilità. «È una domanda con cui bisogna fare i conti», ha fatto notare
Antonio Martino, intervistato dal
Corriere della Sera: «Gli elettori hanno votato per il centrodestra perché erano scatenati contro l'esistente. E dal governo si attendono non la gestione, ma il cambiamento».
Per questo l'ex ministro suggerisce a Berlusconi di «andare fino in fondo, portare avanti le battaglie di civiltà».
«Controlli i suoi ministri. Non si faccia mettere i piedi in faccia da nessuno. Dimostri di essere un leader, non solo parlando alle folle. Perché come catturatore di consensi non ha eguali, ma come premier deve stare attento a non fare la fine di Luigi Facta... Non vorrei che il decisionismo di Berlusconi si inceppasse, e che il premier non se ne rendesse conto».
Anche Martino, da liberale, difende i provvedimenti più controversi. Quello sulle intercettazioni, «sacrosanto», e anche gli emendamenti sui processi, perché riconosce che «
l'obbligatorietà dell'azione penale è ormai una farsa. È diventata l'arbitrarietà dell'azione penale. Perciò, che l'Esecutivo [e in questo caso si tratterebbe del Parlamento, n.d.r.] detti una linea d'indirizzo non mi pare sbagliato». Propagandistica e dannosa, invece, la decisione di impiegare i militari nei pattugliamenti e nella vigilanza in città. Anch'io credo che l'effetto più dannoso sia di «dare l'impressione che 400 mila uomini delle forze dell'ordine abbiano bisogno di un pugno di soldati», mentre in realtà sono solo male impiegati e la vera riforma sarebbe utilizzarli meglio.