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Tuesday, October 20, 2009

Dove vuole arrivare il "compagno" Tremonti?

L'impressione è che stavolta Tremonti abbia davvero esagerato con la sua ultima provocazione anti-mercatista, addirittura la "riabilitazione" del posto fisso. Come mi pare fece con Fini, a questo punto Feltri dovrebbe candidare anche Tremonti alla leadership del centrosinistra. Questa volta però non tutti i ministri sono rimasti in silenzio in nome della compattezza e dell'armonia nell'Esecutivo. E anche nel partito gli scontenti per le uscite schiettamente socialdemocratiche del ministro dell'Economia - pur ammettendo che le sue politiche finora sono rimaste fiscalmente responsabili, il che non era scontato in un Paese come l'Italia, durante una grave recessione - si sentono finalmente autorizzati ad uscire allo scoperto.

Non manca chi ha esteso la critica a Tremonti ben oltre la restaurazione del mito del posto fisso. «Tremonti dà una risposta per l'uscita dalla crisi che io non condivido. Tornare indietro è più facile, ma non risolve i problemi. Bisogna cambiare occhiali per capire come è fatto il nuovo mondo. Non si deve aver paura». Sembra una critica complessiva, per esempio, questa di Brunetta in un'intervista a la Repubblica. Come sapete, è anche la posizione di questo blog: «Abbiamo vissuto la stagione del lavoro atipico come estrema conseguenza dell'egoismo del lavoro tipico, dell'egoismo degli insiders contro gli outsiders. Tutte le garanzie ai primi, protetti dal sindacato, tutte le flessibilità scaricate orribilmente sui secondi privi di rappresentanza».

Ma la soluzione non può essere quella di far diventare gli outsiders degli insiders, perché il sistema non sarebbe in grado di sopportarne i costi. La proposta di Brunetta è di «spalmare le esigenze di flessibilità su tutte le forze lavoro occupate. So bene quanto sia delicato questo argomento, basti pensare agli scontri, tra riformisti e conservatori, intorno all'articolo 18». Tremonti, invece, «vorrebbe una nuova società dei salariati. Solo che questa non risponde alle esigenze di flessibilità che pone il sistema. La sua è una soluzione del Novecento che non va più bene in questo secolo».


«Le garanzie non devono derivare da un posto di lavoro, ma dalla propria professionalità, dal proprio essere azionisti dell'attività produttiva. Bisogna provare, anche se mi rendo conto di essere un po' utopista, ad adattare le regole del mercato del lavoro a quelle della Rete, perché è questa la novità di quest'epoca. La novità è Internet, è l'intelligenza che produce senza capitali».
Va bene lavorare «per dare posti di lavoro più duraturi», osserva un altro ministro, Sacconi, a Mattino5, ma «questo non si ottiene con norme vincolanti bensì permettendo ai lavoratori di affermare le proprie competenze». E i finiani mostrano di sentire la concorrenza di Tremonti per il dopo-Berlusconi. «La cultura del posto fisso è uno dei mali del Mezzogiorno che i giovani dovrebbero contrastare per essere liberi dallo statalismo e dalle clientele politiche che nei decenni passati hanno caratterizzato il mercato del lavoro», osserva Italo Bocchino, deputato Pdl vicino al presidente della Camera: «Quello di cui c'è veramente bisogno è una formazione professionale vera, capace di introdurre i giovani nel mercato del lavoro e di garantire quella professionalità utile a competere».

Alberto Alesina, intervistato da Il Foglio, comprende il ragionamento di Tremonti e rispetta le sue categorie di pensiero. Certo, la stabilità sociale, anche durante questa grave recessione, ha contribuito alla tenuta del Paese, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze delle nostre scelte. Far prevalere la stabilità del posto fisso presenta dei costi non irrilevanti, e non solo per le imprese. I costi maggiori, anzi, li sopportano proprio i lavoratori: scarsa produttività, quindi un salario più basso e un reddito pro capite inferiore a quello di altri Paesi:

«Non possiamo avere tutto insieme, la piena occupazione con posto stabile, il salario più alto, la crescita più rapida. Il risultato probabile, al contrario, è che aumenterà la frattura tra chi il posto ce l'ha e se lo tiene stretto e chi non lo avrà mai. Una società in cui chi ha un lavoro garantito (e per lo più sono uomini adulti) dovrà mantenere i figli per un numero elevato di anni. Una società a un tempo statica e divisa».
Salari alti, redditi alti, posto fisso e piena occupazione è «un'equazione che non funziona».

Come osserva Dario Di Vico, sul Corriere, l'uscita di Tremonti «spiazza la sinistra», mira dal punto di vista comunicativo, come già sta accadendo da alcuni mesi, a mettere il Pd in un angolo, facendo rientrare nel Pdl entrambi i poli del dibattito politico-culturale che si svolge sui principali temi, dall'immigrazione al lavoro:

«Inneggiando al posto fisso e sbeffeggiando la mobilità sociale, Tremonti non pare avere intenzione di capovolgere la linea di politica del lavoro del governo Berlusconi. Giacché dovrebbe rivoltare la filosofia della riforma della pubblica amministrazione del collega Renato Brunetta, sconfessare il ministro Gelmini, chiedere la cancellazione della legge Biagi e fare una buona provvista di euro per assumere, come Stato, tutti i precari della scuola, delle Poste, della Rai, dell'Istat, dell'Isfol, della Croce Rossa, dell'Istituto superiore di sanità e via di questo passo».
Una «sortita», quella di Tremonti, che va circoscritta quindi «al mondo dei simboli e delle querelle politico-culturali».

E' vero che dal punto di vista comunicativo può rivelarsi un vantaggio per il Pdl riassumere al proprio interno un ampio spettro di posizioni su vari temi polarizzanti (stato e mercato, laicità, immigrazione-integrazione, rapporto tra istituzioni). In condizioni normali, la confusione che si genera nel profilo politico-programmatico della coalizione avvantaggerebbe l'avversario. E' pur vero che non siamo in condizioni normali, finché l'opposizione rimane nello stato di irrilevanza e di totale mancanza di credibilità nel Paese in cui è, ma non bisogna comunque esagerare, fino a porre in discussione l'identità e le basi politico-culturali su cui una moderna politica economico-sociale di centrodestra dovrebbe fondarsi.

Stando a quanto riporta questa mattina Mario Sechi, su Libero, il Pdl comincia a ribollire di sentimenti anti-tremontiani. «Non siamo al Giulio contro tutti, né al ritorno della notte del 3 luglio 2004, quando il ministro fu costretto dalla tenaglia An-Udc a lasciare l'incarico», scrive Sechi, ma ormai si dubita sempre di più che la politica economica del ministro Tremonti sia in grado di garantire all'Italia un tasso di crescita sostenuto e soddisfare le aspettative delle «categorie di riferimento». Per questo, rivela Sechi, «negli uffici del partito si stanno ultimando le bozze di due documenti riservati, a esclusiva circolazione interna, che fanno un punto-nave politico e cercano di dare una risposta economica alle richieste che vengono dalla Confindustria, dal mondo delle imprese e delle partite Iva, dal Viminale e le forze dell'ordine, dalla stessa Banca d'Italia». Leva fiscale e riforma delle pensioni le due idee «fulcro» dei due documenti, certamente «non tremontiani».

Il ministro è convinto, sia per ragioni di bilancio (assolutamente condivisibili), sia per la sua filosofia politica (meno condivisibile), che nella società di oggi la domanda di stabilità e sicurezza sia prevalente su tutte le altre. Ma Tremonti sbaglia a sottovalutare il tema "tasse", che da almeno due secoli non manca di infiammare i popoli di ogni latitudine.

Tuesday, February 26, 2008

Ichino nel Pd viene già lasciato solo

Da Ideazione.com

Il Partito democratico candida il giuslavorista Pietro Ichino, lo espone alla violenza verbale della sinistra comunista e lo lascia solo, ignorando nel programma elettorale le sue proposte. "Ichino è bravo e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue", rispondono al Loft. Tiziano Treu è dovuto intervenire per ricordare che lo studioso parla a titolo personale. Lo stesso Ichino ammette, nell'intervista rilasciata ieri a l'Unità che ha dato luogo alle reazioni più infiammate, che nel Pd c'è sì un consenso di massima sulla «flexicurity», ma «con idee e proposte diverse sul come». E «condurle a una sintesi operativa sarà l'impegno dei prossimi mesi». D'Alema, sprezzante come al solito, chiude così il caso Ichino: «E' intelligente, coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico». Insomma, la candidatura di Ichino dà credibilità al riformismo veltroniano, ma nel programma del Pd le sue proposte non ci sono.

Anche il programma del PdL, dalle anticipazioni fin qui pervenute, sembra ignorare il grande tema del mercato del lavoro, come se la pur ottima Legge Biagi (solo una parte delle idee del professore ucciso dai terroristi comunisti) fosse esaustiva. Giuliano Cazzola, intanto, su L'Occidentale si chiede perché Ichino non sia stato candidato da Berlusconi. Sarebbe stata la personalità più idonea ad occupare il posto che fu di Marco Biagi nel Governo Berlusconi. Sarebbe stato un invito "alla Sarkozy", cioè nell'ottica del superamento del rigido schema destra/sinistra a vantaggio di un approccio riformatore che si vorrebbe bipartisan.

Ma «se il Cavaliere non ha colto l'occasione - ragiona Cazzola - una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche "dure" del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione». Così in questa campagna elettorale che si sta aprendo sia il Pd che il PdL rinunceranno a parlare con chiarezza agli italiani e chiunque vincerà le elezioni non potrà farsi forte della legittimazione necessaria per realizzare le coraggiose riforme che servirebbero nel mercato del lavoro.

Intanto, il giuslavorista continua a subire dai comunisti della "Cosa rossa" una demonizzazione purtroppo persino peggiore di quella che la Cgil di Cofferati riservò a Marco Biagi. Ma qual è la pietra dello scandalo? Udite udite: il prof. Ichino propone di risolvere il problema della precarietà nell'unico modo possibile: praticamente abolendo l'articolo 18 del vecchio Statuto dei lavoratori.

Le attuali tutele della stabilità del posto di lavoro, osserva Ichino su l'Unità, «si applicano soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e a 5,8 milioni di dipendenti di aziende private sopra i 15 dipendenti. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22. Restano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid è la grande ingiustizia del nostro sistema attuale di protezione. Poi ci sono gli esclusi totali».

Quella «metà non protetta dei lavoratori... porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l'inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l'altra faccia dell'inamovibilità dei "lavoratori regolari"». E' più facile divorziare che porre fine a un rapporto di lavoro dipendente. «Più questi sono inamovibili - spiegava Ichino in un suo editoriale di qualche tempo fa - più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per quelli che stanno ancora fuori della "cittadella". È quello che gli economisti chiamano mercato del lavoro duale».

La causa della precarietà sta nel fatto che solo una piccola fetta dei lavoratori, gli outsiders non garantiti, sopporta il peso e i rischi della flessibilità dei contratti cosiddetti "atipici". Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una stabilità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Ma come? Se si esclude l'abolizione per legge della flessibilità, un sogno della sinistra comunista, che condannerebbe i giovani al lavoro nero o alla disoccupazione, i rimedi fin qui tentati si sono limitati a «spostare qualche precario tra i protetti» e a «dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori». Politiche cui sono ricorsi abbondantemente sia il centrodestra che il centrosinistra in questi anni, spesso aumentando la spesa pubblica.

Se si vuole davvero combattere efficacemente questo «apartheid» nel lavoro, «la strada è una sola», avverte Ichino: un «contratto unico a tempo indeterminato per tutti i lavoratori dipendenti, ma a stabilità progressiva», che preveda cioè «una protezione della stabilità crescente con il crescere dell'anzianità di servizio», e «disciplinato in modo che siano garantite la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa». E che tutti ne portino il peso in ugual misura (outsider, insider, imprese): in poche parole, rendere un po' più instabile chi è dentro per rendere un po' più stabile chi sta entrando.

Dopo un periodo di prova di sei/otto mesi (con un forte sgravio contributivo sotto i 26 anni), l'articolo 18 si applicherebbe soltanto ai licenziamenti disciplinari, discriminatori o di rappresaglia. Per quelli dettati da esigenze aziendali, invece, sarà soltanto il costo del provvedimento, l'indennizzo, a tutelare il lavoratore, penalizzando l'impresa che ne faccia abuso: «Chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto a un congruo indennizzo, crescente con l'anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto a un'assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell'impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti». Così Ichino riproduce nella sostanza l'effetto che avrebbe avuto il referendum proposto nel 2000 dai radicali.

Minori tutele sul posto fisso degli insider, tagliare i vincoli ai licenziamenti, in modo che le aziende possano liberare risorse oggi "sequestrate" da interi settori o singoli dipendenti improduttivi e investirle su personale giovane e qualificato. Oltre a essere flessibili ma meno "precari", i primi contratti di lavoro per i giovani sarebbero anche più sostanziosi e allettanti.

E' proprio questo che intende anche il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, quando suggerisce di «ripartire più equamente i costi derivanti dalla maggiore flessibilità» e indica «modi, sperimentati anche in altri paesi, per contemperare le esigenze di imprese competitive con le aspirazioni dei lavoratori che entrano nel mercato, con i bisogni di stabilità e crescita professionale di coloro che già vi sono».

Gli studi dimostrano infatti, che esiste una correlazione tra la rigidità del mercato del lavoro e i bassi salari. In Italia si registrano i livelli salariali più bassi tra i principali Paesi Ue, in particolare nelle mansioni più qualificate. Il posto fisso lo paghiamo con una busta paga leggera, ma soprattutto, l'inamovibilità degli ipertutelati è causa della precarietà e pesa sulla busta paga - di 800 euro, quando va bene - dei lavoratori flessibili.

Monday, February 18, 2008

Sotto i tagli fiscali un iceberg di proposte stataliste

Berlusconi e Fini sono ancora al palo, fermi ai blocchi di partenza. Forse in attesa della decisione di Casini, la campagna elettorale del PdL non è ancora iniziata e Veltroni ha subito ridotto lo svantaggio iniziale, mettendo per primo sul tavolo le sue proposte e presentandosi in modo aggressivo, soprattutto per quanto riguarda due aspetti, però fondamentali: l'elemento novità, che cerca di personificare, e il tema delle tasse, che cerca di sottrarre al suo avversario. A differenza di Prodi, Veltroni ci sa fare in campagna elettorale. Non è che non faccia errori, o non abbia punti deboli (come l'acrobazia di far dimenticare Prodi pretendendo al tempo stesso di rendergli omaggio), ma è bravo a mascherarli.

Il suo giro d'Italia in pullman, in 110 province, lo porterà sui tg due volte al giorno. Una presenza martellante, in puro stile americano. E all'impatto di una campagna così personalizzata, ritagliata sulla figura del leader, il centrodestra rischia di contrapporre una frammentato e confusionario universo di dichiarazioni dei vari Bondi, Cicchitto, Ronchi, eccetera...

«Gli italiani mi conoscono; se mi vogliono, mi voteranno», è una frase che porterebbe Berlusconi alla sconfitta. Non deve fare l'errore, come ha scritto ieri Stefano Folli, su Il Sole 24 Ore, di «lasciare all'avversario il monopolio della novità: vale a dire un fattore di vantaggio che in politica è quasi sempre decisivo», o di farsi sottrarre i suoi temi tipici, come le tasse. Ma dei possibili errori di Berlusconi avremo modo di parlare più avanti.

Per ora, mi limito a qualche considerazione sui 12 punti programmatici elencati da Veltroni sabato alla Costituente del Pd. Molto, molto deludenti. Ho sempre pensato, fin dal suo discorso del giugno scorso a Torino, che Veltroni avrebbe puntato con più coraggio su una svolta liberale in economia, ma mi devo ricredere. Ha invece deciso di fare della politica fiscale la punta liberale di un iceberg di proposte stataliste. Essendo la prima volta che una forza di centrosinistra promette di tagliare le tasse a prescindere dal debito, dall'evasione, e dalla congiuntura economica, al Pd non si poteva realisticamente chiedere di più di una riduzione delle aliquote Irpef di tre punti in tre anni. Una proposta cauta, che certamente non corrisponde a quello shock che servirebbe all'Italia, ma rispetto alla quale purtroppo temiamo che Berlusconi non avrà il coraggio di rilanciare.

Per il resto, guardando a quello che c'è, e a quello che manca, in quei 12 punti, le idee veltroniane sono poche e smaccatamente stataliste, condite da qualche slogan suggestivo e "americaneggiante".

La lotta di Veltroni contro il precariato soffre di una visione vecchia che nemmeno per assonanza ricorda la via blairiana. Del salario minimo di 1.000 euro ai precari abbiamo già parlato e anche Franco Debenedetti ricorda come «una vastissima letteratura economica ne dimostri la negatività». La causa della precarietà sta nel fatto che solo una piccola fetta dei lavoratori, gli outsiders non garantiti, sopporta il peso e i rischi della flessibilità dei contratti cosiddetti "atipici". Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una rigidità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Servirebbe un nuovo welfare che alla cassa integrazione sostituisca sussidi di disoccupazione universali secondo la logica del welfare to work. Lavoratori e aziende dovrebbero essere lasciati liberi di accordarsi su salari di mercato ed eventualmente lo Stato dovrebbe intervenire a integrare i redditi troppo bassi con programmi specifici, senza però che questa integrazione sia tale da rendere non conveniente per i lavoratori sforzarsi di migliorare la propria produttività e di acquisire ulteriori qualifiche e nuove competenze.

Nel settore della pubblica amministrazione non c'è alcuna ricetta di dimagrimento. Si promette una generica riduzione della spesa pubblica senza indicare dove tagliare e dove razionalizzare, senza alcun riferimento alla valutazione della produttività delle strutture e del merito dei singoli lavoratori, nel caso anche scontrandosi con i sindacati. E in ogni caso sarebbe necessaria una riduzione drastica del numero dei dipendenti pubblici, di cui nel programma di Veltroni per ora non c'è traccia.

Semplicemente scandalosa, inoltre, la proposta sull'università. Non servono altri 100 «campus» - cercando di suggestionare gli elettori prendendo in prestito termini americani senza importare i modelli che ci sono dietro - ma vera concorrenza tra le università per alzare la qualità e produrre eccellenza. E sembra una beffa parlare di «valutazione degli studenti», quando ciò che manca è una seria valutazione dei docenti che porti all'allontanamento dei più scadenti.

Stupisce l'assenza dai 12 punti del tema delle liberalizzazioni, soprattutto nei servizi pubblici locali.

Ovviamente nessuna riforma della giustizia, dopo l'iniezione di grandi dosi di giustizialismo dipietrista nel Pd: la casta dei magistrati non si tocca.

Previsti invece i soliti programmi di edilizia popolare, che non fanno altro che contribuire proprio a quella distorsione del mercato immobiliare che rende i prezzi delle case nelle grandi città italiane tra i più alti al mondo.

Infine, la tassazione della pubblicità in tv (un regalo ai grandi giornali che stanno appoggiando Veltroni in campagna elettorale) per finanziare produzioni televisive «di qualità»: una forma di aiuto di Stato già fallita con il cinema.

Ciliegina sulla torta, Veltroni ha offerto un posto in lista ai "figli di papà", i figli di quegli industriali assistiti (tra cui Colaninno, Barilla, Mondadori) che ben poco hanno a che fare con la piccola e media impresa non raccomandata e senza santi in Confindustria. Candidature che la dicono lunga sul blocco sociale che appoggia Veltroni.

Wednesday, November 28, 2007

Tanta voglia di '94

Attesa per l'incontro di venerdì tra Veltroni e Berlusconi, ma non sarà in nessun modo decisivo. Anzi, noi ci auguriamo che i due sotto-sotto siano già d'accordo. Berlusconi ha ammorbidito le sue condizioni per il dialogo: la «buona fede», cioè che non serva a tergiversare con questa legislatura; e non più la data certa delle elezioni, ma la presa d'atto «della necessità di andare al voto. Non perché sia materia di scambio con l'accordo sulla legge elettorale, ma semplicemente perché è chiaro a tutti l'esaurimento di questa maggioranza».

«Non mi pare - dice di Veltroni - abbia la vocazione di certi soldati giapponesi, che continuarono a combattere per l'imperatore non rendendosi conto che la guerra era finita da un pezzo». Fischiano a qualcuno le orecchie?

Lanciato il nuovo partito, che ambisce al ruolo di contenitore unico del centrodestra - quanto ad elettorato se non a ceto politico - Berlusconi dovrà mantenere i suoi impegni (è stato lui a parlare di elezioni interne e primarie) per un partito che non dev'essere per forza di tipo tradizionale, che sia anche leggero e moderno, all'americana, ma aperto e democratico nella formazione delle leadership e delle proposte politiche.

Berlusconi avrebbe potuto chiamare a raccolta attorno a un tavolo le oligarchie dei partiti di centrodestra, come hanno fatto dall'altra parte Margherita e Ds per il Pd, impiegandoci anni a trovare l'equilibrio che quelle oligarchie preservasse, ma ha scelto un approccio che gli si addice di più, verticistico e carismatico. A patto, però, che sia solo la fase di avvio di un processo e che non pretenda di riempire lui tutte le caselle vuote. Lo spessore del nuovo partito lo verificheremo anche dai contenuti. Chi ha più filo, tesserà.

Ieri tre interventi su il Giornale sono apparsi incoraggianti. Nicola Porro parla senza mezzi termini di «progetto politico liberale, senza mediazioni». Per «recuperare l'ispirazione originaria che una certa pratica di governo ha compromesso» bisogna seguire «tre capisaldi»: innanzitutto, «una ricetta liberista nei commerci. Nessuna tentazione "anti-mercatista", riduzione drastica della pressione fiscale, generalizzata, per imprese e contribuenti»; poi, uno Stato «meno ingombrante. Meno burocrazia, meno norme e meno adempimenti per la collettività». Perché gettare al mare alcune «buone ricette liberalizzatrici immaginate, ma non realizzate, dal governo Prodi»? Meglio riprenderle «estendendole all'intera società e non solo a specifiche corporazioni da punire»; infine, una riforma del sistema pensionistico che «disboschi i privilegi e soprattutto faccia i conti con un'Italia matura, in tutti i sensi. E che dunque non può permettersi l lusso di perdere forza lavoro cinquantenne».

Paolo Del Debbio suggerisce di puntare a rappresentare «la forza lavoro senza certezze». Si tratta degli outsider, dei produttori (sia imprenditori che lavoratori) non garantiti. Una nostra fissazione non da oggi.

Poi c'è Renato Brunetta, che si concentra sulla forma partito: per il centrodestra «è ora di tornare alla rivoluzione liberale e popolare del 1994 di Silvio Berlusconi, e alla forma partito-rete delle origini». Che sia un «network con un forte centro, costruito attorno a "reti" economico-associative e a persone di destra e di sinistra - e né di destra né di sinistra - con un semplice programma: cambiare l'Italia». Per Brunetta la parola chiave è «competizione»: un «partito-rete, più di un partito tradizionale, chiuso nella sua ideologia e nella sua organizzazione, ha bisogno di visioni, di programmi, di idee, e di strumenti democratici per la loro elaborazione e la loro sintesi politica. Ha bisogno di gruppi dirigenti aperti e in competizione. Televisioni, internet, blog, radio, giornali, riviste: la direzione della comunicazione non sarà più solo "verticale", ma diventerà sempre più orizzontale». Berlusconi «a fare da catalizzatore di una nuova forma partito, hub di reti e di nodi, di movimenti, con il comune obiettivo di cambiare l'Italia... E chi ci sta, ci sta».

Ci sta sicuramente Daniele Capezzone - di cui si parla per un ruolo certo non di secondo piano - che auspica un partito sul modello di quello repubblicano negli Usa, un «gigante dalle tante anime». «Con il contributo di tutti può nascere una formazione capace di segnare la politica italiana per lustri. Berlusconi ha avuto grande coraggio e generosità, adesso i liberali devono venirgli incontro». E, magari, accerchiarlo.

La situazione generale resta pessima, e i cittadini hanno tutti i motivi per diffidare, ma ai politici si chiede di scommettere, di rischiare (pena il "non essere"), guardando anche un po' a quando inevitabilmente Berlusconi lascerà un vuoto politico.

Monday, August 06, 2007

Affamare i sindacati

I tre segretario di Cgil, Uil e Cisl insieme a Romano ProdiSe nel libro-denuncia di Stella e Rizzo, sui loro enormi costi e i mille privilegi a carico dello Stato, i partiti e la politica sono "La casta", i sindacati incassano la copertina su L'Espresso di questa settimana venendo additati come «L'altra casta». Finalmente anche L'Espresso si accorge dello strapotere dei sindacati, in larga misura parassitario delle risorse della comunità, grazie a un'accurata inchiesta di Stefano Livadiotti, che però da queste parti non rivela nulla di nuovo, e al commento di Bernardo Giorgio Mattarella.

Fatturati miliardari; bilanci segreti; uno sterminato patrimonio immobiliare; organici colossali, con migliaia di dipendenti pagati dallo Stato. «I numeri racconterebbero come le organizzazioni dei lavoratori, difendendo con le unghie e con i denti una serie di privilegi più o meno antichi, si siano trasformate in autentiche macchine da soldi. Con il benestare di un sistema politico giunto ai minimi della popolarità e spaventato dalla loro capacità di mobilitazione».

Nell'articolo si elencano i principali meccanismi di finanziamento, i rispettivi gettiti, e la loro origine. Tutti, più o meno, sono derivati da privilegi e da posizioni di monopolio elargite dalla politica con la complicità di Confindustria.

Ci sono le quote pagate ogni anno dagli iscritti, in media l'1% della paga-base, un po' di meno per i pensionati (intorno ai 30-40 euro all'anno). Non vi sarebbe nulla di male, se non che il sindacato non deve fare neanche la fatica dell'esattore. Come per le tasse, nel caso dei lavoratori dipendenti ci pensano infatti le aziende, che trattengono direttamente dalle buste paga le quote di iscrizione. I pensionati forse non lo sanno o non se ne ricordano, ma hanno delegato a vita gli enti di previdenza a detrarre dalle loro mensilità la quota e a versarla al sindacato.

Nel '95 i radicali proposero un referendum che aboliva la trattenuta automatica dalla busta paga (introdotta nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori). Gli italiani votarono a favore, ma il meccanismo fu "ripescato" nei contratti collettivi, quindi con la collaborazione delle imprese.

Poi ci sono i famigerati Caf, i Centri di assistenza fiscale, che per aiutare i dipendenti a compilare il modello 730 ricevono sia circa 15 euro a pratica dal Ministero del Tesoro, sia una contribuzione "volontaria" del lavoratore di circa 25 euro. Le dichiarazioni dei redditi dei pensionati vengono invece pagate non dal Tesoro ma dagli enti previdenziali. Un regime di monopolio che nel 2005 la Corte di Giustizia europea ha condannato perché contrario ai trattati comunitari e che da allora la Commissione europea sta cercando di intaccare, seppure con scarsi risultati.

Così come operano in regime di monopolio i patronati, una rete che si estende persino all'estero. Convenzionati con l'Inps, assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione). I patronati sono «fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute» («con i patronati e gli altri servizi nel 2005 la Cgil ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni», sostiene Giuliano Cazzola). Chi paga? Ancora gli enti previdenziali. Così abbiamo una vaga idea di chi dobbiamo ringraziare per il dissesto delle casse dell'Inps, uno dei più generosi (perché costretto) clienti dei sindacati.

I Caf e i patronati, conclude Mattarella, «costituiscono veicoli di finanziamento pubblico dei sindacati, legittimo ma poco trasparente, e strumenti di proselitismo agevolato: attratti dall'assistenza fiscale gratuita (ma in realtà pagata dallo Stato), ci si iscrive al sindacato».

Ma i sindacati possono usufruire anche di forza lavoro gratuita, «quella distaccata presso il sindacato dalla pubblica amministrazione». Pubblica amministrazione che continua generosamente a pagare lo stipendio a quei 3.077 dipendenti che costano al contribuente, Irap e oneri sociali compresi, 116 milioni di euro. E per i dipendenti che utilizza in aspettativa, ai quali deve invece pagare lo stipendio, il sindacato usufruisce comunque di uno sconto: non paga i contributi sociali, che sono considerati figurativi e quindi a carico dell'intera collettività. E' bene inoltre ricordare che i dipendenti dei sindacati non sono sottoposti al regime del reintegro secondo quanto previsto dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Fu anche quella per la sua abolizione una ex battaglia radicale.

Inoltre, ci sono fondi europei di un miliardo e mezzo di euro per il finanziamento della formazione professionale, oltre ai circa 700 milioni dell'ex fondo di rotazione. Circa la metà di questi soldi sono gestiti da 14 enti, dieci dei quali partecipati da Cgil, Cisl e Uil, che non incassano direttamente i finanziamenti, ma decidono le assunzioni e la distribuzione degli incarichi.

L'assenza di bilanci consolidati, infine, «non consente di far luce sull'immenso patrimonio immobiliare» dei sindacati. Molti dei beni immobili appartenevano un tempo alle corporazioni dell'epoca fascista, ma furono graziosamente e gratuitamente assegnati ai sindacati dai partiti della Repubblica.

Nell'ottobre 2002, in concomitanza con lo sciopero generale indetto dalla Cgil, una delle prime iniziative di Daniele Capezzone come segretario di Radicali italiani fu una campagna contro la trattenuta direttamente in busta paga, per informare i cittadini sulle modalità con le quali è possibile decidere la disdetta dell'iscrizione al sindacato. Con tanto di moduli sul sito internet radicali.it e tavoli in tutta Italia. Fu un'occasione anche per denunciare la mancanza di trasparenza dei bilanci delle confederazioni e un giro d'affari stimato, al ribasso, in «3 mila e 500 miliardi di vecchie lire». Iniziativa che causò a Capezzone non poche inimicizie a sinistra e dalla quale purtroppo organi di stampa come Corriere della Sera ed Espresso rimasero piuttosto distanti.

E' per difendere i loro privilegi, e quelli dei pochi che rappresentano, da cui deriva tutto il potere di pressione che sono in grado di esercitare, che i sindacati si oppongono con successo a qualsiasi riforma che vada nell'interesse generale, a vantaggio degli outsider, gli esclusi e i non garantiti, e del merito. «Il potere sindacale è spesso utilizzato a vantaggio di alcuni, poco meritevoli, e a danno di tutti», riassume Mattarella.

Sulle pensioni, per esempio, tutelano gli interessi immediati di una parte numericamente minoritaria di lavoratori, quelli più prossimi alla soglia del pensionamento, a scapito sia dei lavoratori futuri, che rischiano di non avere pensioni, sia della possibilità di introdurre un sistema di ammortizzatori universali che attenui i costi sociali della flessibilità. Difendendo il posto di lavoro dei nullafacenti e la rigidità del mercato del lavoro sono proprio i sindacati i primi ad alimentare il lavoro sommerso e precario, costringendo nei call-center i neolaureati che non trovano posto in aziende e università dove il merito non conta nulla. Firmando il Memorandum sul pubblico impiego e la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che riguarda i servizi resi ai cittadini, è stato permesso loro di disporre di materie che non dovrebbero essere negoziabili, come l'affidamento e la rotazione delle funzioni dirigenziali.

I privilegi, le fonti di finanziamento, la concertazione, i contratti collettivi nazionali, gli scioperi contro gli utenti. Ogni aspetto dello strapotere sindacale va attaccato, se vogliamo contrastare davvero la deriva corporativa, quindi anti-democratica e anti-costituzionale, del sindacalismo e del sistema politico-sociale in Italia.

Thursday, July 05, 2007

Decidere.net è on line, ma il network siamo noi: muoviamoci!

Una politica «ad alta velocità» al posto di una politica che non decide. Le decisioni scontentano sempre qualcuno, ma fanno crescere. Comportano delle rinunce, lasciarsi indietro qualcosa, svoltare per una strada abbandonando le altre possibili, far decadere un'opzione a favore di un'altra. Senza la decisione non c'è il rischio, ma neanche l'opportunità; senza correre rischi non ci sono meriti. La vita è rischio. Quando la politica promette di eliminare tutti i rischi, allora state pur certi che vi sta fottendo delle opportunità.

Decidere.net è un network messo a disposizione di chiunque sia disposto a correre dei rischi per vedere la politica finalmente decidere su alcune riforme che vanno nella direzione della società della scelta, del superamento dell'obsoleto, anacronistico spartiacque tra destra e sinistra, di una maggiore equità nell'unico modo in cui oggi essa è realizzabile: con maggiore libertà.

I 13 "cantieri" aperti da Daniele Capezzone insieme agli altri promotori (tra cui il sottoscritto) sono di quelli che fanno tremare i polsi. Sono radicali, perché puntano a una profonda trasformazione; ma moderati, perché praticabili e ragionevoli, volti cioè all'utile per il maggior numero di cittadini senza danno per altri. Perché posso affermare questo? Semplice, perché sono tutti fondati sul principio che nessuno meglio di ciascuno di noi è in grado di avvicinarsi a comprendere e a realizzare il proprio utile e che il ruolo dello Stato, semmai, è quello di creare un contesto di regole e di strumenti favorevole. Compito dello Stato non è fabbricare pezzi di una felicità ideologicamente predefinita e così etichettata dal ceto politico, ma di consentire a ciascuno la ricerca della propria felicità.

Certo, queste 13 proposte urtano posizioni di rendita e corporazioni, ma anche diffusi pregiudizi nella nostra società. Si rivolgono al ceto produttivo, fatto di imprenditori e lavoratori, per liberarlo dalle catene dei burocrati e dei parassiti; e agli outsider, gli esclusi e i non garantiti, per farli rientrare in gioco, con merito e responsabilità.

Qualcuno ha osservato l'assenza dei diritti civili dai "cantieri" aperti. Manca del tutto anche la politica estera, e sapete quanto mi interessi. Innanzitutto, bisogna ricordare che non si tratta del manifesto fondativo di un partito, per cui tutti i campi della decisione pubblica devono essere coperti in modo sistematico, quanto piuttosto, nella felice immagine usata da Malvino, «una stretta di mano» tra gentiluomini: tanto più credibile quanto più "stretta" sopra un foglio che vincola gli aderenti su un campo ristretto e verificabile di soluzioni «precise e praticabili».

Anzi, proprio l'idea che il discrimine destra/sinistra sia sempre più inefficace, poco significativo, nel descrivere la realtà sociale e politica contemporanea ci porta a ritenere che nelle società in cui viviamo sia sempre più difficile trovarsi d'accordo su tutto, su un unico pacchetto preconfezionato, che finirebbe per divenire dottrinario.

Inoltre, non credete che non passino anche per questi 13 "cantieri" altrettante battaglie di laicità, se la si intende nel senso che abbiamo provato a spiegare "noi" di LibMagazine: «Laicità come estraneità dalla logica delle costruzioni ideologiche. Non solo anticlericalismo, dunque... laicità come sinonimo di anticlericalismo, ma chiarendo: contro ogni chiesa, cioè contro ogni costruzione ideologica».

Contro quelle chiese cattocomuniste, quindi, che usano i poteri pubblici per gestire le vite dei cittadini gestendone i denari, presupponendo che l'individuo non sia di per sé in grado di distinguere il bene, neanche il suo, e il giusto, ma abbia bisogno della guida di costruzioni ideologiche veicolate attraverso lo Stato. Da una parte chi crede che nello Stato vi sia una moralità superiore e disinteressata, che sia capace di produrre per voi il miglior film sulla vostra vita, invitandovi magari ad esserne spettatori; dall'altra chi è convinto che lo Stato debba fornirvi gli strumenti per girarvelo da voi, il vostro film.

Secondo la mia analisi sono fondamentalmente due gli shock che potrebbero spazzare via la partitocrazia e liberare il nostro paese dall'immobilismo. Tra questi non ci sono i diritti civili, ma l'elezione diretta del capo del Governo e un sistema elettorale maggioritario, in modo che gli occhi degli elettori siano puntati sulle persone candidate e non sui partiti, e che anche i politici siano valutati secondo merito: chi perde a casa, senza ripescaggi; spezzare il binomio tasse-spesa pubblica, fattore di blocco del sistema e linfa vitale del regime partitocratico. Che la spesa pubblica abbia ormai superato la metà del Pil significa che c'è una catena di interdipendenza spessissima tra chi amministra questa spesa – la classe politica di centrosinistra e di centrodestra – e le clientele che ne beneficiano in termini di privilegi, sprechi e posizioni di rendita.

Istituzioni maggiormente rappresentative - in cui il ricambio sia più frequente, veloce, consistente e, quindi, il potere mai per troppi anni "occupato" (e i soldi gestiti) dai soliti - potrebbero essere meno subalterne ai magisteri morali e sociali, all'autorità religiosa, che impediscono l'allargamento della sfera delle libertà personali, e più citizen-oriented, attente a registrare i cambiamenti culturali e di stili di vita che avvengono nella società.

Nessuno pensi che non ci sia da combattere e da incassare delusioni.

Chi pensa che l'ex segretario radicale avrà la strada spianata da poteri (e soldi) occulti, o che sia il prescelto dal "regime" ovunque accolto con tappeti rossi, si sbaglia di grosso. E' una strada tutta in salita quella che lo aspetta, e che aspetta coloro che lo seguiranno, come tutte le strade liberali (e radicali) in questo paese, con una differenza, si spera: che la forma, e la sostanza, di questo network, siano capaci di esercitare una forza di attrazione che i vecchi contenitori, liberali e radicali, sembrano aver perduto.

Ho sempre pensato, e avvertito quando e come potevo, che la demonizzazione di Capezzone da parte di Pannella e delle sue "guardie svizzere" avrebbe danneggiato seriamente ciò che rimane del soggetto politico radicale - in grave crisi finanziaria, strategica (dopo il fallimento della Rosa nel Pugno e l'irrilevanza in uno dei peggiori governi di sempre), ma anche umana - privandolo ulteriormente di un valore certo dal punto di vista culturale, politico e comunicativo.

Ma ho anche sempre pensato che a uscirne indebolito sarebbe stato anche il reprobo costretto, se non altro per non uscirne pazzo, a sperimentare altre vie. Insomma, non mi sembra che lanciando questa nuova sfida Capezzone scelga la via più comoda. Salpa da un porto, malmesso e ostile, ma in fin dei conti sicuro nella sua inerzia, a volerci rimanere da spettatore, per veleggiare in un oceano impervio, esposto alle insidie, entrambe potenzialmente letali, della bonaccia e della tempesta.

Non pensate che una volta avviato il network proceda da sé, con il vento in poppa di chissà quali poteri "forti". Non pensate che ci sarà comunque qualcuno a "spingere", cominciate a spingere voi. Questa è davvero una iniziativa che avrà tanta forza quanta tutti noi decideremo di dargli. Aderite! Ma non limitatevi a quello. Animate il sito con vostri contributi, ma soprattutto fate crescere il network, ciascuno dal suo punto di osservazione, con gli strumenti che ha a disposizione. Parlatene a lavoro, all'università, in famiglia, con gli amici, sui vostri blog. Discutete i 13 "cantieri", approfondite, ricercate, osservate le reazioni della politica, chi si muove contro e chi a favore.

JimMomo, intanto, torna tra qualche giorno.

Tuesday, July 03, 2007

Per la società della scelta

Promuovere «la società della scelta», provare «ad allargare la sfera della decisione individuale e privata e a diminuire la sfera della decisione pubblica e collettiva»; «a superare la frontiera tra destra e sinistra, sostituendola con quella tra innovazione e conservazione».
(Il Foglio, 30 giugno 2007)

«Un'esperienza che può dare speranza a tanti, al mondo produttivo ma anche agli outsider, a chi è fuori dai fortini del privilegio. Il nostro sarà un percorso radicale e moderato, nel quale non è importante chi ci sta ma dove si va e cosa si fa. Per questo presenteremo dieci temi chiave proponendo soluzioni precise. E vedremo quali forze politiche sono disposte ad appoggiarci».

«... permettere a singoli, associazioni e movimenti di mettersi in moto sul piano territoriale e telematico. Poi, entro l'anno, organizzare una marcia dei 40mila che dia voce al popolo degli outsider e dei non garantiti».
(il Giornale, 1 luglio 2007)

Saturday, May 26, 2007

Contro le caste si sveglia l'Italia degli outsider

Lucida analisi di Luca Ricolfi, su La Stampa di oggi: lo spettro del 1992 aleggia sui partiti e i politici sentono scottare la terra sotto i piedi. La stampa «ha messo nel mirino i costi della politica»; da Confindustria arrivano strigliate; i sondaggi confermano lo scontento, bipartisan, dei cittadini.

Tuttavia, osserva Ricolfi, nel '92 c'era «un doppio "tigre nel motore", che oggi sembra invece assente». Innanzitutto, la magistratura, che però oggi può poco, perché «il ceto politico, pur continuando a delinquere più o meno episodicamente, ha costruito un'impressionante rete di strumenti legali per autofinanziarsi e perpetuare la sua occupazione della Pubblica amministrazione» ("Il costo della democrazia", di Salvi e Villone, Mondadori, 2005).

Poi, l'economia: allora arrivò «un singolo e istantaneo schiaffone (il crollo della lira), mentre oggi affondiamo abbastanza lentamente da permetterci di non percepire quel che sta capitando».

Eppure, oggi nell'opinione pubblica ci sono una forza e una consapevolezza maggiori. Non più solo il disgusto, la sfiducia, l'indignazione per gli sprechi, le incapacità e i privilegi del ceto politico. Si percepisce che a pesare sono «non solo le (costose) degenerazioni ma anche le (costosissime) non-decisioni». I cittadini «cominciano a capire che l'inconcludenza dei politici ha dei costi, dei costi diffusi ed enormi», e produce ingiustizie. Una sensazione che si sta «condensando» sempre più: «La gente, poco per volta ma inesorabilmente, si sta rendendo conto che l'immobilismo del ceto politico sta alimentando un mare di ingiustizie, che però la politica non ha occhiali per vedere. Ingiustizie che non riguardano solo "la casta", ma tutte le caste».
«Chi fa tutti i giorni il proprio dovere, ma non ha una rete di relazioni che lo sostiene e lo protegge, si accorge sempre più sovente che il gioco è truccato. Che non c'è rapporto fra i sacrifici, lo sforzo, la dedizione e i risultati che si ottengono. Che accanto alle grandi diseguaglianze storiche, da sempre centrali nei discorsi della sinistra, si è formata in questi anni una selva di micro-diseguaglianze di fronte alle quali quasi tutte le forze politiche maggiori sono sostanzialmente cieche, sorde e mute».
Disuguaglianze che hanno tutte una comune origine in un «tragico deficit di meritocrazia», sia a livello individuale che di istituzioni.
«Al lavoratore precario che tira la carretta negli uffici pubblici non fa piacere scoprire che la persona che è chiamato a sostituire guadagna dieci volte di più, produce dieci volte di meno ed è inamovibile qualsiasi cosa faccia o non faccia. Ai governatori delle regioni virtuose, che hanno bene amministrato la sanità, non fa piacere scoprire che non ci sono né veri premi per chi ha ben operato né vere punizioni per chi ha lasciato bilanci in rosso per miliardi di euro. Agli studenti che vorrebbero ricevere un'istruzione universitaria decente e non hanno i mezzi per studiare all'estero non fa piacere vedere i figli dei ricchi che vengono spediti negli Stati Uniti o sistemati nelle aziende di famiglia. Ai cittadini che rispettano le leggi non piace accorgersi che i furbi e i delinquenti quasi sempre riescono a farla franca. Agli immigrati onesti, che lavorano, pagano le tasse e rispettano le regole, non piace essere guardati con sospetto perché una minoranza di stranieri può spadroneggiare in interi quartieri delle nostre città».
Insomma, in molti si stanno rendendo conto che «fino a un certo punto livellare le differenze produce eguaglianza, ma oltre quel punto produce nuove e più profonde disuguaglianze», più odiose. E in Italia «quel punto di non ritorno, oltre il quale l'egualitarismo diventa generatore di ingiustizie, è ormai da lungo tempo stato attraversato».

La sinistra è in ritardo nel capire tutto questo e «le sue organizzazioni - partiti e sindacati - sono divenute delle grandi e inconsapevoli macchine per produrre disuguaglianza».

«Se non c'è merito, allora c'è solo censo, clientela, amicizie, affiliazione», avverte il "volenteroso" Nicola Rossi. Il merito è il più democratico, il più liberale, e il più rispettoso dell'individuo, tra i fattori di disuguaglianza, posto che le disuguaglianze, intese come differenze non inique, sono un dato ineliminabile nelle società umane e che compito dello Stato è favorire opportunità di partenza il più possibile uguali, non livellare verso il basso all'arrivo.