
Sessanta colpi di cannone hanno dato il via alla festa. Davanti al presidente Hu Jintao – casacca grigio-scura stile Mao – sono sfilati in 200 mila tra soldati e comparse, e i gioielli delle forze armate cinesi, compresi i missili intercontinentali in grado di trasportare testate nucleari. «E' da qui che il presidente Mao ha annunciato solennemente la fondazione della Repubblica popolare cinese, e da allora il popolo cinese si è rialzato», ha detto Hu davanti a ospiti e militari. «Oggi una Cina socialista che abbraccia la modernità, abbraccia il mondo e abbraccia il futuro si erge alta e compatta. Il progresso in questi 60 anni dimostra pienamente che solo il socialismo può salvare la Cina». Hu ha promesso che la Cina continuerà a svilupparsi, e a cercare la «completa riunificazione della patria» (con Taiwan) in modo pacifico, ma nello stesso tempo ha esaltato la «forza militare dell'esercito». Il messaggio che la leadership cinese vuole ribadire al mondo e al suo popolo è chiaro: la scelta del partito unico è quella vincente per governare 1,3 miliardi di cinesi e trasformare la Cina in una superpotenza.
Quella della Repubblica popolare è la storia di un partito contro il suo popolo. Una storia che è tabù, perché i cinesi non possono nemmeno raccontarla ai loro figli. Sessant'anni di sofferenze per lo stesso popolo cinese, ha riconosciuto Samdhong Rimpoche, premier del governo tibetano in esilio. "Contro il popolo" è il titolo di questa storia, persino nel giorno dell'orgoglio. Solo 20mila civili hanno potuto assistere alla parata, quelli selezionati e "invitati" dal regime, che a tal punto non si fida della popolazione di Pechino da impedirgli persino di partecipare alle celebrazioni. Come per le Olimpiadi dell'anno scorso, i pechinesi sono "invitati" a restare in casa. Ai residenti nell'area di Tiananmen e nei viali circostanti è stato ordinato di «non aprire finestre o affacciarsi ai balconi», «non invitare amici o altre persone».
Sarebbe facile indulgere nella retorica, ma al di là del fattore umano c'è di che dubitare delle sorti magnifiche e progressive che attendono la Cina. Quella cinese, anche recente, è una storia cosparsa di «grandi fallimenti», ricorda Bernardo Cervellera, direttore di Asianews: è un tipo di progresso «in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell'economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; rampante corruzione; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l'università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito...». I 100mila «incidenti di massa» in un anno (proteste con centinaia o migliaia di persone, 87 mila nel 2006 secondo i dati ufficiali) «dicono che il popolo vuole contare». E non basta la forza economica e militare, per essere "potenza" occorrono anche un modello culturale e uno stile di vita attraenti, che questa Cina non offre neanche lontanamente.
Il partito «non tiene più il passo del popolo dinamico che governa», osserva Gordon Chang sul Wall Street Journal. «Non bisogna farsi impressionare». Nonostante la sua «apparente forza», lo Stato cinese è «profondamente insicuro». Non c'era una folla festante lungo Chang'an Avenue. Quasi un milione di poliziotti e "volontari" hanno tenuto lontani dalle celebrazioni i cittadini normali, da cui il Partito comunista «è sempre più scollegato». Non può fidarsi di loro. «I cinesi stanno cambiando velocemente». Lo sviluppo economico ha reso la gente sempre più «consapevole, assertiva e, al contrario dei leader, sicura di sé. Ormai, questo cambiamento sociale ha preso slancio e il partito non può più fermarlo. Può dispiegare su larga scala soldati al passo dell'oca – conclude Chang – ma non può stare al passo del suo popolo, che, nel vero senso della parola, è l'unico in marcia».