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Wednesday, October 24, 2012

Fornero nuovo nemico di classe

Come si spiega il livore che suscita, quasi ad ogni sua uscita pubblica, il ministro del lavoro Elsa Fornero? Forse ad irritare è il suo distacco accademico; forse non le si perdona il pragmatismo con cui osserva una realtà del mercato del lavoro così diversa, lontana ormai anni luce, da quella fantasticata dai reduci dell'ideologia del "posto fisso" e della cultura assistenzialista; e forse incide una certa misoginia. Fatto sta che il ministro Fornero è oggetto di una demonizzazione mediatica e ideologica "a prescindere", sembra ormai la vittima preferita di leader sindacali ed editorialisti alla ricerca di facili applausi e degli odiatori di professione che si aggirano sul web. Anche quando nel merito ciò che dice è difficilmente contestabile, piuttosto che ammetterlo, o quanto meno discuterne, aprire un dibattito, viene messa alla gogna per il suo modo di esprimersi, per le sue scelte lessicali, la frase o la parola molesta, e prontamente i media bollano l'episodio come "l'ennesima gaffe".

Ha suscitato più clamore quel termine, "choosy" (schizzinosi, esigenti), del clima intimidatorio che l'ha costretta a rinunciare ad intervenire ad un dibattito a Nichelino, nei pressi di Torino. Eppure, questa volta, più che un'analisi il ministro ha elargito il buon consiglio che usava dare ai suoi studenti: ragazzi, apppena usciti dal mondo della scuola o dall'università, non siate troppo "choosy" nella scelta del primo impiego, non aspettate il posto ideale, entrate prima possibile nel mondo del lavoro e cercate di migliorare da dentro la vostra posizione, adeguandola alle vostre aspettative. Sembra un'ovvietà, eppure quella parolina - choosy - ha scatenato un putiferio.

Ma il problema del ministro Fornero si può davvero ridurre ad una questione di mera tecnica comunicativa? Si tratta forse di usare un giro di parole più attento alle sensibilissime orecchie del politicamente corretto? Pensiamo di no. Temiamo che in quanto principale artefice delle due riforme che hanno, se non abbattuto, per lo meno messo seriamente in discussione tabù come pensioni d'anzianità e articolo 18, il ministro Fornero venga ormai identificata dalla sinistra statalista e antagonista come nemico ideologico da delegittimare con ogni mezzo, ad ogni occasione, strumentalizzando qualsiasi parola.E questo nonostante la sua riforma abbia persino ecceduto nel contrastare gli abusi della flessibilità in entrata, a tal punto da reintrodurre nel mercato del lavoro un livello di rigidità incompatibile con l'attuale situazione economica. In un momento come questo, poi, è fin troppo facile, con la scintilla di una strumentalizzazione ideologica, scatenare gli istinti più demagogici del web.

Non bisogna generalizzare ovviamente, e non ci pare che il ministro lo abbia fatto. Non tutti i giovani italiani di questi tempi sono "choosy", ma di certo, soprattutto tra i laureati, il fenomeno della cosiddetta "disoccupazione d'attesa" - di coloro che aspettano piuttosto che accettare lavori che non corrrispondono alle proprie aspettative o formazione scolastica - esiste (anche perché evidentemente le famiglie sono in grado di mantenerli).
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Tuesday, April 17, 2012

La giornata: su Monti la doccia fredda dei numeri e il pressing del Pdl

Nel giorno della risalita di Piazza affari (+3,68%) e della relativa calma dello spread (stabilizzatosi a 380 punti), sono altri i numeri che non permettono a Monti di dormire sonni tranquilli. Per carità, il giudizio del Fmi sulle sue politiche è incoraggiante, anche se un tantino cauto, e il rialzo delle previsioni della crescita mondiale è un buon segnale, ma le stime sull'Italia non lasciano presagire nulla di buono: il Pil italiano si contrarrà nel 2012 dell'1,9% e nel 2013 dello 0,3%. Primi segnali di ripresa solo nel quarto trimestre del 2013. Previsioni bollate subito come «troppo pessimiste» dal direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, che evidentemente con Monti a Palazzo Chigi sente più il gioco di squadra.

Ciò significa, sempre secondo le previsioni del Fondo, che l'Italia non raggiungerà il tanto sospirato pareggio di bilancio almeno fino al 2017, un orizzonte temporale davvero troppo distante. Una doccia fredda che arriva proprio nel giorno dell'approvazione al Senato, a cui il premier ha voluto presenziare, della norma sull'effimero "equilibrio" di bilancio in Costituzione. Il rapporto deficit/Pil - prevede il Fmi - passerà dal 2,4% del 2012 all'1,5% nel 2013, per calare fino all'1,1% nel 2017; e il debito dal 123,4% di quest'anno al 123,8% del prossimo, riuscendo a scendere sotto quota 120 solo nel 2017 (118,9%). Previsioni molto severe, che in realtà sottolineano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che senza tagli alla spesa, che consentano di ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa, e abbattimento dello stock del debito, la strada verso il risanamento rischia di essere sì virtuosa ma troppo, troppo lunga. I mercati potrebbero non concederci tutto questo tempo.

Va però tenuto conto, come ricorda il responsabile del fiscal monitor Fmi, che l'Ue valuta il raggiungimento degli obiettivi di bilancio «al netto degli effetti del ciclo», cioè della recessione. Insomma, se il Pil fosse zero e non in negativo, saremmo praticamente in pareggio di bilancio. Basterà ai mercati l'artificio contabile di Bruxelles?

Nel frattempo il governo aggiusta al ribasso anche le sue stime, che avrebbe dovuto presentare già lunedì. Nella bozza del Def si prevede un fin troppo ottimistico Pil a -1,2% nel 2012 (+0,5% nel 2013), mentre il rapporto deficit/Pil dovrebbe passare dall'1,7% del 2012 allo 0,5% del 2013. In sostanza, per il governo verrebbe raggiunto il pareggio di bilancio già nel 2013 (deficit zero «reale», cioè non corretto per il ciclo, solo nel 2015), dunque già nel 2014 il debito scenderebbe sotto quota 120 (118,3%). Com'è evidente, tutto dipende dal Pil, sul quale però la previsione più realistica sembra il -2% del Fmi. Senza tacere, poi, l'ennesimo record di pressione fiscale nel 2013, quando toccherà quota 45,4% al lordo dell'evasione.

Sul piano politico la giornata di Monti si conclude con la grana dei partiti. Stasera, infatti, il vertice di Monti con ABC. Il premier in mattinata ha subito messo in chiaro che si aspetta collaborazione, anzi strada spianata: «Le tensioni delle ultime settimane dimostrano che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia, occorre continuare a lavorare per porre le finanze pubbliche su una base più sana e proseguire nelle riforme». Ma sono ancora aperti i dossier delle modifiche alla riforma del lavoro, sulla flessibilità in entrata, su cui insiste il pressing congiunto delle imprese, e delle tasse, con il Pdl che dopo aver ottenuto la rateizzazione dell'Imu è determinato a renderla "una tantum" e a impedire che l'Iva aumenti a fine settembre, mentre irrompe anche la polemica sulla riapertura dell'asta per le frequenze tv.

Wednesday, April 04, 2012

La giornata: reintegrato il reintegro, riforma Bluff-Italia

Al termine della solita chilometrica conferenza stampa più simile ad una lezione universitaria, il governo ha annunciato la capitolazione alle pressioni del Pd e della Cgil (evidentemente non contrastate da Pdl e Terzo polo): l'opzione del reintegro resta in tutti i casi di licenziamento individuale senza giusta causa, anche nei casi di motivo economico. Sarà il giudice a decidere. L'unica novità rispetto al passato è che viene introdotta l'opzione dell'indennizzo (da 12 a 24 mesi), tranne che nei casi di discriminazione. Inoltre - e vista l'irrisolutezza della norma finisce per essere un bene - il nuovo articolo 18 non sarà esteso alle imprese sotto i 15 dipendenti, quindi resterà il dualismo tra una normativa semplice (al di sotto dei 15) e una complicata e di incerta applicazione (al di sopra), tale da disincentivare, come sempre è stato, il superamento della fatidica soglia.

Non solo il filtro giudiziale non viene abolito, ma la discrezionalità del giudice - e quindi l'indeterminatezza dell'esito della controversia - se possibile risulta persino accresciuta. Per salvare la faccia, infatti, il governo fa ricorso ad un vero e proprio sofisma: nei licenziamenti individuali senza giusta causa per motivo economico il giudice potrà reintegrare se valuta la «manifesta insussistenza» del motivo. Che vuol dire? Se la giusta causa è solamente insussistente, allora si applica l'indennizzo; se è manifestamente insussistente, allora il giudice può optare per il reintegro. Ma la «manifesta insussistenza» non equivale ad una discriminazione (nel qual caso il giudice sarebbe tenuto al reintegro), bensì copre «un'area grigia», ha precisato il ministro Fornero, così ammettendo implicitamente la completa discrezionalità del giudice. In questo la differenza con la bozza del 23 marzo è sottilissima ma sostanziale. Nella prima si prevedeva che per chiedere il reintegro il lavoratore avrebbe dovuto dimostrare che dietro le inesistenti ragioni economiche addotte dal datore di lavoro si nascondeva un motivo disciplinare o una discriminazione; nella nuova formulazione è sufficiente che il giudice ritenga «manifesta» l'insussistenza della ragione economica, presumendo un altro motivo che non è nemmeno tenuto a specificare. E' come un'inversione dell'onere della prova, quindi è netta la vittoria di Bersani.

Se per la Fornero il nuovo articolo 18 toglie definitivamente alle imprese l'alibi per non investire, secondo Monti questo sistema sarà comunque «più prevedibile» del precedente. Eppure, di fatto la condanna al reintegro sarà sempre possibile: non dipenderà solo dalla percezione personale del giudice - se l'insussistenza della giusta causa la vede manifesta o meno - ma persino dall'umore con il quale si sarà svegliato quella mattina.

In attesa di capire quali concessioni ha ottenuto il Pdl sulla flessibilità in entrata tali da indurlo a cedere sull'articolo 18, e se le associazioni di categoria delle imprese intendono reagire ad una riforma che rischia di alzare costi e rigidità anziché abbassarli, registriamo che dopo il Financial Times anche il Wall Street Journal sembra voltare le spalle a Monti, paragonato solo pochi giorni prima niente meno che alla Thatcher. I due quotidiani finanziari, dopo la sbornia montiana, tornano ad avere uno sguardo più obiettivo sull'Italia.

E se la luna di miele di Monti con l'opinione pubblica interna, osserva il primo, è finita per via delle stangate fiscali, esacerbate dall'aumento dei prezzi dei carburanti e della bolletta energetica, e dal pasticcio dell'Imu – da cui scopriamo oggi che sono incredibilmente esentate le fondazioni bancarie, ennesimo schiaffo ai contribuenti – l'annacquamento della riforma del lavoro rischia di decretare la fine anche della luna di miele con l'opinione internazionale. Fino ad ora Monti ha goduto di un'apertura di credito basata soprattutto sul curriculum personale e la sobrietà, che nulla possono però di fronte ai dati nudi e crudi dell'economia italiana e degli effetti concreti, misurabili, delle sue politiche. L'unica riforma di un certo rilievo resta quella delle pensioni, per il resto solo tasse che hanno depresso l'economia, aggravando una recessione che rischia di compromettere gli impegni di risanamento. E ora questo flop sull'articolo 18, che rischia di smascherare il Bluff-Italia.

Secondo il Financial Times, tuttavia, dalla sua visita in Asia il premier avrebbe dedotto che gli investitori temono più l'instabilità politica che riforme non proprio incisive, e questo avrebbe convinto Monti a cedere al compromesso sull'articolo 18, piuttosto che rischiare di spaccare il Pd e perdere la sua maggioranza. Ma così facendo Monti finisce esattamente laddove solo pochi giorni fa si era detto indisponibile ad arrivare, e cioè ad anteporre il «tirare a campare», e in ultima analisi il disegno tutto politico di una "Grande Coalizione" anche dopo le elezioni del 2013, all'agenda riformatrice che il suo governo è stato incaricato di attuare. L'esito del vertice di ieri sera con il trio ABC sulla riforma del lavoro è solo un primo assaggio di cosa intendono concretamente i partiti italiani con "Grande Coalizione": non un'eccezione per condividere i costi di scelte impopolari ma responsabili, ma una palude in cui annacquare tutto senza farsi del male a vicenda.

Monday, April 02, 2012

La giornata: al suo ritorno Monti troverà la riforma "smontata" dai partiti?

I dati sulla disoccupazione, il tracollo da incubo delle vendite Fiat, il caos sull'Imu e la vera e propria disinformatja sulle dichiarazioni dei redditi per alimentare l'invidia sociale dipendenti-imprenditori. Alesina e Giavazzi che mettono in guardia dalla «trappola delle tasse», ricordando che in un Paese come l'Italia, con una pressione fiscale vicina al 50%, «ridurre deficit e debito aumentando le imposte è inutile, o addirittura controproducente», ma Monti difende gli aumenti delle tasse, anche se «rozzi». Meglio questi che la Grecia, come se non ci fosse una terza via virtuosa.

E' proprio vero: recessione e tasse assediano Monti, il quale dall'Asia continua con il suo temerario ottimismo per attrarre investitori. La crisi dell'Eurozona è «superata» e l'Italia ha imboccato un sentiero «più solido». Quali elementi abbia il premier per esserne così sicuro con lo spread a 327 (rendimenti sopra il 5%) e ciò che sta accadendo a Spagna e Portogallo, non lo sappiamo. Ma il contraltare dell'invito agli investitori asiatici a «rilassarsi» è il rischio che la nostra politica s'addormenti sulle riforme.

E infatti. Bersani cerca di disinnescare la mina dell'articolo 18 prima del 6 maggio, cioè prima delle amministrative («io ci credo»), mettendo il governo di fronte al fatto compiuto di un accordo in Parlamento tra le forze di maggioranza. Mentre fa a chi ce l'ha più grande (il partito) con Alfano, arriva a proporre uno scambio al Pdl: sia il giudice a optare per il reintegro o l'indennizzo in tutti i casi di licenziamento individuale, come in Germania, e in cambio via libera ad alcune richieste del Pdl sulla «flessibilità in entrata», penalizzata dallo schema Fornero.

La notizia è che Alfano non dice di no. «Fare insieme la riforma del lavoro è meglio che farla separati», basta che non si tratti solo di non scontentare la Cgil, basta che l'agenda non la detti il sindacato al posto del governo. Apertura nel metodo, insomma, e nessun paletto di merito, almeno per ora. Con Cazzola che giudica «interessanti» le aperture di Bersani.

Anche Casini è d'accordo di risolvere la questione prima di maggio, ma sul reintegro deve decidere il governo. Al rientro di Monti dall'Asia dovrebbe prendere vita - in pochi giorni fa sapere il capo dello Stato - l'articolato del governo e allora capiremo se la riforma è già morta. Monti-Fornero potrebbero essere scavalcati da un accordo parlamentare, e allora potrebbero ben poco, anche alla luce della stretta di Napolitano sulla fiducia, o essere costretti ad un passo indietro constatando la rigidità del Pd («su alcuni punti non possiamo mollare») e la scarsa voglia di Pdl e Terzo polo di alzare le barricate.

Se per Bersani è l'articolo 18 la mina da disinnescare, per Alfano è la legge elettorale. Domani mattina sul tema è convocata la direzione del Pdl, ma le parole del segretario non potrebbero essere più ambigue: da una parte dev'essere «noto in anticipo chi è il candidato premier», dall'altra osserva che «conseguentemente in Palamento si determina una maggioranza a sostegno del candidato».

Tuesday, March 27, 2012

Dal salva-Italia al bluffa-Italia

E' come scrive Stefano Menichini su Europa, e cioè che il Pd è semplicemente entrato in campagna elettorale, ma ha compiuto il «piccolo capolavoro» di portare in Parlamento il confronto sull'articolo 18, facendo così un favore a Monti; oppure c'è di più, in realtà il Pd ha iniziato a fremere per tornare a Palazzo Chigi, teme possa sfuggirgli come gli è sfuggito dopo la parentesi tecnica '92-'94, e quindi ha avviato, come sostiene Mario Sechi su Il Tempo, il piano di liquidamonti, sullo slancio del probabile successo alle amministrative?

A prescindere da quale siano i piani del Pd, resta il nodo dell'articolo 18: reintegro come opzione anche per i licenziamenti economici, come vorrebbero il Pd e i sindacati, o solo indennizzo, come vorrebbe il governo? Qualcuno dovrà cedere.

Sia come sia, sembra avverarsi ciò che avevamo predetto fin da subito, pochi giorno dopo l'insediamento del governo tecnico, e cioè che Monti avrebbe avuto se non poche settimane, «due/tre mesi, non oltre febbraio-marzo», certamente non oltre le amministrative, per la sua azione riformatrice, dopo di che rischiava di essere inghiottito dal ritorno dei partiti e indebolito, paradossalmente, dall'auspicabile allentamento della tensione sui nostri titoli di Stato. Avevamo per tempo segnalato che avrebbe commesso un errore fatale programmando la sua azione - prima i conti, poi le riforme - in un arco temporale troppo lungo. La stagione delle riforme era l'inverno, non la primavera. E ora che l'inverno è finito, sembra chiudersi anzitempo.

E quindi il pericolo che intravedevamo già a novembre - e che contrapponevamo su questo umile blog all'entusiasmo che nutrivano per l'ipotesi tecnica autorevoli economisti-blogger e professori - sembra materializzarsi: l'esperienza del governo tecnico rischia di concludersi, come le precedenti, con l'ennesima tosatura (e repressione) fiscale, il completamento di una sola riforma, quelle delle pensioni, e un'operazione credibilità, tutta fondata sull'autorevolezza personale di Monti, presso gli investitori internazionali. Le liberalizzazioni sono all'acqua di rose o tutte ancora da attuare; la riforma del mercato del lavoro è in alto mare e comunque quella uscita da Palazzo Chigi è di stampo socialdemocratico, timida sull'articolo 18 e gli ammortizzatori sociali, costosa e dannosa sulla flessibilità in entrata. Spesa pubblica? Intatta. Stock di debito pubblico? Intatto pure quello. L'annunciata "spending review" resta nel cassetto, e comunque produrrebbe briciole, e di privatizzazioni neanche a parlarne, come scrive Barbera su La Stampa. Il vero problema, il perimetro e il peso dello Stato nell'economia italiana, non è stato nemmeno scalfito.

Dopo il salva-Italia e il cresci-Italia, a chiudere il trittico riformista del governo Monti potrebbe essere il ddl bluffa-Italia.

Thursday, March 22, 2012

La riforma c'è, l'accordo no. E ora si balla

Anche su Notapolitica

Si terrà oggi tra il governo e le parti sociali l'incontro conclusivo per le ultime limature, ma il dado è tratto. La riforma c'è, l'accordo no. E forse proprio perché non c'è l'accordo, potrebbe trattarsi di una buona riforma. Non c'è l'accordo inteso come un testo da tutti sottoscritto, ma la formula della «verbalizzazione» permette a Monti di stringere un patto di non belligeranza, e persino un'intesa di fondo, con le organizzazioni imprenditoriali e con i sindacati meno conservatori. Il premier potrà così provare a "vendere" la svolta sull'articolo 18 già nella sua missione in Asia della prossima settimana, nei suoi «roadshow» all'estero per convincere gli investitori che almeno uno degli ostacoli alla competitività dell'economia italiana è venuto meno.

Non sappiamo se il metodo della concertazione sia definitivamente seppellito, come molti osservano, o riposto solo momentaneamente in soffitta in attesa di tempi migliori, ma al governo va dato atto di aver impostato con le parti sociali un confronto serrato e in tempi tutto sommato ragionevoli, senza concedere potere di veto ad alcuno, inaugurando una prassi politica di per sé preziosa, che costituisce comunque un precedente. Si può fare.

Nel merito è difficile esprimere un giudizio complessivo sulla riforma, per l'eterogeneità degli interventi. In generale è una riforma che sembra affetta da una certa schizofrenia, laddove, in ossequio alle opposte ideologie sul tema del lavoro, l'obiettivo di superare la logica del posto fisso viene perseguito con le nuove norme sui licenziamenti senza giusta causa ma contraddetto da un approccio punitivo nei confronti delle forme di flessibilità in entrata, perpetuando così l'illusione che si possa risuscitare il posto fisso. Una contraddizione che apparirà sempre meno tale solo quando ci accorgeremo che la flessibilità in entrata è destinata a perdere rilevanza dal momento in cui il contratto «dominante» non potrà più dirsi, di fatto, «a tempo indeterminato». La realtà, che fa così orrore riconoscere, è che si va verso un contratto "finché dura": come nel matrimonio, anche sul lavoro ci si promette amore eterno, salvo constatare che l'amore è finito. Si soppesano torti e ragioni e si procede oltre.

In particolare, sull'articolo 18 il ministro Fornero ha scansato la trappola del modello tedesco: in Italia lasciare alla discrezionalità dei giudici del lavoro la scelta tra reintegro e indennizzo avrebbe significato non liberare affatto i licenziamenti dalla roulette di lungaggini e ideologismi, cioè da tutte quelle incertezze che hanno funzionato da deterrente ad assumere. La discrezionalità del giudice tra le due forme di sanzione resta limitata ai licenziamenti disciplinari, mentre per quelli economici si prevede solo l'indennizzo. Il problema però è che gli indennizzi di legge previsti, quelli ai quali le parti faranno riferimento per risolvere il rapporto senza finire davanti al giudice, sono costosissimi, soprattutto per le piccole imprese, a cui l'articolo 18 viene esteso. E' dalle piccole-medie imprese che ci si aspetta, venuto meno lo spauracchio della reintegra, il maggior contributo alla crescita dell'occupazione, ma certi indennizzi se li può permettere solo la grande impresa. Così il rischio di mettere a repentaglio la propria attività assumendo nuovi lavoratori resta troppo alto per i piccoli-medi imprenditori.

L'indole dirigista del governo si sfoga, come già sul dl liberalizzazioni, sui contratti atipici, appesantiti da ulteriori oneri fiscali e contributivi (che finiranno ovviamente per gravare sulle spalle dei lavoratori precari) e vincoli burocratici. L'idea alla base, da "Stato etico", è di costringere le aziende ad assumere a tempo indeterminato, ma l'effetto che si rischia di ottenere è che preferiranno non assumere affatto, soprattutto le piccole e medie. Dunque, a fronte di un indiscutibile merito, il superamento dell'articolo 18, la riforma non solo non riduce il cuneo fiscale, perché il governo non riesce, o non vuole, tagliare la spesa pubblica, ma il costo del lavoro aumenta, mentre come ci ricorda Oscar Giannino «non c'è grande riforma del lavoro che abbia avuto successo, da quella tedesca a quella svedese, che non sia partita da questo primo passo». Anche la revisione degli ammortizzatori sociali, per passare dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore che perde il posto, risente di tempi troppo lunghi, della mancata cancellazione della Cigs, sempre per la riluttanza a reperire le risorse necessarie da tagli ad altre voci di spesa.

Abbiamo finalmente una riforma del lavoro sul tavolo, ma la partita è solo all'inizio, il governo sarà chiamato a nuove prove di forza. La Cgil è pronta a far marciare migliaia di persone (già annunciate 16 ore di sciopero generale), ma soprattutto ad esercitare tutta la propria influenza sui partiti di sinistra per bloccare o annacquare la riforma in Parlamento. Il mancato accordo non facilita quindi i passaggi parlamentari, perché pone il Pd – su cui, come sul Pci-Pds-Ds, la Cgil ha sempre esercitato un forte potere di condizionamento, impedendo ogni sua svolta riformista – in una posizione difficilissima, a rischio spaccatura, come dimostra l'irritazione del segretario Bersani. Eppure, proprio sulla rottura con la Cgil sul tema della riforma del mercato del lavoro e sull'appoggio al governo Monti il Pd potrebbe costruire un profilo finalmente riformista, blariano, ma non sembra questa una sfida nelle corde dell'attuale classe dirigente.

Monday, March 19, 2012

Riforma del lavoro, giù le carte

Anche su Notapolitica

Si apre una settimana decisiva per la riforma del mercato del lavoro – se il governo intenderà far rispettare la scadenza del 23 marzo. Al tavolo dei negoziati con le parti sociali verrà girata l’ultima carta, proprio come nel poker alla texana. Martedì il premier e il ministro Fornero incontreranno sindacati e imprese con l’intenzione di tirare le fila del discorso e giungere ad un accordo di massima su tutti i dossier aperti. Sabato al convegno di Confindustria Monti ha confermato per questa settimana la chiusura delle trattative, facendo appello allo «spirito di coesione» delle parti e chiedendo a ciascuna di «cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte». Nel vertice di giovedì sera con il presidente del Consiglio l’ABC – il tridente dei leader di partito alle spalle di Monti, la prima punta – aveva sostanzialmente espresso il proprio via libera all’impostazione della riforma, rimettendosi comunque all’eventuale accordo tra il governo e le parti sociali. Una concordia, immortalata dallo scatto fotografico di Casini, che aveva autorizzato un certo entusiasmo, come se ormai l’accordo fosse cosa fatta. Un pressing però non molto gradito dalle parti sociali, che tra venerdì e sabato hanno bruscamente frenato. Tutti sono tornati a rimarcare i punti di distanza tra di loro e con le proposte avanzate dal governo. L’accordo, insomma, è ancora possibile ma né scontato né facile.

Sull’articolo 18 «tutte le soluzioni» appaiono «lontane da ogni possibile ipotesi di un accordo», ha messo le mani avanti la Camusso dal palco del convegno di Confindustria, poco prima che prendesse la parola il presidente del Consiglio. «Fondare tutto sul tema dell’articolo 18 – lamentava la leader della Cgil – significa far passare l’idea che l’unico problema sia quello di licenziare». Poi la doccia gelata: «Siamo belli lontani» dal raggiungere l’accordo, «impossibile chiudere martedì». Dagli incontri informali di sabato mattina «sono emersi estremismi», ha commentato Bonanni, della Cisl, avvertendo che senza accordo «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura» e spiegando di comprendere la posizione delle imprese ma «non quella di altri», riferendosi senza citarla alla Cgil. Dubbioso anche Angeletti della Uil, che non scommetterebbe soldi sull’accordo perché «allo stato attuale non ci sono soluzioni condivise».

L’impressione tuttavia è che per la Cgil, e in misura minore per gli altri sindacati, meno oltranzisti, ormai non sia questione di trattare, ma di trattare una resa onorevole. Il tabù dell’articolo 18 in un modo o nell’altro verrà infranto. I mercati hanno probabilmente già scontato la riforma, sulla fiducia nel professor Monti, e una delusione costerebbe al governo la sua credibilità. Ma il premier si sforzerà di offrire un compromesso che non abbia il sapore dell’umiliazione per i sindacati, in modo da poter esibire la loro firma sulla riforma, che addolcirebbe enormemente la pillola per il Pd facilitando, quindi, i passaggi parlamentari; per i sindacati si tratta di arrivare all’accordo, se accordo ci dev’essere, in frenata, puntando i piedi, per non dare alla base, intransigente nel denunciare gli "inciuci" con i "padroni", l’impressione di una resa.

D’altra parte Emma Marcegaglia non ci sta ad un «compromesso al ribasso», se è così «meglio non farla, o quanto meno non avrà la firma di Confindustria». Nel suo intervento conclusivo sabato ha ripetuto le obiezioni della laconica nota diffusa venerdì sera da Abi, Cooperative, Ania, Confindustria, Rete Imprese Italia: «La riforma del lavoro che il governo va delineando non pare ancora in grado di individuare le giuste soluzioni». Diverse le preoccupazioni degli imprenditori: la restrizione e il significativo aumento di oneri e vincoli burocratici delle forme "buone" di  flessibilità in entrata; l’aumento del costo del lavoro che dovranno sopportare per finanziare i nuovi ammortizzatori, che non sarebbero comunque in grado di agevolare i processi di ristrutturazione; e la mancanza di chiarezza sulle soluzioni, «che anche l’Europa chiede all’Italia, per migliorare la flessibilità in uscita». Il rischio che paventano le imprese italiane è, quindi, di trovarsi «indebolite di fronte alla concorrenza internazionale», ma al tempo stesso rinnovano la disponibilità a lavorare per raggiungere «un accordo pienamente condiviso».

Il ministro Fornero ribadisce che un accordo con le parti sociali è «imprescindibile», perché darebbe «un valore aggiunto di notevole importanza alla qualità della riforma», ma ci sono molte ragioni per dubitarne: una buona riforma con l’accordo di tutti i sindacati è come i neutrini più veloci della luce, come sfidare le leggi della fisica. Se infatti non si può disconoscere il valore politico e sociale di un accordo tra le parti, ciò che dovrebbe essere imprescindibile, al di sopra degli interessi di parte, è l’efficacia della riforma rispetto agli obiettivi che si prefigge per favorire la crescita economica e dell’occupazione. E sono essenzialmente tre: ridurre il dualismo del mercato del lavoro superando la logica del posto fisso, quindi aumentando la flessibilità in uscita; semplificare la selva di contratti flessibili senza irrigidire il mercato in entrata; passare gradualmente ma in modo incisivo dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore che perde il posto. Il tutto, se possibile, senza aumentare il cuneo fiscale, già a livelli massimi e fuori mercato.

Un approccio punitivo nei confronti delle forme di flessibilità "buona", così come il mantenimento della centralità della cassa integrazione chissà per quanti anni ancora, contraddirebbero gli obiettivi proclamati della riforma. Sull’articolo 18, il riferimento al modello tedesco è pericoloso: in Germania funziona perché storicamente i sindacati, più coinvolti nella gestione delle aziende, si comportano più responsabilmente, e la giustizia del lavoro viene amministrata in modo ultra-rapido e pragmatico. In Italia lasciare alla discrezione dei giudici del lavoro la scelta tra reintegro e indennizzo significherebbe non liberare i licenziamenti dalla roulette di lungaggini e ideologismi, cioè da tutte quelle incertezze che fungono da deterrente ad assumere. Il ricorso al modello tedesco quindi può prestarsi ad una doppia interpretazione: un assist offerto ai sindacati per incoraggiarli a sottoscrivere una riforma che si richiama esplicitamente ad un sistema produttivo in cui i sindacati svolgono un ruolo centrale e in cui non vige certo il licenziamento facile; oppure un espediente, che si rivelerebbe ben presto velleitario, per nascondere ai mercati, dietro il riferimento all’efficienza germanica, una piccola riforma e per compiacere il partner tedesco.

Monday, February 20, 2012

Monti seguirà la rivoluzione spagnola?

Anche su Notapolitica

Oggi governo e parti sociali tornano ad incontrarsi, per la quarta volta ufficialmente, sulla riforma del lavoro. Il tempo stringe, la fine di marzo è la deadline per il varo della riforma su cui il governo si è impegnato, anche in sede europea. Il «massimo consenso» delle parti sociali è auspicato, ma la riforma s'ha da fare, con o senza accordo (o solo parziale), e «nel volgere di poche settimane». Il nodo resta quello dell'articolo 18, con Cisl e Uil più aperte ad ipotesi di «manutenzione» e Cgil nettamente contraria, anche se non fino al punto di interrompere la trattativa sugli altri temi. Mentre il «dialogo» prosegue, il mondo intorno a noi, che già non conosceva l'anomalia tutta italiana dell'articolo 18, è già cambiato o sta velocemente cambiando. Abbiamo scelto gli esempi di Germania e Spagna. I tedeschi perché sono i nostri principali competitor nell'export e rappresentano la best practice di riferimento in termini di produttività, gli spagnoli perché condividono con noi cultura e vocazione mediterranea, ma anche la prima linea nell'attuale crisi del debito.

SPAGNA – In soli due mesi il governo spagnolo di Mariano Rajoy ha varato la sua riforma del lavoro (e forse di questo Monti parlerà con il collega di Madrid quando giovedì verrà a Roma) per combattere una disoccupazione che sfiora il 23% e aumentare la mobilità in un mercato che pur non conoscendo l'obbligo di reintegro soffre di un dualismo comunque eccessivo tra lavoratori "iper protetti" e "iper precari".

La flessibilità in uscita quindi è stata ulteriormente accentuata, abbassando il costo dei licenziamenti. Le indennità di licenziamento senza giusta causa per i contratti ordinari a tempo indeterminato sono state tagliate da 45 a 33 giorni per ogni anno d'impiego, fino a un massimo di 24 mesi anziché di 42. Più facili i licenziamenti per causa oggettiva, cosiddetti "low cost", cioè per problemi economici. Le aziende potranno farvi ricorso qualora registrino perdite, «cadute delle entrate o vendite», durante tre trimestri consecutivi e dovranno corrispondere al lavoratore un'indennità di 20 giorni per anno lavorato fino a un massimo di 12 mensilità. L'obiettivo, in un momento di crisi, è agevolare i processi di ristrutturazione delle imprese, secondo la logica che un ridimensionamento e una riorganizzazione sono preferibili alla chiusura di un'attività. Per questo la riforma favorisce anche la contrattazione aziendale a scapito di quella nazionale o regionale. Le imprese in crisi, infatti, potranno letteralmente sganciarsi dai contratti collettivi di settore, ricontrattando con i propri dipendenti tempi di lavoro, funzioni e retribuzioni.

La riforma non ha risparmiato il pubblico impiego. Enti, organizzazioni o entità della pubblica amministrazione, infatti, qualora per nove mesi si trovino in deficit di bilancio potranno licenziare i dipendenti privi della qualifica di «funzionario» senza filtro giudiziale, ma corrispondendo loro un'indennità uguale a quella che spetta ai dipendenti del settore privato. Una norma che interessa 685 mila lavoratori sul totale dei dipendenti pubblici spagnoli, che sono 3,1 milioni. Di fatto, in realtà, di questi 685 mila solo una minima parte, circa 100 mila, ha un contratto a tempo indeterminato, mentre gli altri avendo un contratto a termine o precario erano già licenziabili. Dunque, la norma ha più che altro un valore simbolico, infrange il tabù dell'intangibilità del posto di lavoro pubblico, ora a rischio non solo per motivi disciplinari ma anche per motivi economici e organizzativi delle amministrazioni pubbliche.

GERMANIA – Se in Spagna la legislazione del lavoro sta rapidamente cambiando, in Germania le riforme Hartz (ex capo del personale Volkswagen) hanno ristrutturato mercato del lavoro e welfare nel 2002-2003 e, insieme ad un abbattimento di spesa pubblica e tasse di oltre 6 punti di Pil, hanno già prodotto i loro frutti. Da una disoccupazione record del 10% (con punte del 18% nella ex Germania Est) si è passati al 5,5% del gennaio di quest'anno. In Germania di fronte ai licenziamenti senza giusta causa, laddove il lavoratore ricorra alla tutela giudiziale, il reintegro è solo un'opzione, non un obbligo per i giudici, che infatti optano per l'indennizzo. Il lavoratore che rinuncia subito al ricorso riceve un risarcimento pari alla metà dello stipendio mensile per ogni anno di lavoro svolto. In Italia a spaventare le imprese non c'è solo la mancanza di un'alternativa al reintegro, ma soprattutto l'assenza di un tetto all'eventuale risarcimento del danno, per cui il datore non può prevedere il rischio massimo in caso di sconfitta in giudizio, data la durata incerta delle cause.

Tornando alle riforme Hartz, il sussidio di disoccupazione, a carico per lo più delle imprese, è stato ridotto da 32 mesi ad un range da un minimo di 12 ad un massimo di 18 mesi, in base all'anzianità lavorativa, per un importo pari al 60% del salario (67% con figli a carico). Il diritto al sussidio decade se il lavoratore rifiuta una nuova occupazione e non è più cumulabile, come in precedenza, con l'assegno sociale di indigenza, a  carico della fiscalità generale. Per ridurre la precarietà i tedeschi non hanno abolito i contratti atipici istituendo un contratto unico a tutele crescenti, come alcuni vorrebbero in Italia, né hanno elevato il loro costo fiscale e contributivo per renderli svantaggiosi, perché ciò avrebbe semplicemente fatto perdere quei posti di lavoro, o li avrebbe costretti a sopravvivere in nero. E' stata invece innalzata fino a 400 euro la quota di salario completamente defiscalizzata, mentre fino a 800 euro l'aliquota fiscale e contribuitiva è del 10%.

ITALIA – Per l'Italia, che si accinge ora a riformare il mercato del lavoro e il welfare, seguire questi esempi non è una questione di principio – siccome lo fanno gli altri è giusto che ci adeguiamo anche noi – ma di necessità economica: se il nostro sistema rimarrà anche solo di poco più rigido rispetto a quello dei nostri competitor più vicini a noi, culturalmente (gli spagnoli) o per capacità di export (i tedeschi), gli investimenti tenderanno a confluire da loro. Persino le imprese italiane potrebbero ritenere più conveniente spostare le loro produzioni in Spagna.

L'impressione è che ormai l'articolo 18 – la cui modifica è una delle richieste avanzate esplicitamente dalla comunità finanziaria americana a Monti – subirà una qualche forma di «manutenzione». Ma il rischio è che l'esigenza politica del governo di riuscirci se non con l'accordo, almeno senza umiliare i sindacati e il Pd, produca un compromesso al ribasso. Per esempio, la mera sospensione in via sperimentale, e limitata alle nuove assunzioni, dell'obbligo di reintegro nei casi di licenziamento per motivi economici; l'introduzione, in cambio, di un contratto unico a tempo indeterminato, invece di limitarsi a semplificare la selva di contratti atipici; un sussidio di disoccupazione troppo generoso per costo e durata.

Thursday, January 26, 2012

Meglio nessuna riforma che una cattiva riforma

Anche su Notapolitica

Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.

Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.

La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.

Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?

Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.

Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.

Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.

Monday, October 31, 2011

L'usato sicuro e a km zero di Renzi

Risvegli: Berlusconi che si dice pronto a porre la fiducia su ciascuno dei provvedimenti annunciati nella lettera all'Ue, dunque a mettere in gioco per una volta per obiettivi alti la sopravvivenza del suo governo, e l'usato anni '80 - ma sicuro e soprattutto, in Italia, ancora a chilometri zero - esposto da Matteo Renzi alla Leopolda, sono piccoli ma incoraggianti segnali di risveglio. Nel primo caso di un Berlusconi consumato che cerca di rilanciarsi nell'unico modo possibile: leadership di governo; nel secondo di un giovane sindaco che tenta di togliere un bel po' di muffa alla sinistra italiana.

Già, perché la lettera di intenti recapitata all'Ue almeno un primo effetto positivo l'ha avuto: è stata «sufficiente a dissolvere il bluff su cui si è retta la politica italiana negli ultimi 90 giorni. Fondamentalmente - scrive Luca Ricolfi su La Stampa di oggi - il bluff con cui un po' tutti - sindacati, Confindustria, opposizione - hanno finto che il problema fosse solo l'inerzia del governo, e che invece le cosiddette parti sociali fossero perfettamente consapevoli della gravità della situazione, dell’urgenza di intervenire, della strada da imboccare, delle misure da prendere». Le reazioni che ha suscitato da parte delle forze politiche e sociali dimostrano quello che su questo blog non mi stanco di ripetere. Quello italiano è un blocco, un immobilismo, di sistema, che va ben oltre l'attuale governo e la sola figura di Berlusconi. Pensare che un suo passo indietro possa sbloccare la situazione è o ingenuità o malafede. Può certamente terremotare il sistema politico, ma non di per sé avviare l'Italia sulla via delle riforme necessarie per rilanciarsi. L'hanno capito oltreoceano giornali di così diversa estrazione come New York Times e Wall Street Journal, e in Italia lo sottolineano commentatori come Angelo Panebianco, che oggi sul Corriere denuncia i molti «furbi e ipocriti» e parla del «vorrei ma non posso» del governo e del «potrei ma non voglio» dell'opposizione; e Ricolfi, appunto, che smaschera il «bluff» delle opposizioni, politiche e sociali: «Non appena il governo, incalzato dall'Europa, ha timidamente manifestato l'intenzione di agire su alcuni di quegli stessi nodi che le parti sociali avevano imprudentemente evocato - "modernizzare il sistema di Welfare", "liberalizzazioni", "mercato del lavoro" - sono esplosi i conflitti sia fra le parti sociali sia dentro l'opposizione».

No, non sono idee particolarmente nuove quelle di Renzi, elencate in ben 100 punti - anche troppi - alla Leopolda. Riforme di cui si parla da anni e che tutti sanno essere necessarie. A partire dall'eliminazione delle pensioni di anzianità e dal passaggio al sistema contributivo per tutti; proseguendo con la flexsecurity di Ichino e le privatizzazioni di imprese pubbliche, delle municipalizzate e del patrimonio immobiliare dello Stato; le liberalizzazioni delle professioni e dei servizi pubblici locali, compreso il trasporto pubblico regionale; l'idea molto blairiana della Delivery Unit e di mettere in competizione il pubblico con il pubblico (scuole, università e servizi sanitari); l'abolizione del valore legale del titolo di studio; l'abolizione dell'Irap da finanziare con il taglio dei sussidi alle imprese; la riforma fiscale trasferendo il peso dalle persone e dal lavoro alle cose; e l'immancabile riforma della politica (ritorno all'uninominale; abolizione dei vitalizi dei parlamentari e del finanziamento pubblico sia ai partiti che agli organi di partito), una vera e propria sburocratizzazione dei partiti. Ma per una esaustiva analisi da un punto di vista liberale vi rimando al post di Carlo Stagnaro, su Chicago Blog.

Tra una spolverata e l'altra di demagogia giovanilista, di green e di digital, c'è però un approccio indubbiamente moderno e direi blariano, che per la sinistra rappresenta certamente una novità. Non sono idee nuove, è vero, e se c'è del Veltroni si tratta del Veltroni migliore, quello del Lingotto, ma direi che c'è di più. Purtroppo sono idee ancora largamente minoritarie a sinistra e anche in un partito, il Pd, che millanta cultura di governo e riformista. Minoritarie non solo tra i vertici, che basterebbe "rottamarli", ma - quel che è ancor più preoccupante - nella base. E l'accusa a Renzi di essere di «destra», un «berluschino», è diffusa. La stessa battuta di Bersani sull'«usato anni '80» non è che un maldestro tentativo di addossargli il marchio d'infamia del reaganismo e del thatcherismo. Sarà pure un «usato anni '80», ma meglio un usato sicuro che un usato '900 che aspetta solo di essere rottamato; anche perché in Italia è un usato a chilometri zero, visto che qui di politiche liberali non se ne sono viste, mentre con quelle stataliste di chilometri ne abbiamo fatti almeno 300 mila senza arrivare da nessuna parte.

Un altro momento prezioso dell'incontro alla Leopolda è stato l'intervento di Alessandro Baricco. Raro, davvero raro, sentire da un uomo di cultura, da un "intellettuale" di sinistra, in poche, comprensibili e inequivocabili parole un'autocritica così radicale e sincera. Un «ripasso degli errori», come lui stesso l'ha definito. «Con l'alibi della difesa dei più deboli abbiamo creato un sistema di tutele e privilegi a difesa della mediocrità e del servilismo. Non so come è accaduto, ma è accaduto», mentre «la cosa migliore che possiamo fare per i più deboli è concedergli un sistema dinamico e non un sistema bloccato», perché «il rischio è una chance proprio per i deboli». Una sinistra che oggi è «ciò di più conservativo che c'è in questo Paese». Una sinistra che «ha cercato di vincere a tavolino tutte le partite». Possibile, si è chiesto Baricco, «che tutte le volte che vince l'altro è perché ha barato»?

Friday, October 28, 2011

La strada è quella di Ichino

Nella lettera di intenti alla Ue il passaggio che sta suscitando la levata di scudi dei sindacati e delle opposizioni (tutte, pure quelle che rivendicano un atteggiamento "responsabile") è un'enunciazione generica: «Entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato». Per capire come il governo intende attuarla in concreto, e soprattutto se sarà in grado di farlo, bisognerà aspettare, ma lo schema Ichino, a cui oggi in un intervento telefonico su Canale 5 Berlusconi ha fatto riferimento («la strada è quella del ddl Ichino»), mi sembra il più opportuno da seguire sia nel merito che nel metodo. Nel merito, perché di fatto consente il licenziamento per motivi economici od organizzativi, dietro un indennizzo da corrispondere al lavoratore la cui entità cresce con l'anzianità di servizio, e prevede la trasformazione della cassa integrazione in un sussidio di disoccupazione universale, decrescente nel tempo e condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore a nuove proposte e alla riqualificazione. La flexsecurity di stampo scandinavo, insomma, dove è ovvio che il fattore più delicato per le specificità italiane sta nel sussidio: quello prefigurato da Ichino mi sembra troppo generoso, attraente per entrambe le parti.

Ma è comunque conveniente per il governo e la maggioranza, dal punto di vista politico, procedere su questa strada, perché è una buona riforma ed è la proposta di un senatore e giuslavorista del Pd, sottoscritta da ben 54 senatori dell'opposizione. Come farebbe il Pd a tirarsi indietro e allo stesso tempo a presentarsi come forza di governo ed "europea"? Di «minacce inaccettabili» ai lavoratori parlano Bersani e Fassina e l'ex ministro Pd Cesare Damiano boccia senz'appello non solo la generica enunciazione del governo nella lettera di intenti all'Ue, ma anche le proposte di Ichino. Di Pietro ovviamente alza i toni, parlando di «contenuto pericoloso» e di un «omicidio sociale», ma anche il "moderato" Casini, quando si comincia a parlare di cose concrete, getta la maschera: lo definisce un «patto scellerato» contro il lavoro e a parole si dice a favore di un mercato «più flessibile», ma propone di affidarsi alla concertazione con le parti sociali, che è come chiedere ai tacchini di anticipare il Natale. Non se ne farebbe niente. Vale dunque per tutte le opposizioni, nessuna esclusa, nemmeno i centristi, quello che scrive Giuliano Ferrara, oggi su Il Foglio:
«Un giorno deridono il governo perché non avrebbe la fiducia dell'Ue, il giorno dopo insorgono contro il programma di riforme per lo sviluppo concordato in sede europea... Insorgere è facile, prepararsi al governo è difficile. Ma la prima ginnastica è propria di una concezione irresponsabile delle istituzioni, la seconda è un preciso dovere repubblicano per chi ha avuto il mandato di opporsi e di offrire ai cittadini una prospettiva diversa...».
E' ovvia la risposta di Bersani all'appello di Berlusconi alla responsabilità delle opposizioni: sì sulle proposte su cui conveniamo, no su quelle su cui non conveniamo. Peccato che non è dato sapere quali condividono e quali no, o meglio l'impressione è che stringi stringi non ci sia nulla che condividano, per il solo fatto che a proporle è Berlusconi. Nell'intervista di oggi a Il Messaggero, tra l'altro, reiterando la strategia dalemiana di rincorsa dell'Udc, Bersani certifica il fallimento del Pd, quando afferma che «non sto parlando di un'ammucchiata, ma di un incontro tra progressisti e moderati italiani per un patto di legislatura e su una dozzina di riforme da fare per ricostruire l'Italia». Ma come, non doveva essere proprio il Pd «l'incontro tra progressisti e moderati»? La necessità di un'alleanza con l'Udc, a giocare il ruolo della Margherita nell'Ulivo, dimostra che Pd = Pci-Pds-Ds.

Perché mi accanisco sull'opposizione? Primo, perché mi accanisco pure sul governo, e i post di questi mesi lo dimostrano. Secondo, a giudicare dagli articoli che si leggono negli ultimi giorni non sono l'unico a pre-occuparmi della mancanza di un'alternativa di governo al centrodestra berlusconiano, né sono l'unico a diffidare di governi "tecnici". «Italy Risks Post-Berlusconi Hangover», era il titolo di un commento di ieri sul Wall Street Journal di Murdoch:
«Many hope he might be replaced by a technocratic government with the power to make difficult decisions. A bigger risk is that early elections lead to instability and government paralysis. (...) For a technocratic government, the political challenge might be too great. But if the alternative is no government at all, Mr. Berlusconi might be the least-worst option».
E «For Italy, Berlusconi Is a Problem but Also a Solution» è il titolo di un articolo del New York Times oggi:
«... if there is one thing many Italians fear more than the current government it is the available alternatives».
Intanto, Berlusconi finalmente sembra aver sciolto le riserve sulla futura leadership del Pdl e del centrodestra: primarie. Il candidato premier per il 2013 sarà scelto con le primarie? «Certo, sarà un candidato che sceglieremo con un sistema elettorale sul modello dei partiti americani, che coinvolgono nella scelta della politica tutti i cittadini che desiderano partecipare». Così ha risposto a Belpietro, questa mattina su Canale 5.

Monday, October 03, 2011

Marchionne smaschera Confindustria

Con la lettera di oggi, in cui annuncia l'uscita della Fiat da Confindustria, Marchionne di fatto cestina il manifesto presentato venerdì scorso dalla Marcegaglia, che pur contenendo tante proposte condivisibili, rischia soltanto di fungere da cavallo di troia per la patrimoniale.

A prescindere dal giudizio che si può avere della Fiat del passato come azienda assistita, oggi bisogna guardare a Marchionne come ad un vero innovatore, che mostra di non temere il conflitto anche radicale con le forze della conservazione, mentre gli industriali italiani e la loro associazione tendono storicamente ad evitarlo accontentandosi dei dividendi della "pax corporativa". Le sue potrebbero essere le parole e le considerazioni di un qualsiasi manager di una qualsiasi multinazionale straniera che vorrebbe investire in Italia ma teme che il suo investimento non sia economicamente sostenibile. Ecco perché dovremmo dargli ascolto. Non solo per mantenere in Italia gli investimenti Fiat, ma perché quella via potrebbe portarne molti altri.

E agli occhi dell'ad di Fiat Confindustria non fa gli interessi della sua azienda nel momento in cui da una parte elabora manifesti politici (anche in molta parte condivisibili), ma dall'altra si prepara a sabotare nei fatti, con l'accordo del 21 settembre, l'accordo interconfederale del 28 giugno scorso e le norme contenute nell'articolo 8 - quelle sì tra le poche della manovra finanziaria di agosto davvero in linea con quanto richiesto dalla Bce - che prevedono «importanti strumenti di flessibilità» e sanciscono la validità delle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Norme che di conseguenza permetterebbero «a tutte le imprese italiane di affrontare la competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti». Insomma, Confindustria predica bene ma razzola male, mostrandosi in questo non diversa dalle altre forze politiche e sociali del nostro Paese, al dunque più interessata a mantenere le proprie quote di potere corporativo, senza quindi scegliere fino in fondo le logiche della contrattazione decentrata e un quadro di certezze nei rapporti sindacali.

Tre giorni dopo il manifesto riformatore di Emma, l'uscita della Fiat di Marchionne mostra il vero volto di Confindustria.

Tuesday, October 20, 2009

Dove vuole arrivare il "compagno" Tremonti?

L'impressione è che stavolta Tremonti abbia davvero esagerato con la sua ultima provocazione anti-mercatista, addirittura la "riabilitazione" del posto fisso. Come mi pare fece con Fini, a questo punto Feltri dovrebbe candidare anche Tremonti alla leadership del centrosinistra. Questa volta però non tutti i ministri sono rimasti in silenzio in nome della compattezza e dell'armonia nell'Esecutivo. E anche nel partito gli scontenti per le uscite schiettamente socialdemocratiche del ministro dell'Economia - pur ammettendo che le sue politiche finora sono rimaste fiscalmente responsabili, il che non era scontato in un Paese come l'Italia, durante una grave recessione - si sentono finalmente autorizzati ad uscire allo scoperto.

Non manca chi ha esteso la critica a Tremonti ben oltre la restaurazione del mito del posto fisso. «Tremonti dà una risposta per l'uscita dalla crisi che io non condivido. Tornare indietro è più facile, ma non risolve i problemi. Bisogna cambiare occhiali per capire come è fatto il nuovo mondo. Non si deve aver paura». Sembra una critica complessiva, per esempio, questa di Brunetta in un'intervista a la Repubblica. Come sapete, è anche la posizione di questo blog: «Abbiamo vissuto la stagione del lavoro atipico come estrema conseguenza dell'egoismo del lavoro tipico, dell'egoismo degli insiders contro gli outsiders. Tutte le garanzie ai primi, protetti dal sindacato, tutte le flessibilità scaricate orribilmente sui secondi privi di rappresentanza».

Ma la soluzione non può essere quella di far diventare gli outsiders degli insiders, perché il sistema non sarebbe in grado di sopportarne i costi. La proposta di Brunetta è di «spalmare le esigenze di flessibilità su tutte le forze lavoro occupate. So bene quanto sia delicato questo argomento, basti pensare agli scontri, tra riformisti e conservatori, intorno all'articolo 18». Tremonti, invece, «vorrebbe una nuova società dei salariati. Solo che questa non risponde alle esigenze di flessibilità che pone il sistema. La sua è una soluzione del Novecento che non va più bene in questo secolo».


«Le garanzie non devono derivare da un posto di lavoro, ma dalla propria professionalità, dal proprio essere azionisti dell'attività produttiva. Bisogna provare, anche se mi rendo conto di essere un po' utopista, ad adattare le regole del mercato del lavoro a quelle della Rete, perché è questa la novità di quest'epoca. La novità è Internet, è l'intelligenza che produce senza capitali».
Va bene lavorare «per dare posti di lavoro più duraturi», osserva un altro ministro, Sacconi, a Mattino5, ma «questo non si ottiene con norme vincolanti bensì permettendo ai lavoratori di affermare le proprie competenze». E i finiani mostrano di sentire la concorrenza di Tremonti per il dopo-Berlusconi. «La cultura del posto fisso è uno dei mali del Mezzogiorno che i giovani dovrebbero contrastare per essere liberi dallo statalismo e dalle clientele politiche che nei decenni passati hanno caratterizzato il mercato del lavoro», osserva Italo Bocchino, deputato Pdl vicino al presidente della Camera: «Quello di cui c'è veramente bisogno è una formazione professionale vera, capace di introdurre i giovani nel mercato del lavoro e di garantire quella professionalità utile a competere».

Alberto Alesina, intervistato da Il Foglio, comprende il ragionamento di Tremonti e rispetta le sue categorie di pensiero. Certo, la stabilità sociale, anche durante questa grave recessione, ha contribuito alla tenuta del Paese, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze delle nostre scelte. Far prevalere la stabilità del posto fisso presenta dei costi non irrilevanti, e non solo per le imprese. I costi maggiori, anzi, li sopportano proprio i lavoratori: scarsa produttività, quindi un salario più basso e un reddito pro capite inferiore a quello di altri Paesi:

«Non possiamo avere tutto insieme, la piena occupazione con posto stabile, il salario più alto, la crescita più rapida. Il risultato probabile, al contrario, è che aumenterà la frattura tra chi il posto ce l'ha e se lo tiene stretto e chi non lo avrà mai. Una società in cui chi ha un lavoro garantito (e per lo più sono uomini adulti) dovrà mantenere i figli per un numero elevato di anni. Una società a un tempo statica e divisa».
Salari alti, redditi alti, posto fisso e piena occupazione è «un'equazione che non funziona».

Come osserva Dario Di Vico, sul Corriere, l'uscita di Tremonti «spiazza la sinistra», mira dal punto di vista comunicativo, come già sta accadendo da alcuni mesi, a mettere il Pd in un angolo, facendo rientrare nel Pdl entrambi i poli del dibattito politico-culturale che si svolge sui principali temi, dall'immigrazione al lavoro:

«Inneggiando al posto fisso e sbeffeggiando la mobilità sociale, Tremonti non pare avere intenzione di capovolgere la linea di politica del lavoro del governo Berlusconi. Giacché dovrebbe rivoltare la filosofia della riforma della pubblica amministrazione del collega Renato Brunetta, sconfessare il ministro Gelmini, chiedere la cancellazione della legge Biagi e fare una buona provvista di euro per assumere, come Stato, tutti i precari della scuola, delle Poste, della Rai, dell'Istat, dell'Isfol, della Croce Rossa, dell'Istituto superiore di sanità e via di questo passo».
Una «sortita», quella di Tremonti, che va circoscritta quindi «al mondo dei simboli e delle querelle politico-culturali».

E' vero che dal punto di vista comunicativo può rivelarsi un vantaggio per il Pdl riassumere al proprio interno un ampio spettro di posizioni su vari temi polarizzanti (stato e mercato, laicità, immigrazione-integrazione, rapporto tra istituzioni). In condizioni normali, la confusione che si genera nel profilo politico-programmatico della coalizione avvantaggerebbe l'avversario. E' pur vero che non siamo in condizioni normali, finché l'opposizione rimane nello stato di irrilevanza e di totale mancanza di credibilità nel Paese in cui è, ma non bisogna comunque esagerare, fino a porre in discussione l'identità e le basi politico-culturali su cui una moderna politica economico-sociale di centrodestra dovrebbe fondarsi.

Stando a quanto riporta questa mattina Mario Sechi, su Libero, il Pdl comincia a ribollire di sentimenti anti-tremontiani. «Non siamo al Giulio contro tutti, né al ritorno della notte del 3 luglio 2004, quando il ministro fu costretto dalla tenaglia An-Udc a lasciare l'incarico», scrive Sechi, ma ormai si dubita sempre di più che la politica economica del ministro Tremonti sia in grado di garantire all'Italia un tasso di crescita sostenuto e soddisfare le aspettative delle «categorie di riferimento». Per questo, rivela Sechi, «negli uffici del partito si stanno ultimando le bozze di due documenti riservati, a esclusiva circolazione interna, che fanno un punto-nave politico e cercano di dare una risposta economica alle richieste che vengono dalla Confindustria, dal mondo delle imprese e delle partite Iva, dal Viminale e le forze dell'ordine, dalla stessa Banca d'Italia». Leva fiscale e riforma delle pensioni le due idee «fulcro» dei due documenti, certamente «non tremontiani».

Il ministro è convinto, sia per ragioni di bilancio (assolutamente condivisibili), sia per la sua filosofia politica (meno condivisibile), che nella società di oggi la domanda di stabilità e sicurezza sia prevalente su tutte le altre. Ma Tremonti sbaglia a sottovalutare il tema "tasse", che da almeno due secoli non manca di infiammare i popoli di ogni latitudine.

Tuesday, March 10, 2009

La proposta di Ichino è anche del Pd?

A dividere il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, sono più i tempi che il merito. Per il ministro in tempi di crisi e di «grandi incertezze» meglio non mettere a mano a grandi riforme nell'ambito del lavoro o delle pensioni, che potrebbero rivelarsi «fonte di ulteriori preoccupazioni e insicurezze tra le persone e tra i lavoratori in particolare». Ichino ritiene invece che anche in tempi di crisi si possa riformare il mercato del lavoro e del welfare, e in un'intervista di oggi al quotidiano il Riformista ha rilanciato la sua proposta di "flexsecurity", un contratto a tempo indeterminato per tutti, flessibile ma con tutele crescenti nel tempo.

Numerose aziende grandi, medie e piccole, che danno lavoro a 55 mila lavoratori, hanno indirizzato ai ministri del lavoro del governo in carica e del governo-ombra una lettera aperta in cui sostengono la proposta di legge di Ichino e auspicano una iniziativa bipartisan. Una lettera analoga è stata sottoscritta da centinaia di giovani di ogni parte d'Italia. Ieri è arrivata la risposta del ministro Sacconi che, pur sottolineando la scarsità di risorse e la delicatezza del momento, si dice «pronto a discuterne»: «Se si manifestasse una disponibilità convinta dell'opposizione a soluzioni largamente condivise con le parti sociali, che riguardino anche la risoluzione della tutela dei lavoratori, noi siamo pronti a discuterne».

La proposta di Ichino si ispira al modello danese e intende risolvere il problema del dualismo nel mercato del lavoro italiano, per fare in modo che non siano solo i lavoratori con contratti atipici a sopportare i rischi e gli svantaggi della flessibilità, come spiegava egli stesso un anno fa. Ma se non sarà il Pd a sposarla sinceramente e a condividere con la maggioranza la responsabilità politica di portarla avanti, il governo non avrà alcun interesse nel rischiare di sollevare un polverone e trovarsi contro tutti i sindacati e l'opposizione.

Saturday, March 07, 2009

Messa così ha ragione Brunetta

Messa così ha ragione il ministro Brunetta nella sua intervista di oggi al Corriere: piuttosto che un sistema universale di sussidi di disoccupazione mal calibrato, meglio quello attuale. Perché la proposta di un assegno uguale per tutti non sia «astratta e ideologica», «facciamo un test», dice Brunetta sfidando Franceschini e il Pd: «A quale livello fissiamo l'importo dell'assegno? Alto, medio, minimo?». Su questa risposta ho l'impressione che cadrebbe l'asinello democratico. «Medio? Ma allora il lavoratore atipico troverà più conveniente smettere di lavorare e incassare l'assegno. Basso? Peggio ancora: si lamenterebbero i lavoratori in cassa integrazione, che oggi prendono di più. Alto? Scoppierebbe la rivoluzione: i disoccupati ci inseguirebbero con i forconi, gli altri sarebbero indotti a incassare e lavorare in nero».

Rimango a favore di un sistema universale di sussidi di disoccupazione, ma per parlarne in modo non ideologico riconosco che bisogna partire dal valore che si intende attribuire a questo assegno. Dal peso dell'assegno dipende tutto. E' ovvio che perché funzioni il livello dev'essere basso. Certo che i lavoratori in cassa integrazione «si lamenterebbero», ma proprio perché con il sussidio universale si esce dalla logica della cassa integrazione, che è conservare il posto nella stessa azienda, in attesa che il ciclo economico migliori.

Il sussidio, al contrario, in un'ottica non assistenzialista ma di "welfare to work", è un sostegno al lavoratore calibrato in modo da incentivarlo a trovare un altro lavoro prima possibile. Per questo l'entità dell'assegno non può assolutamente essere calcolata in percentuale rispetto all'ultimo stipendio. Chi perdesse un posto da 3 mila euro al mese e ricevesse il 60% se la prenderebbe con tutta calma. Il livello invece dovrebbe essere piuttosto basso: sui 500-800 euro massimo, per intenderci. Altrimenti si verificano gli effetti distorsivi di cui parlava Brunetta nell'intervista al Corriere e vere e proprie ingiustizie. «Non abbandonare chi perde il lavoro a se stesso; ma neppure dare troppe garanzie. Ammortizzatori sociali, non bancomat».

La domanda è: il Pd è pronto a sovvertire la logica della cassa integrazione? Non credo, ed è per questo che finisce per avere ragione Brunetta. L'ennesimo caso in cui il centrodestra può permettersi di dire di no a una proposta che sembra molto riformista ma in realtà è solo demagogica e assistenzialista.

Da qui a definire il nostro sistema di ammortizzatori sociali «mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo», addirittura «il più efficace d'Europa», ce ne passa. Il problema sono proprio i «troppi privilegi» e i «figli e figliastri» di questo sistema. Ma è chiaro che un sussidio di disoccupazione universale mal calibrato potrebbe avere effetti peggiori. E bisogna distinguere sussidio di disoccupazione da reddito minimo garantito, che spesso vengono confusi. Chi proponesse un reddito minimo garantito non dovrebbe pensare solo a chi non ha lavoro, ma a tutta la popolazione. Garantire un vitalizio di 500 euro, per esempio, a chi non lavora, vorrebbe dire infatti che tutti gli altri lavorano inutilmente per i primi 500 euro guadagnati.

Mi piace Brunetta anche perché dimostra di non avere il tabù del sommerso. Il fatto che il più grande ammortizzatore sociale sono «i 3 milioni e mezzo del sommerso» significa che il mercato del lavoro è troppo rigido, le tasse sul lavoro e sui redditi sono troppo alte, e che intere aree del paese sono permanentemente depresse. In mancanza della volontà politica di liberalizzare il mercato del lavoro e abbassare le tasse, meglio tenersi il «sommerso» piuttosto che ingaggiare una battaglia poliziesca e trovarsi 3 milioni di nullafacenti mantenuti dallo stato.

L'intervista di Brunetta conferma ciò che scrivevo in un post di qualche giorno fa. Il governo Berlusconi pratica essenzialmente una politica economica socialdemocratica, moderatamente e cautamente riformista, fiscalmente responsabile; e al suo interno convivono un'anima più dirigista e moralista (quella di Tremonti) e una appena un po' più pragmatica e con qualche riflesso liberale (Brunetta che prende atto del sommerso, dice sì alla riforma delle pensioni ma non ora). Tremonti e Brunetta, lo si vede, sono due socialisti che in un paese con un asse della politica non terremotato, sarebbero due buoni e responsabili ministri di un governo di centrosinistra.

Friday, November 21, 2008

Meno tasse e riforme contro la crisi/2

Se la crisi economica è globale, la risposta può essere solo globale, non nazionale. E' così che la pensa il ministro Tremonti, che ribadisce questo concetto ogni volta se ne presenta l'occasione. Ritiene che sia tutto sommato irrilevante o poco rilevante ciò che decide il governo italiano. In sostanza, dice, il governo ridurrà il debito, non alzerà le tasse, farà tutte le politiche che servono, ma la soluzione alla crisi dipende da ciò che si decide fuori dall'Italia.

Come scrivevo alcune settimane fa, io penso invece che l'Italia, per cause interne, sia la più fragile e la più esposta alla crisi tra i Paesi sviluppati. Ci troveremmo in una situazione migliore, e ci potremmo risollevare più rapidamente, se venissero realizzate le riforme di cui abbiamo urgente bisogno. Faremmo bene quindi a guardare al nostro interno. E' da lì che viene il male dell'Italia, prim'ancora che dalla crisi internazionale, e Tremonti dovrebbe concentrarsi su quello, non sui massimi sistemi.

E così sembrano pensarla anche gli ispettori del Fondo monetario internazionale. Se la recessione in Italia «sarà probabilmente meno pesante che in molte altre economie avanzate per effetto della relativa solidità del sistema bancario», tuttavia l'eventuale ripresa sarà «lenta e debole», perché «la capacità dell'economia di riprendersi sarà rallentata da rigidità strutturali, mancanza di competitività interna, dalla lentezza dei processi di ristrutturazione e dalla contenuta risposta sul fronte fiscale».

Per questo, secondo il Fmi, l'agenda per le riforme strutturali in Italia «ha bisogno di un più intenso rilancio». In particolare, «ulteriori liberalizzazioni nel commercio al dettaglio e nei servizi (specialmente professionali), una deregolamentazione del mercato energetico, l'eliminazioni dei veti incrociati per i progetti di creazione di infrastrutture che abbiano interesse nazionale». E' anche necessaria «una seconda generazione di riforme del mercato del lavoro»: «rafforzare il legame tra stipendi e produttività, permettere una differenziazione salariale in base alle regioni, rendere i contratti a tempo indeterminato più flessibili».

Più flessibilità dei contratti a tempo indeterminato, come ci siamo sforzati più volte di spiegare, per fare in modo che non siano solo i lavoratori con contratti atipici a sopportare gli svantaggi della flessibilità, e per determinare più ricambio tra chi è dentro - e inamovibile, a prescindere da meriti e competenze - e chi non riesce a entrare nel mondo del lavoro - nonostante meriti e competenze. Più si allarga la platea dei lavoratori flessibili, meno acuti e prolungati saranno gli aspetti negativi della flessibilità.
«[La] metà non protetta dei lavoratori... porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l'inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l'altra faccia dell'inamovibilità dei "lavoratori regolari"»
Pietro Ichino (25 febbraio 2008)
Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una stabilità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Tuesday, February 26, 2008

Ichino nel Pd viene già lasciato solo

Da Ideazione.com

Il Partito democratico candida il giuslavorista Pietro Ichino, lo espone alla violenza verbale della sinistra comunista e lo lascia solo, ignorando nel programma elettorale le sue proposte. "Ichino è bravo e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue", rispondono al Loft. Tiziano Treu è dovuto intervenire per ricordare che lo studioso parla a titolo personale. Lo stesso Ichino ammette, nell'intervista rilasciata ieri a l'Unità che ha dato luogo alle reazioni più infiammate, che nel Pd c'è sì un consenso di massima sulla «flexicurity», ma «con idee e proposte diverse sul come». E «condurle a una sintesi operativa sarà l'impegno dei prossimi mesi». D'Alema, sprezzante come al solito, chiude così il caso Ichino: «E' intelligente, coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico». Insomma, la candidatura di Ichino dà credibilità al riformismo veltroniano, ma nel programma del Pd le sue proposte non ci sono.

Anche il programma del PdL, dalle anticipazioni fin qui pervenute, sembra ignorare il grande tema del mercato del lavoro, come se la pur ottima Legge Biagi (solo una parte delle idee del professore ucciso dai terroristi comunisti) fosse esaustiva. Giuliano Cazzola, intanto, su L'Occidentale si chiede perché Ichino non sia stato candidato da Berlusconi. Sarebbe stata la personalità più idonea ad occupare il posto che fu di Marco Biagi nel Governo Berlusconi. Sarebbe stato un invito "alla Sarkozy", cioè nell'ottica del superamento del rigido schema destra/sinistra a vantaggio di un approccio riformatore che si vorrebbe bipartisan.

Ma «se il Cavaliere non ha colto l'occasione - ragiona Cazzola - una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche "dure" del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione». Così in questa campagna elettorale che si sta aprendo sia il Pd che il PdL rinunceranno a parlare con chiarezza agli italiani e chiunque vincerà le elezioni non potrà farsi forte della legittimazione necessaria per realizzare le coraggiose riforme che servirebbero nel mercato del lavoro.

Intanto, il giuslavorista continua a subire dai comunisti della "Cosa rossa" una demonizzazione purtroppo persino peggiore di quella che la Cgil di Cofferati riservò a Marco Biagi. Ma qual è la pietra dello scandalo? Udite udite: il prof. Ichino propone di risolvere il problema della precarietà nell'unico modo possibile: praticamente abolendo l'articolo 18 del vecchio Statuto dei lavoratori.

Le attuali tutele della stabilità del posto di lavoro, osserva Ichino su l'Unità, «si applicano soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e a 5,8 milioni di dipendenti di aziende private sopra i 15 dipendenti. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22. Restano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid è la grande ingiustizia del nostro sistema attuale di protezione. Poi ci sono gli esclusi totali».

Quella «metà non protetta dei lavoratori... porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l'inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l'altra faccia dell'inamovibilità dei "lavoratori regolari"». E' più facile divorziare che porre fine a un rapporto di lavoro dipendente. «Più questi sono inamovibili - spiegava Ichino in un suo editoriale di qualche tempo fa - più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per quelli che stanno ancora fuori della "cittadella". È quello che gli economisti chiamano mercato del lavoro duale».

La causa della precarietà sta nel fatto che solo una piccola fetta dei lavoratori, gli outsiders non garantiti, sopporta il peso e i rischi della flessibilità dei contratti cosiddetti "atipici". Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una stabilità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Ma come? Se si esclude l'abolizione per legge della flessibilità, un sogno della sinistra comunista, che condannerebbe i giovani al lavoro nero o alla disoccupazione, i rimedi fin qui tentati si sono limitati a «spostare qualche precario tra i protetti» e a «dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori». Politiche cui sono ricorsi abbondantemente sia il centrodestra che il centrosinistra in questi anni, spesso aumentando la spesa pubblica.

Se si vuole davvero combattere efficacemente questo «apartheid» nel lavoro, «la strada è una sola», avverte Ichino: un «contratto unico a tempo indeterminato per tutti i lavoratori dipendenti, ma a stabilità progressiva», che preveda cioè «una protezione della stabilità crescente con il crescere dell'anzianità di servizio», e «disciplinato in modo che siano garantite la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa». E che tutti ne portino il peso in ugual misura (outsider, insider, imprese): in poche parole, rendere un po' più instabile chi è dentro per rendere un po' più stabile chi sta entrando.

Dopo un periodo di prova di sei/otto mesi (con un forte sgravio contributivo sotto i 26 anni), l'articolo 18 si applicherebbe soltanto ai licenziamenti disciplinari, discriminatori o di rappresaglia. Per quelli dettati da esigenze aziendali, invece, sarà soltanto il costo del provvedimento, l'indennizzo, a tutelare il lavoratore, penalizzando l'impresa che ne faccia abuso: «Chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto a un congruo indennizzo, crescente con l'anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto a un'assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell'impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti». Così Ichino riproduce nella sostanza l'effetto che avrebbe avuto il referendum proposto nel 2000 dai radicali.

Minori tutele sul posto fisso degli insider, tagliare i vincoli ai licenziamenti, in modo che le aziende possano liberare risorse oggi "sequestrate" da interi settori o singoli dipendenti improduttivi e investirle su personale giovane e qualificato. Oltre a essere flessibili ma meno "precari", i primi contratti di lavoro per i giovani sarebbero anche più sostanziosi e allettanti.

E' proprio questo che intende anche il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, quando suggerisce di «ripartire più equamente i costi derivanti dalla maggiore flessibilità» e indica «modi, sperimentati anche in altri paesi, per contemperare le esigenze di imprese competitive con le aspirazioni dei lavoratori che entrano nel mercato, con i bisogni di stabilità e crescita professionale di coloro che già vi sono».

Gli studi dimostrano infatti, che esiste una correlazione tra la rigidità del mercato del lavoro e i bassi salari. In Italia si registrano i livelli salariali più bassi tra i principali Paesi Ue, in particolare nelle mansioni più qualificate. Il posto fisso lo paghiamo con una busta paga leggera, ma soprattutto, l'inamovibilità degli ipertutelati è causa della precarietà e pesa sulla busta paga - di 800 euro, quando va bene - dei lavoratori flessibili.

Monday, February 18, 2008

Sotto i tagli fiscali un iceberg di proposte stataliste

Berlusconi e Fini sono ancora al palo, fermi ai blocchi di partenza. Forse in attesa della decisione di Casini, la campagna elettorale del PdL non è ancora iniziata e Veltroni ha subito ridotto lo svantaggio iniziale, mettendo per primo sul tavolo le sue proposte e presentandosi in modo aggressivo, soprattutto per quanto riguarda due aspetti, però fondamentali: l'elemento novità, che cerca di personificare, e il tema delle tasse, che cerca di sottrarre al suo avversario. A differenza di Prodi, Veltroni ci sa fare in campagna elettorale. Non è che non faccia errori, o non abbia punti deboli (come l'acrobazia di far dimenticare Prodi pretendendo al tempo stesso di rendergli omaggio), ma è bravo a mascherarli.

Il suo giro d'Italia in pullman, in 110 province, lo porterà sui tg due volte al giorno. Una presenza martellante, in puro stile americano. E all'impatto di una campagna così personalizzata, ritagliata sulla figura del leader, il centrodestra rischia di contrapporre una frammentato e confusionario universo di dichiarazioni dei vari Bondi, Cicchitto, Ronchi, eccetera...

«Gli italiani mi conoscono; se mi vogliono, mi voteranno», è una frase che porterebbe Berlusconi alla sconfitta. Non deve fare l'errore, come ha scritto ieri Stefano Folli, su Il Sole 24 Ore, di «lasciare all'avversario il monopolio della novità: vale a dire un fattore di vantaggio che in politica è quasi sempre decisivo», o di farsi sottrarre i suoi temi tipici, come le tasse. Ma dei possibili errori di Berlusconi avremo modo di parlare più avanti.

Per ora, mi limito a qualche considerazione sui 12 punti programmatici elencati da Veltroni sabato alla Costituente del Pd. Molto, molto deludenti. Ho sempre pensato, fin dal suo discorso del giugno scorso a Torino, che Veltroni avrebbe puntato con più coraggio su una svolta liberale in economia, ma mi devo ricredere. Ha invece deciso di fare della politica fiscale la punta liberale di un iceberg di proposte stataliste. Essendo la prima volta che una forza di centrosinistra promette di tagliare le tasse a prescindere dal debito, dall'evasione, e dalla congiuntura economica, al Pd non si poteva realisticamente chiedere di più di una riduzione delle aliquote Irpef di tre punti in tre anni. Una proposta cauta, che certamente non corrisponde a quello shock che servirebbe all'Italia, ma rispetto alla quale purtroppo temiamo che Berlusconi non avrà il coraggio di rilanciare.

Per il resto, guardando a quello che c'è, e a quello che manca, in quei 12 punti, le idee veltroniane sono poche e smaccatamente stataliste, condite da qualche slogan suggestivo e "americaneggiante".

La lotta di Veltroni contro il precariato soffre di una visione vecchia che nemmeno per assonanza ricorda la via blairiana. Del salario minimo di 1.000 euro ai precari abbiamo già parlato e anche Franco Debenedetti ricorda come «una vastissima letteratura economica ne dimostri la negatività». La causa della precarietà sta nel fatto che solo una piccola fetta dei lavoratori, gli outsiders non garantiti, sopporta il peso e i rischi della flessibilità dei contratti cosiddetti "atipici". Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una rigidità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Servirebbe un nuovo welfare che alla cassa integrazione sostituisca sussidi di disoccupazione universali secondo la logica del welfare to work. Lavoratori e aziende dovrebbero essere lasciati liberi di accordarsi su salari di mercato ed eventualmente lo Stato dovrebbe intervenire a integrare i redditi troppo bassi con programmi specifici, senza però che questa integrazione sia tale da rendere non conveniente per i lavoratori sforzarsi di migliorare la propria produttività e di acquisire ulteriori qualifiche e nuove competenze.

Nel settore della pubblica amministrazione non c'è alcuna ricetta di dimagrimento. Si promette una generica riduzione della spesa pubblica senza indicare dove tagliare e dove razionalizzare, senza alcun riferimento alla valutazione della produttività delle strutture e del merito dei singoli lavoratori, nel caso anche scontrandosi con i sindacati. E in ogni caso sarebbe necessaria una riduzione drastica del numero dei dipendenti pubblici, di cui nel programma di Veltroni per ora non c'è traccia.

Semplicemente scandalosa, inoltre, la proposta sull'università. Non servono altri 100 «campus» - cercando di suggestionare gli elettori prendendo in prestito termini americani senza importare i modelli che ci sono dietro - ma vera concorrenza tra le università per alzare la qualità e produrre eccellenza. E sembra una beffa parlare di «valutazione degli studenti», quando ciò che manca è una seria valutazione dei docenti che porti all'allontanamento dei più scadenti.

Stupisce l'assenza dai 12 punti del tema delle liberalizzazioni, soprattutto nei servizi pubblici locali.

Ovviamente nessuna riforma della giustizia, dopo l'iniezione di grandi dosi di giustizialismo dipietrista nel Pd: la casta dei magistrati non si tocca.

Previsti invece i soliti programmi di edilizia popolare, che non fanno altro che contribuire proprio a quella distorsione del mercato immobiliare che rende i prezzi delle case nelle grandi città italiane tra i più alti al mondo.

Infine, la tassazione della pubblicità in tv (un regalo ai grandi giornali che stanno appoggiando Veltroni in campagna elettorale) per finanziare produzioni televisive «di qualità»: una forma di aiuto di Stato già fallita con il cinema.

Ciliegina sulla torta, Veltroni ha offerto un posto in lista ai "figli di papà", i figli di quegli industriali assistiti (tra cui Colaninno, Barilla, Mondadori) che ben poco hanno a che fare con la piccola e media impresa non raccomandata e senza santi in Confindustria. Candidature che la dicono lunga sul blocco sociale che appoggia Veltroni.