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Thursday, October 01, 2009

Buon compleanno Repubblica popolare! Una scia di sangue lunga sessant'anni

Sessant'anni di Repubblica popolare cinese compiuti al prezzo del sangue versato sulla stessa piazza dove oggi si è tenuta la principale celebrazione, un'imponente parata militare. Se, infatti, quei ragazzi che nel 1989 sfidarono i carri armati a Piazza Tienanmen avessero vinto la loro battaglia di libertà, oggi il regime comunista non starebbe spegnendo le sue 60 candeline, perché sarebbe stato decurtato di vent'anni di vita. Una lunga scia di sangue lega quel primo ottobre 1949, quando Mao Tse tung annunciò la fondazione della Repubblica popolare, ai giorni nostri, passando per la repressione di Tienanmen. Sotto la guida di Mao, per 27 anni, milioni di persone morirono tra purghe, repressioni e rivoluzioni culturali, e decine di milioni morirono vittime di tremende carestie, sacrificate sull'altare di quell'assurdo esperimento di ingegneria sociale che è il comunismo.

Sessanta colpi di cannone hanno dato il via alla festa. Davanti al presidente Hu Jintao – casacca grigio-scura stile Mao – sono sfilati in 200 mila tra soldati e comparse, e i gioielli delle forze armate cinesi, compresi i missili intercontinentali in grado di trasportare testate nucleari. «E' da qui che il presidente Mao ha annunciato solennemente la fondazione della Repubblica popolare cinese, e da allora il popolo cinese si è rialzato», ha detto Hu davanti a ospiti e militari. «Oggi una Cina socialista che abbraccia la modernità, abbraccia il mondo e abbraccia il futuro si erge alta e compatta. Il progresso in questi 60 anni dimostra pienamente che solo il socialismo può salvare la Cina». Hu ha promesso che la Cina continuerà a svilupparsi, e a cercare la «completa riunificazione della patria» (con Taiwan) in modo pacifico, ma nello stesso tempo ha esaltato la «forza militare dell'esercito». Il messaggio che la leadership cinese vuole ribadire al mondo e al suo popolo è chiaro: la scelta del partito unico è quella vincente per governare 1,3 miliardi di cinesi e trasformare la Cina in una superpotenza.

Quella della Repubblica popolare è la storia di un partito contro il suo popolo. Una storia che è tabù, perché i cinesi non possono nemmeno raccontarla ai loro figli. Sessant'anni di sofferenze per lo stesso popolo cinese, ha riconosciuto Samdhong Rimpoche, premier del governo tibetano in esilio. "Contro il popolo" è il titolo di questa storia, persino nel giorno dell'orgoglio. Solo 20mila civili hanno potuto assistere alla parata, quelli selezionati e "invitati" dal regime, che a tal punto non si fida della popolazione di Pechino da impedirgli persino di partecipare alle celebrazioni. Come per le Olimpiadi dell'anno scorso, i pechinesi sono "invitati" a restare in casa. Ai residenti nell'area di Tiananmen e nei viali circostanti è stato ordinato di «non aprire finestre o affacciarsi ai balconi», «non invitare amici o altre persone».

Sarebbe facile indulgere nella retorica, ma al di là del fattore umano c'è di che dubitare delle sorti magnifiche e progressive che attendono la Cina. Quella cinese, anche recente, è una storia cosparsa di «grandi fallimenti», ricorda Bernardo Cervellera, direttore di Asianews: è un tipo di progresso «in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell'economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; rampante corruzione; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l'università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito...». I 100mila «incidenti di massa» in un anno (proteste con centinaia o migliaia di persone, 87 mila nel 2006 secondo i dati ufficiali) «dicono che il popolo vuole contare». E non basta la forza economica e militare, per essere "potenza" occorrono anche un modello culturale e uno stile di vita attraenti, che questa Cina non offre neanche lontanamente.

Il partito «non tiene più il passo del popolo dinamico che governa», osserva Gordon Chang sul Wall Street Journal. «Non bisogna farsi impressionare». Nonostante la sua «apparente forza», lo Stato cinese è «profondamente insicuro». Non c'era una folla festante lungo Chang'an Avenue. Quasi un milione di poliziotti e "volontari" hanno tenuto lontani dalle celebrazioni i cittadini normali, da cui il Partito comunista «è sempre più scollegato». Non può fidarsi di loro. «I cinesi stanno cambiando velocemente». Lo sviluppo economico ha reso la gente sempre più «consapevole, assertiva e, al contrario dei leader, sicura di sé. Ormai, questo cambiamento sociale ha preso slancio e il partito non può più fermarlo. Può dispiegare su larga scala soldati al passo dell'oca – conclude Chang – ma non può stare al passo del suo popolo, che, nel vero senso della parola, è l'unico in marcia».

Wednesday, June 24, 2009

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa/2

E' bene intendersi sulle aspettative che è realistico nutrire riguardo la crisi in corso in Iran, soprattutto alla luce delle ultime tragiche notizie che ci giungono da Teheran. Se è l'immagine romantica della piazza che in una notte rovescia la dittatura degli ayatollah che aspettiamo, prima di chiamarla rivoluzione democratica, o prima di riconoscere qualche possibilità di un cambiamento effettivo, rimarremo sempre delusi. Il regime ha la forza per reprimere i manifestanti e lo sta facendo. Il movimento popolare deve spingere, accompagnare, ma si deve aprire una breccia dall'interno, nell'elite. Una breccia simile a quella aperta da Gorbacev, che con le sue riforme voleva conservare il regime comunista e di certo non far crollarel'Urss, ma proprio quello è stato l'inevitabile esito della sua glasnost. Solo in questo modo un regime spietato come quello degli ayatollah può cadere, e non dall'oggi al domani.

Bisogna ammettere che in una sola settimana Mousavi (personaggio dal curriculum nient'affatto democratico) ha fatto molto di più di Khatami in quattro anni. Ha sfidato in modo inaudito e impensabile l'autorità della Guida Suprema e del Consiglio dei Guardiani. Ha offerto per dieci giorni uno sbocco politico alla frustrazione e alle istanze di libertà popolari. E questo rimarrà nella memoria degli iraniani. La mia impressione è che sì, magari Mousavi e Rafsanjani usciranno battuti oggi, e saranno costretti ad abbassare il livello dello scontro, ma che la fronda interna continuerà. Bisognerà vedere se il regime avrà la forza di compiere una repressione, e un'epurazione al suo interno, pari a quelle di cui fu capace il Partito comunista cinese dopo Tienanmen, ma ho i miei dubbi.

Dopo Taheri e Gerecht nei giorni scorsi, oggi altri due autorevoli analisti che difficilmente rientrano nella categoria degli illusi, vedono una spaccatura reale e non facilmente ricomponibile nell'elite che ha gestito il potere in Iran fino ad oggi in modo compatto. Anche secondo Edward Luttwak, comunque si concluderà questa crisi, «il regime iraniano non sarà mai più lo stesso».

«A questo punto, solo il futuro di breve termine del regime è in dubbio. Le attuali proteste potrebbero essere represse, ma le istituzioni non elette del regime clericale sono state fatalmente minate». In ogni caso, «non è un regime che può durare per molti anni ancora», secondo Luttwak. Le forze di sicurezza possono controllare e reprimere la piazza, ma «ciò che ha minato la struttura stessa della Repubblica islamica è la frattura nella sua elite dirigente. Le stesse persone che crearono le istituzioni del regime clericale stanno distruggendo la loro autorità». Anche per Luttwak è molto significativo che per la prima volta importanti esponenti del regime abbiano sfidato apertamente l'autorità di Khamenei e del Consiglio dei Guardiani, le due istituzioni su cui si regge tutta l'impalcatura di potere khomeinista e senza le quali l'Iran «sarebbe una normale democrazia».

«E' evidente che dopo anni di umiliante repressione sociale e cattiva gestione dell'economia, i settori più istruiti e produttivi della popolazione hanno voltato le spalle al regime». Ciò che però ancora manca a questo movimento è un leader carismatico. Se il suo «coraggio» nel resistere alle pressioni «ha certamente accresciuto la sua popolarità, tuttavia Mousavi è ancora niente di più che il simbolo involontario di una rivoluzione politica emergente». Nonostante questo, dice Luttwak, «se Mousavi avesse vinto», anche modeste aperture avrebbero «innescato richieste di un maggiore cambiamento, alla fine facendo cadere l'intero sistema del regime clericale». Quindi, per Luttwak, anche se uomo interno all'establishment, Mousavi avrebbe potuto svolgere (e potrebbe in un futuro prossimo svolgere) un ruolo simile a quello svolto, suo malgrado, da Gorbacev, le cui riforme «molto caute, pensate per perpetuare il regime comunista, finirono per distruggerlo in meno di cinque anni». In Iran, osserva Luttwak, «il sistema è molto più giovane e il processo sarebbe stato probabilmente più rapido».

Per il momento, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi, Khamenei sembra avere saldamente in mano il potere, ma è anche «nella posizione insostenibile a lungo di dover sostenere un presidente la cui autorità non è accettata da molte delle istituzioni di governo. Quindi, anche se rimane in carica, Ahmadinejad non può funzionare come presidente». Per esempio, Luttwak ipotizza ostruzionismo parlamentare da parte degli oppositori: non è detto, per prima cosa, che il Parlamento ratifichi le sue nomine ministeriali. Insomma, «anche se Khamenei non viene rimosso dal Consiglio degli Esperti e Ahmadinejad non viene rimosso da Khamenei, il governo continuerà ad essere paralizzato», sempre che la frattura all'interno dell'elite persista. «La buona notizia - conclude Luttwak - è che sotto il meccanismo di erosione del regime clericale, le istituzioni essenzialmente democratiche in Iran sono vive e vegete e necessitano solo di nuove elezioni».

Un altro che non fa certo parte dei sognatori democratici è Robert Kaplan, che sul Washington Post addirittura si spinge oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale». Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (e della Persia) di influenzare tutta la regione, che risale nei secoli a molto prima della rivoluzione khomeinista; inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi:
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare una forte pressione sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».
Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe avere un effetto drammatico sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Anche Kaplan ricorre al paragone con la ex Unione sovietica. Come nell'Urss, anche in Iran infatti «il cambiamento può arrivare solo dall'interno; solo da un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».

Thursday, June 04, 2009

Tienanmen è ancora qui/2

Da racconti così simili scaturiscono le riflessioni così diverse di due reporter americani che quella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 erano là, a Piazza Tienanmen. Nicholas Kristof (per il New York Times)...
So, 20 years later, what happened to that bold yearning for democracy? Why is China still frozen politically — the regime controls the press more tightly today than it did for much of the 1980s — even as China has transformed economically? Why are there so few protests today? One answer is that most energy has been diverted to making money... Another answer is that many of those rickshaw drivers and bus drivers and others in 1989 were demanding not precisely a parliamentary democracy, but a better life — and they got it. The Communist Party has done an extraordinarily good job of managing China's economy and of elevating economically the same people it oppresses politically.
... e Claudia Rosett (per il Wall Street Journal):
Since the Tiananmen uprising of 1989, China's rulers have loosened the economic strictures enough to allow remarkable growth... Out of this, China's rulers have devoted enormous resources to projects meant to suggest they run a modern nation - sending astronauts into space, convening conferences on the climate, and hosting the 2008 Olympics. Count me unimpressed. The real sign of modernity will come when China opens up its political system enough so that the country's leaders no longer fear June 4 but treat the Tiananmen uprising with the honor it deserves... The answer of free societies, the old American dream, is that you may choose for yourself. Freedom, in the framework of a true democracy, allows individuals to weigh their own talents, skills and ambitions, choose their own trade-offs, and chart their own dreams. That gives rise to innovation, exuberance and prosperity of a kind that no government can plan or centrally command into existence.
Il Wall Street Journal ha contattato alcuni dei «sopravvissuti» per interrogarli sull'incerta eredità di Piazza Tienanmen: ecco cosa è uscito fuori. Wang Dan è nella lista dei 21 leader più ricercati del movimento studentesco del 1989 e ha le idee ben chiare sul significato di Tienanmen.
I believed then and I believe now that the reforms that my fellow students and I were advocating - for democracy, workers' rights and free speech, and against corruption - are the central challenges that will shape China's destiny... Economic reforms have allowed millions of Chinese people to lift their families out of poverty, and many in China find their lives changed for the better. But the central causes that the Tiananmen generation - students and citizens alike - took up remain unresolved. The economic growth is impressive. But what about media censorship, which contributed to the high number of victims in the 2008 tainted-milk scandal? And government corruption, which led to shoddy construction practices in Sichuan and its devastating consequences during last year's earthquake? Or the widening gap between the rich and the poor?
La Cina di oggi basa la sua potenza sul potere economico e militare, ma nel ventunesimo secolo, osserva Wang Dan, «il potere basato sui principi motali e i diritti umani è altrettanto importante». Il governo cinese «dovrebbe compiere quattro passi per convincere il mondo di essere una potenza responsabile»: risarcire le madri di Tienenamen che hanno perso i loro figli; permettere ai cinesi costretti all'esilio di tornare in patria; rilasciare tutti coloro che sono ancora in prigione per aver preso parte al movimento dell'89 e tutti i prigionieri politici più recenti perseguitati per la loro richiesta di riforme politiche; e, infine, impegnarsi negli obiettivi di lungo termine condivisi dagli studenti di Tienanmen e dai firmatari di Charta 08: stato di diritto, tutela dei diritti umani fondamentali e fine della corruzione. «Solo allora la Cina inizierà a voltare la tragica pagina di Tienanmen».

La Clinton fa infuriare Pechino su Tienanmen

Eccezionali misure di sicurezza, restrizioni, divieti e censure. Linea dura delle autorità cinesi nel ventesimo anniversario del massacro di Piazza Tienanmen. Centinaia di poliziotti in borghese e in divisa hanno bloccato la piazza. A giornalisti e fotografi stranieri è proibito l'accesso. Ai turisti invece è permesso entrare ma solo dopo aver passato posti di blocco dove vengono controllati identità e passaporti e perquisite le borse alla ricerca di volantini e striscioni che possano ricordare la repressione e il movimento degli studenti.

Oltre 160 tra i siti internet più popolari sono stati oscurati (Twitter, Flickr e Hotmail), in «manutenzione tecnica» fino a sabato. Inaccessibile da marzo YouTube, il portale più famoso per la condivisione dei video, su cui si trovano decine di filmati su Tienanmen. Almeno 65 persone sono agli arresti domiciliari o sono state "invitate" a lasciare Pechino. Tra questi il dissidente Bao Tong, che nei giorni scorsi ha fatto in tempo a concedere un'intervista al Wall Street Journal, prima che gli venisse proibito qualsiasi contatto con i media occidentali e fosse "invitato" anche lui ad allontanarsi da Pechino per qualche giorno.

In tutto questo, però, ha battuto un colpo l'amministrazione Obama, finalmente. Ieri sera il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha voluto ricordare con un messaggio ufficiale il ventesimo anniversario della "violenta repressione" dei dimostranti in Piazza Tienanmen, chiedendo a Pechino di fare luce su quei tragici eventi.
«Dovremmo ricordare la tragica perdita di centinaia di vite innocenti e riflettere sul significato degli eventi che precedettero quel giorno. Centinaia di migliaia di amnifestanti scesero nelle strade per settimane, a Pechino e nel paese, prima per rendere onore al defunto leader riformista Hu Yaobang, poi per rivendicare diritti fondamentali negati loro».
Poi l'appello alle autorità cinesi:
«Una Cina che ha fatto enormi progressi economici e che sta emergendo per assumere il suo giusto ruolo nella leadership globale, dovrebbe riesaminare apertamente gli eventi più bui del suo passato e fornire un bilancio ufficiale delle persone uccise, detenute o scomparse».
Sia per sapere che per «rimarginare» la ferita. Questo anniversario, ha aggiunto la Clinton, offre alle autorità cinesi un'occasione per rilasciare tutti coloro che sono ancora in prigione a causa degli eventi di quei giorni del 1989.
«Noi esortiamo la Cina a porre fine alle vessazioni nei confronti dei partecipanti alle dimostrazioni e ad avviare un dialogo con i parenti delle vittime, incluse le Madri di Tienanmen. La Cina può onorare la memoria di quel giorno dando allo stato di diritto, alla tutela dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, e allo sviluppo democratico la stessa priorità che ha dato alla riforma economica».
«Accuse senza fondamento», ha reagito malamente il Ministero degli Esteri cinese, esprimendo «profondo malcontento» per le parole di H. Clinton, definite «una grossolana interferenza negli affari interni cinesi»:
«Esortiamo gli Stati Uniti a mettere da parte i propri pregiudizi politici e a correggere i propri errori oltre che ad astenersi dal pregiudicare o minare le relazioni bilaterali».
«Sull'incidente politico che ha avuto luogo alla fine degli anni Ottanta, il partito e il governo hanno già tratto le loro conclusioni», ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri: fu una «ribellione contro-rivoluzionaria». No comment sulle eccezionali misure di sicurezza di questi giorni. «Oggi è un giorno come tutti gli altri, stabile», ha sancito coprendosi di ridicolo più meno come quel bizzarro ministro di Saddam che continuava a cantare vittoria con gli americani alle porte di Baghdad.

Tienanmen è ancora qui

Oggi, 4 giugno, sono vent'anni dal massacro di Piazza Tienanmen, ma sembra ieri. E il volto, i volti, della dittatura cinese sono sempre gli stessi, nonostante gli enormi cambiamenti socio-economici. "Tiananmen Is Still Here" («Tienanmen è ancora qui»), dice Bao Tong, dai suoi arresti domiciliari a Pechino, al Wall Street Journal.
All of China's major social problems today arise from the influence of June 4... Tiananmen is still here. However, it's not a Tiananmen massacre, it's suppression in the style of a "little Tiananmen"... A "little Tiananmen" incident is using the police, using violence or using power to suppress the common people. This is happening everywhere... Every four minutes there is a protest with more than 100 people [Mr. Bao cites a report that estimates China sees 100,000 protests per year, up from 80,000 three years ago]... Using the police to resolve disputes has become so common, it's as normal as eating a meal or drinking tea. So how many "little Tiananmens" are there? How many little Deng Xiaopings are there?
Per Bao Tong la memoria di Tienanmen, la revisione storica di ciò che realmente accadde, l'ammissione degli errori e delle colpe, è vitale per il futuro della Cina:
You have to say it clearly: It's not a good system, it's a bad system. It has to be stated that the people who were killed were good people, and they shouldn't have been killed... We must announce that Tiananmen was a criminal action. That soldiers, from now on and forever, cannot oppose the common people. This gun cannot be pointed at the people.
Purtroppo, a vent'anni da quel crimine, Bao Tong ammette che il regime è più al sicuro oggi, la minaccia al potere del partito unico minore di quanto lo fosse all'epoca:
At that time, people could say Mao Zedong was wrong. Today, they can't say Deng Xiaoping was wrong. The spread of the Internet is a good thing, but it is also a bad thing. Because in the hands of the government, it becomes a tool for brainwashing.
Pechino mantiene il suo controllo sul popolo cinese con la crescita economica, concedendo sussidi, assicurando da mangiare.
China can survive. But China will not be able to resolve the fundamental conflict between the government and the people... In the long-term view, it's a big problem.
Un grosso problema la cui unica soluzione è la democrazia parlamentare. E la via cinese alla democrazia, secondo Bao Tong, potrebbe essere un sindacato indipendente, come Solidarnosc in Polonia:
Some people say China has its own unique characteristics and should follow its own path. I don't believe that. As I see it, China uses the same light bulbs as the rest of the world. They aren't light bulbs with Chinese characteristics... Let the peasant workers form their own unions, and have their own elections.
Anche le pressioni internazionali contano:
I want the international community, when looking at China, to put China's human-rights record in the spotlight. If a government doesn't take responsibility for its own people, it can't take responsibility on the international stage.
La speranza del cambiamento viene tenuta viva anche dagli imprenditori e dal nuovo ceto medio, ma solo da parte di essi, spiega Bao Tong:
There are two types of entrepreneurs: One type relies on himself and his own strength. Another type relies on the government, connections and backdoor favors. These two types of entrepreneurs have different hopes for China's future. Those who depend on the government's wealth, they like one-party rule... But independent entrepreneurs, who rely on their own ability to compete in the market - what they really want is equality and for the same rules of the game to be applied to everyone. Of course they cannot live very happily in a one-party state. What they want, I believe, is also parliamentary democracy. It's just like Zhao Ziyang said: Only parliamentary democracy can really complement a market economy.
Con l'avvicinarsi dell'anniversario a Bao Tong è stato proibito qualsiasi contatto con i media dopo questa intervista al WSJ e, per maggior sicurezza, "invitato" a lasciare Pechino per alcuni giorni.

Su Asianews, le riflessioni di Wei Jingsheng:
Quale potere ha invece incoraggiato il popolo cinese fino a rischiare le loro vite in un confronto con il governo dittatoriale, equipaggiato di carri armati e di mitragliatrici? È la libertà. La sete di libertà e quel poco spazio di libertà di parola durato due mesi ha prodotto il grande coraggio del mio popolo.
E mentre le autorità "commemorano" Tiananmen con arresti, siti internet oscurati, e controlli sui turisti, è uscito in inglese, ne avevo parlato qualche giorno fa, il libro di memorie di Zhao Ziyang, segretario del Partito comunista cinese all'epoca della sanguinosa repressione, colui che dall'interno del regime sosteneva il dialogo con gli studenti. Andò diversamente, come sappiamo. Vi consiglio vivamente la "pre-recensione" di 1972, come al solito impeccabile:
Ovviamente salva se stesso, contrapponendo la sua mentalità aperta e riformatrice alle chiusure dei vertici. Ma al di là del punto di vista comprensibilmente soggettivo, il documento storico è di una importanza epocale, se si considera che oggi in Cina l'argomento è di fatto bandito dalla discussione politica e che la versione ufficiale delle proteste democratiche come "disordini controrivoluzionari" resta l'unica accettata... Sugli studenti il suo giudizio rivela alcuni problemi di interpretazione: secondo lui la più grande richiesta di libertà nella storia cinese si poteva risolvere con alcune piccole correzioni degli errori di gestione. Non volevano il rovesciamento del sistema, afferma, ma la sua rettifica. Risulta difficile credere a questa versione, che probabilmente fu quella con cui lo stesso Zhao provò a convincere il Politburo, finché gli fu permesso, a non usare la forza contro i civili e che finì per assimilare come la unica realtà. Qui emerge un aspetto della figura di Zhao Ziyang che sarebbe un errore non sottolineare: nonostante la sorte comune, gli arresti domiciliari, Zhao non era un Aung San Suu Kyi cinese. Non era un leader di opposizione, nemmeno di una fazione interna al Partito. Era un membro di primo piano di quello stesso Partito che nelle sue memorie critica così aspramente e non ne uscì finché non fu spodestato. Era un uomo che certamente non voleva sparare agli studenti ma che comunque voleva salvare il Partito e il suo potere. E' per questo che ciò che più sorprende nelle sue memorie è, a mio avviso, il suo riconoscimento del valore della democrazia parlamentare come unico strumento possibile per il governo della nazione cinese: il suo richiamo alla necessità di un sistema multipartitico, della libertà di stampa e di un giudiziario indipendente, potrebbero essere tranquillamente sottoscritti dai promotori della Charta 08, il documento che lo scorso dicembre ha scosso la scena politica cinese... Quando si parla del governo cinese va sempre tenuto presente che senza Tiananmen, senza quel bagno di sangue, gli attuali detentori del potere non sarebbero oggi dove sono. L'attuale classe dirigente che regna a Pechino è figlia di quel massacro, e chi fa finta di dimenticarselo rende uno scarso servizio alla verità. Il ventennale della strage era già un grattacapo non da poco per Hu Jintao e compagnia. Con Zhao che parla dalla tomba rischia di diventare un piccolo grande incubo.

Friday, May 15, 2009

In quei giorni prevalse la paranoia di Deng

Bao Tong, di cui già abbiamo avuto modo di parlare, ha curato il libro di memorie di Zhao Ziyang, segretario del Partito comunista all'epoca del massacro di Piazza Tienanmen. Subito dopo quei tragici giorni, per aver sostenuto la linea del dialogo con gli studenti, Zhao fu incarcerato e visse i suoi ultimi anni agli arresti domiciliari, fino alla morte, nel 2005.

Il libro, "Prigioniero di Stato", è uscito ieri in inglese a Hong Kong e sarà pubblicato in cinese mandarino entro il 29 maggio. Zhao racconta che gli studenti erano scesi in piazza per protestare contro la corruzione e per ottenere riforme democratiche, ma non per rovesciare il governo, e addossa tutta la responsabilità della brutale repressione dell'esercito a Deng Xiaoping, descritto come un dittatore paranoico: «La chiave della questione è sempre stato lo stesso Deng Xiaoping... se Deng rifiutava di avere una posizione più elastica, io non avevo modo di far cambiare posizione ai due più intransigenti, Li Peng e Yao Yilin».

A far precipitare la situazione un editoriale del 26 aprile 1989 sul Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Pcc, scritto da Li, nel quale gli studenti erano qualificati come «agitatori contro il partito, contro il socialismo», e che rendeva ufficiale - ed esecutiva - la posizione di Deng contro i manifestanti.
«Deng - si legge nelle memorie - aveva sempre avuto la tendenza a preferire misure dure nel trattare con gli studenti, perché credeva che le loro dimostrazioni minassero la stabilità... tra i leader del Pcc è sempre stato quello favorevole ad agire in modo dittatoriale. Ha sempre insistito come sia utile. Quando ha parlato di stabilità, ha sempre insistito sulla dittatura».
Ovviamente, nessuna recensione da parte della stampa cinese e nessun commento ufficiale.

Saturday, August 02, 2008

L'uso politico delle Olimpiadi e la "verità con caratteristiche cinesi"

Di fronte alle proteste internazionali e dopo febbrili negoziati nella notte con un imbarazzatissimo Cio, Pechino ha compiuto un gesto di buona volontà, accettando di ammorbidire la morsa della censura su internet in occasione delle Olimpiadi. Privilegio comunque ristretto alla stampa accreditata. Il presidente Hu Jintao ha invitato i giornalisti stranieri a «rispettare le leggi cinesi» e a «realizzare reportage obiettivi»: «Popoli diversi hanno percezioni differenti su diverse questioni», ma «politicizzare» i Giochi «non sarà d'aiuto».

Già, «politicizzare». I politici occidentali ripetono che non bisogna «politicizzare» i Giochi, riferendosi a un'eventuale politicizzazione di segno critico nei confronti del governo cinese. Ma mai mostrano di preoccuparsi della politicizzazione di segno opposto, cioè di contribuire con la loro sola presenza alla gigantesca operazione che Pechino ha preparato sull'evento sportivo, una macchina propagandistica messa in moto per trasformarlo in una trionfalistica celebrazione politica del regime.

Ad aver ben presente la mentalità con la quale la dirigenza cinese si è accostata alla grande opportunità delle Olimpiadi è Bao Tong, 75 anni, dissidente democratico e nonviolento. Da ex membro del Comitato centrale comunista, segretario personale ed amico dell'ex segretario Zhao Ziyang, nell'89 contrario all'intervento dell'esercito in Piazza Tienanmen, in un articolo tradotto dal sito Asianews spiega che la leadership cinese ha bisogno dei Giochi per legittimarsi agli occhi del mondo, mostrare i suoi successi e la stabilità raggiunta dopo il massacro di Tienanmen.

«Lo splendore che si vuole dimostrare è quello della stabilità che ha schiacciato tutto, da cui sono emerse la grandezza e l'armonia attuali. Tutti devono capire che questo è il risultato del massacro. Senza massacro, non ci sarebbe stato l'innalzamento del Paese, non ci sarebbe stata l'armonia attuale. Ospitare le Olimpiadi è la legittimazione che il sistema di leadership con caratteristiche cinesi è il migliore, testimoniato anche dalla pratica». "Stranieri: glorificateci! Patrioti: siate orgogliosi!", è la politicizzazione operata da Pechino. «Se penso a questo, il sangue mi bolle nelle vene», confida Bao Tong.

Quali sono queste «caratteristiche cinesi»? Esse hanno a che fare con «il problema della faccia» e con «il problema della verità (dietro la faccia)». Atleti, amanti dello sport e turisti non andranno in Cina per creare incidenti ma per partecipare alle competizioni, godere dello spettacolo e dei luoghi. Non si porranno questi problemi, dice Bao Tong.

«Da lungo tempo conoscere la verità in Cina è un problema difficile e imbarazzante», perché «i giornalisti cinesi devono ubbidire in modo assoluto, passo dopo passo, alla guida del Dipartimento centrale di propaganda del partito comunista cinese: cosa possono pubblicare, cosa non, seguendo sempre il tono stabilito». Anche i media stranieri devono sottostare a delle regole: dove è permesso andare, quale avvenimento coprire, chi intervistare. Dal gennaio 2007, come segno d'apertura con l'avvicinarsi delle Olimpiadi, ai media stranieri è stato concesso il «diritto di libera intervista». Un «privilegio» piuttosto, perché ai giornalisti cinesi non è concesso.

La traduzione della parola "armonia" dalla lingua del regime cinese è "ciò che è conforme ai voleri del Partito comunista". Quella concessa dal regime alla stampa è uno strano tipo di "libertà", è «limitata solo a ciò che è armonioso. Dove non c'è armonia, non si dà libertà. Allo stesso modo, la libertà di parola è data solo ai cittadini armoniosi, non a quelli non armoniosi. Per questo, conoscere la verità in Cina non è cosa facile, nemmeno per chi vive qui da lungo tempo. Figuriamoci per chi viene soltanto per uno sguardo rapido e poco profondo», osserva Bao Tong.

«E' importante conoscere queste verità. Nell'oceano di incidenti nello sfruttamento delle miniere e delle risorse, nel trattamento dei migranti, nelle demolizioni forzate, si sono verificate migliaia e migliaia di rivolte di massa. Nel 2004, ve ne sono stati oltre 80 mila, quasi un incidente ogni 5 minuti. Dal 2005, per salvaguardare l'armonia, i dati non sono stati pubblicati».

«Di sicuro questo sistema non porta né sicurezza, né pace duratura», scrive Bao Tong. «Se non cambia questo sistema basato sui due principi - violazione dei diritti della popolazione e utilizzo disinvolto della forza di polizia - non ci sarà mai pace... Dalla provincia al distretto, i segretari del Partito e i loro compagni sono nominati dall'alto e guidano tutto - spiega Bao Tong - Il loro potere è senza confini». «I pericoli alla pace provengono da questo sistema, dall'interno del sistema di potere e non dall'esterno, dalla popolazione».

Secondo la Basic Law, la "mini-costituzione" stilata congiuntamente da Cina e Gran Bretagna, Pechino dovrebbe occuparsi solo della difesa e della diplomazia e per il resto lasciare tutta l'amministrazione di Hong Kong alla gente di Hong Kong. Ma il governo di Pechino - spiega l'ex membro del Comitato centrale - non permette elezioni dirette e universali ad Hong Kong perché teme che esse possano influenzare il continente, provocando «un'infezione reciproca di democrazia».

«Il sistema comunista guida tutto e la democrazia e la legge non possono farci niente; questo sistema trasforma l'essere umano al potere in un dio, mentre l'essere umano comune non diventerà mai cittadino a pieno titolo», conclude Bao Tong, che ricorda un aneddoto legato a Mao. Era il 1945 quando Huang Yanpei, uno dei ministri, chiese al suo leader: «Come evitare la corruzione, dopo che il Partito avrà preso il potere?» Mao non gli rispose affatto qualcosa come "Abbiamo la Commissione di controllo disciplinare". Mao gli risposse: «Abbiamo la democrazia».

«Ma il problema è: abbiamo la democrazia? Quando l'abbiamo avuta? Voi, signori che sbandierate l'effige di Mao, potete dire apertamente quando? Quando uno dà importanza più alla faccia che alla verità che sta dietro la faccia; più importanza allo slogan "servire il popolo" che al popolo stesso, al massimo saprà solo che sopra di lui esiste il Partito, esiste la Commissione di controllo disciplinare. Ma non ci sarà mai posto per il minimo concetto di "popolo" e "legge"». Ecco perché quando Zhao Ziyang, nel 1989, voleva risolvere il problema Tienanmen «sul binario della democrazia e della legge» è stato subito accusato di voler provocare uno «scisma nel Partito» e di «appoggiare la rivolta». E' questa, conclude Bao Tong, la «verità con caratteristiche cinesi».

Monday, June 09, 2008

Atroce mistificazione della Cctv

I cittadini di Hong Kong piangono certamente le migliaia di vittime del terremoto del 12 maggio scorso nello Sichuan, ma la veglia di preghiera e il minuto di silenzio cui hanno preso parte in 40 mila di loro, riunendosi a Victoria Park, era come ogni anno in memoria delle centinaia, o forse migliaia di studenti uccisi il 4 giugno 1989 a Piazza Tienanmen.

La tv di stato cinese invece ha messo in atto la sua tremenda mistificazione: ha mostrato sul suo sito alcune immagini dell'annuale veglia al lume di candela, ma le ha accompagnate da una didascalia in cui si spiega che gli abitanti di Hong Kong stavano commemorando i "compatrioti" morti nel terremoto. Nel testo viene riportato che la manifestazione è durata due ore, con spettacoli di canto e musica, un minuto di silenzio e la deposizione di una corona di fiori per i "martiri". La Cctv si è ben guardata, però, dal rivelare che i "martiri" commemorati a Victoria Park erano le vittime della repressione di Tienanmen, non quelle del sisma.

Fonte: South China Morning Post