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Wednesday, December 12, 2012

Monti al bivio: federatore di un nuovo centrodestra o "legittimatore" del centrosinistra?

Anche su Notapolitica

Se si conviene unanimemente tra gli osservatori che una vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe dissuaso Berlusconi dal ripresentarsi, come atto di mera resistenza personale e politica, non è meno fondato ritenere che anche altre circostanze avrebbero potuto (e forse ancora potrebbero) dissuaderlo. Per esempio, nonostante il recente strappo con Monti, se il professore si convincesse a scendere in campo, non per sostenere ambiguamente un'operazione centrista volta a isolare la destra (berlusconiana e non) e a collaborare con Bersani dopo il voto, ma come vero e proprio atto fondativo e federatore di un nuovo centrodestra alternativo al centrosinistra, probabilmente il Cav si farebbe davvero da parte.

Non c'è motivo di dubitare che Berlusconi in questi mesi abbia effettivamente cercato un "nuovo Berlusconi", cioè una personalità in grado di unire i cosiddetti "moderati" ma in alternativa alla sinistra, non come sua costola. Le cronache hanno riportato di contatti in questo senso sia con Montezemolo che con lo stesso Monti.

C'è chi è affezionato all'idea di un superamento traumatico del berlusconismo, una recisione netta, che però il Cav, dal suo punto di vista, comprensibilmente rifiuta di subire, come abbiamo provato a spiegare in questo post di qualche giorno fa. Non potrebbe essere più efficace un suo superamento progressivo, una sorta di diluizione in un nuovo centrodestra, di cui non sarebbe più il leader, ovviamente, ma del quale gli fosse consentito di essere uno dei soci?

E' vero che quella del Cav è un'eredità scomoda, e che in questo paese raccoglierla significa giocarsi la propria "rispettabilità" agli occhi dei poteri che contano, ma si tratterebbe qui di ereditare l'unico aspetto positivo del berlusconismo, cioè una leadership innestata in uno schema bipolare, e non anche le derive e gli aspetti più deleteri.

Nonostante il personaggio abbia una certa difficoltà a vedersi relegato in un ruolo di secondo piano, l'impressione è che nessuno ci abbia mai seriamente provato, fondamentalmente perché tutte le operazioni volte a superare Berlusconi, a imporgli un «passo indietro», sono "centriste", non alternative ma complementari al centrosinistra, e quindi non in grado di attrarre l'elettorato di centrodestra, nonostante non sia stato mai più di oggi deluso e lontano dal Cav.

Nel suo lucido editoriale di oggi, sul Corriere, Ernesto Galli Della Loggia coglie entrambi questi aspetti. Innanzitutto, l'aiuto che Berlusconi ogni volta riceve dal coro degli antiberlusconiani. Probabilmente questa volta al Cav non riuscirà la rimonta, ma quest'attenzione ossessiva, questa demonizzazione gli basta per galvanizzare attorno a sé una fetta consistente di elettorato: «un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo - scrive Della Loggia - la misura del fallimento di Berlusconi», ma che non è disposta a concedersi alla sinistra, né ad un centro che lungi dal presentarsi come alternativo alla sinistra, quindi come nuovo centrodestra, odora di alleanza post-elettorale con Bersani. Questa Italia, da dodici mesi in attesa di una nuova offerta politica, merita rispetto, va considerata. Eppure, in tv, sui giornali, nelle radio, in questi giorni è ripartita la strumentalizzazione dello spread, assistiamo ad un flusso di irritanti lezioncine e interferenze in casa nostra da parte delle cancellerie europee, di volgari euroburocrati e della stampa estera. A ragione o a torto (secondo me a torto, ma conta poco), la leadership tedesca non gode di grande popolarità in Italia in questo momento: le continue prese di posizione per Monti e contro Berlusconi (oggi il ministro delle finanze Schauble, ieri quello degli esteri e la cancelliera Merkel) danneggiano o favoriscono il Cav? Forse non lo faranno vincere, ma comunque lo aiutano più di quanto lo ostacolino.

Ma Galli Della Loggia parla di un altro regalo a Berlusconi: se il centro non è contro la sinistra oltre che contro la destra berlusconiana, infatti, non è un vero centro ma di fatto una costola della sinistra, e concede al Cav «l'esclusiva della contrapposizione alla sinistra», un ruolo politico che come osserva l'editorialista ha sia «buone ragioni» che una «grande storia alle spalle».

La funzione storica per cui varrebbe la pena che Monti scendesse in campo sarebbe quella di aggregare questo elettorato oggi ancora «politicamente orfano», presentandosi quindi come federatore di un nuovo centrodestra che superi sì Berlusconi, ma che sia anche alternativo alla sinistra.

Chi ci crede è Mario Sechi:
«Chi non si riconosce nel patto Bersani-Vendola oggi è di fronte o a un'offerta politica polverizzata o a un berlusconismo declinante. Il più che mai necessario ruolo di aggregatore oggi potrebbe averlo Mario Monti... Rispetto alla vicenda del Cavaliere, quello di Monti potrebbe essere un progetto politico "fusionista" più vasto e armonioso, basato su un programma da condividere».
In caso contrario, osserva Sechi, «il sistema politico italiano rimarrebbe ancora una volta ancorato alla figura di Berlusconi che – per assenza di competizione nel centrodestra – continuerebbe a influenzare lo scenario».

Di sicuro non è una mossa preparata in questi mesi di governo, durante i quali Monti si è inimicato proprio l'elettorato di centrodestra, basando la sua politica di risanamento su aumenti di tasse e subendo tutti i veti della sinistra sulle riforme e i tagli alla spesa. Il problema, quindi, è che il Monti aggregatore di un nuovo centrodestra dovrebbe anche mettere da parte la sua smisurata autostima per marcare una certa discontinuità nella politica fiscale rispetto alla sua prima esperienza di governo. Come suggerito da Panebianco, cioè indicando l'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese e attraverso quali tagli di spesa.

Temo però che Monti non farà questo passo, anche perché il personaggio crede di avere meriti extra-politici tali che non possono essere "sviliti" accettando il giudizio e/o mendicando il consenso degli elettori, e che il suo curriculum possa bastare per aprirgli le porte di qualsiasi incarico. Che decida di sponsorizzare un'operazione centrista in suo nome, o di condurre in queste settimane una campagna ambiguamente "parallela", preservandosi come "riserva della Repubblica", si prepara ad un ruolo di argine e allo stesso tempo di "legittimatore" post-voto - dalla sede istituzionale che si troverà ad occupare (Quirinale o Palazzo Chigi) - di una coalizione di centro-sinistra in cui l'azionista di maggioranza sarà il Pd di Bersani sostenuto da una stampella di centristi "montiani".

Tuesday, March 27, 2012

Dal salva-Italia al bluffa-Italia

E' come scrive Stefano Menichini su Europa, e cioè che il Pd è semplicemente entrato in campagna elettorale, ma ha compiuto il «piccolo capolavoro» di portare in Parlamento il confronto sull'articolo 18, facendo così un favore a Monti; oppure c'è di più, in realtà il Pd ha iniziato a fremere per tornare a Palazzo Chigi, teme possa sfuggirgli come gli è sfuggito dopo la parentesi tecnica '92-'94, e quindi ha avviato, come sostiene Mario Sechi su Il Tempo, il piano di liquidamonti, sullo slancio del probabile successo alle amministrative?

A prescindere da quale siano i piani del Pd, resta il nodo dell'articolo 18: reintegro come opzione anche per i licenziamenti economici, come vorrebbero il Pd e i sindacati, o solo indennizzo, come vorrebbe il governo? Qualcuno dovrà cedere.

Sia come sia, sembra avverarsi ciò che avevamo predetto fin da subito, pochi giorno dopo l'insediamento del governo tecnico, e cioè che Monti avrebbe avuto se non poche settimane, «due/tre mesi, non oltre febbraio-marzo», certamente non oltre le amministrative, per la sua azione riformatrice, dopo di che rischiava di essere inghiottito dal ritorno dei partiti e indebolito, paradossalmente, dall'auspicabile allentamento della tensione sui nostri titoli di Stato. Avevamo per tempo segnalato che avrebbe commesso un errore fatale programmando la sua azione - prima i conti, poi le riforme - in un arco temporale troppo lungo. La stagione delle riforme era l'inverno, non la primavera. E ora che l'inverno è finito, sembra chiudersi anzitempo.

E quindi il pericolo che intravedevamo già a novembre - e che contrapponevamo su questo umile blog all'entusiasmo che nutrivano per l'ipotesi tecnica autorevoli economisti-blogger e professori - sembra materializzarsi: l'esperienza del governo tecnico rischia di concludersi, come le precedenti, con l'ennesima tosatura (e repressione) fiscale, il completamento di una sola riforma, quelle delle pensioni, e un'operazione credibilità, tutta fondata sull'autorevolezza personale di Monti, presso gli investitori internazionali. Le liberalizzazioni sono all'acqua di rose o tutte ancora da attuare; la riforma del mercato del lavoro è in alto mare e comunque quella uscita da Palazzo Chigi è di stampo socialdemocratico, timida sull'articolo 18 e gli ammortizzatori sociali, costosa e dannosa sulla flessibilità in entrata. Spesa pubblica? Intatta. Stock di debito pubblico? Intatto pure quello. L'annunciata "spending review" resta nel cassetto, e comunque produrrebbe briciole, e di privatizzazioni neanche a parlarne, come scrive Barbera su La Stampa. Il vero problema, il perimetro e il peso dello Stato nell'economia italiana, non è stato nemmeno scalfito.

Dopo il salva-Italia e il cresci-Italia, a chiudere il trittico riformista del governo Monti potrebbe essere il ddl bluffa-Italia.

Monday, March 26, 2012

Monti non ci sta a farsi logorare

Il Pd freme per tornare a Palazzo Chigi, sullo slancio delle amministrative, e a Monti non interessa tirare a campare. Quindi...

Niente da fare, la scelta del ddl invece del decreto per portare la riforma del lavoro in Parlamento, complice l'avvicinarsi delle elezioni amministrative, segna il ritorno dei partiti e Monti rischia grosso. Nei prossimi mesi si ballerà parecchio. La direzione del Pd ha dato un sostegno praticamente unanime alla linea di Bersani sulla necessità di modificare in Parlamento la riforma, in particolare sull'articolo 18. Monti ha prontamente e indirettamente risposto da Seul, in pratica minacciando di lasciare prima del 2013: «Se il Paese attraverso le sue forze sociali e politiche non si sente pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro non chiederemmo di continuare per arrivare a una certa data». Il professore rifiuta il «concetto stesso di crisi» e avverte che non gli interessa «tirare a campare». Ovviamente l'Udc si è subito allineato, il Pdl a condizione che il governo tiri dritto: «Siamo d'accordo con lui – ha commentato Alfano dalla conferenza nazionale del Pdl sul lavoro – o facciamo una buona riforma o niente riforma», meglio aspettare un anno, e «se alle politiche vincerà la sinistra farà la sua riforma dettata dalla Cgil. Se, come penso, vinceremo noi faremo la nostra riforma proseguendo il cammino delle idee di Marco Biagi».

Modifiche sono accettabili, ma punto irrinunciabile, ha fatto capire il ministro Fornero, è il no al reintegro nei licenziamenti per motivi economici, cioè proprio l'opzione che il Pd vorrebbe che restasse a discrezione del giudice. «Guai» se la scelta del ddl venisse letta come un «cedimento», ma il fatto è che proprio così è stata intesa dai partiti. Ed era inevitabile. D'altra parte, appare davvero poco convincente la spiegazione fornita da Monti: «Il decreto sarebbe venuto a valle di un processo più lungo, ma con qualità al ribasso». Nel caso della riforma delle pensioni e delle liberalizzazioni il premier non è sembrato dello stesso avviso.

Il governo ha rinviato la prova di forza, ma se non ha dimostrato oggi di avere i muscoli per imporre una soluzione più rapida e più blindata, difficilmente li troverà a fine luglio, quando ci sarà da riportare al suo disegno originario la riforma, nel frattempo sfigurata dall'iter parlamentare.

D'altro canto, dall'approvazione fulminea del decreto salva-Italia l'azione del governo sembra aver perso via via incisività e agilità. Rispetto alla riforma delle pensioni e al notevole aumento dell'imposizione fiscale decisi a dicembre, il dl liberalizzazioni è uscito da Palazzo Chigi meno rivoluzionario del previsto, persino contraddittorio in alcuni punti, e ha vissuto un iter parlamentare travagliato e non privo di arretramenti e rinvii. Così anche altri provvedimenti. Ora, rinunciando al decreto, una delle due riforme (dopo quella delle pensioni) più attese dai mercati Monti la rimette nelle mani dei partiti, insieme alla sua stessa credibilità. Il risultato è che delle riforme per la crescita su cui l'Italia si è impegnata con l'Ue e con i mercati, che nel frattempo stanno manifestando segni di insofferenza, dopo 6 mesi solo una è legge: quella delle pensioni. Le liberalizzazioni sono all'acqua di rose, o in attesa di attuazione (come la separazione Snam-Eni e i servizi pubblici locali), e la riforma del lavoro naviga ancora nell'incertezza, così come la stessa sopravvivenza del governo.

Monti e Napolitano devono aver pensato che un'accelerazione proprio alla vigilia delle elezioni amministrative avrebbe potuto esasperare le tensioni nel Pd, mettendo a rischio la tenuta del governo, mentre all'indomani del voto – che dovrebbe sorridere ai Democrat – sarebbe stato più facile ricondurre il partito di Bersani a più miti consigli e far digerire la "manutenzione" dell'articolo 18. Ma è un grosso rischio. Un successo, infatti, coniugato al calo dello spread, potrebbe anche persuadere il Pd che sia giunta l'ora di far scattare il piano di liquidazione del governo Monti-Napolitano, di cui ha parlato Sechi sul Tempo, e di andarsi a giocare l'intera posta stoppando sul nascere il progetto tecno-centrista.

Nei giorni scorsi, tra l'altro, abbiamo appreso che dietro la scelta di affidarsi ad un ddl e non ad un decreto, come il governo Monti aveva fatto fino ad oggi con le altre sue riforme, non ci sono solo le difficoltà del Pd e la moral suasion del presidente della Repubblica. Per la prima volta si sono intraviste delle pericolose crepe all'interno della compagine di governo, con ministri apertamente contrari non solo al tipo di soluzione legislativa, ma anche nel merito di una riforma espressamente parte del programma concordato con le istituzioni europee e attesa dai mercati.

Thursday, July 07, 2011

L'errore è a monte

Non so se i siti e le tv ieri, e i giornali oggi, sono stati abbastanza chiari, ma Tremonti ieri - in una conferenza stampa da far venire una crisi di nervi per la reticenza del ministro e il livello subumano delle domande dei giornalisti - ha annunciato che oltre ai 10,6 miliardi di nuove tasse di questa manovra, rischiamo di pagarne altri 17 miliardi tra il 2013 e il 2014, sotto forma di mancate detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali. Il fatto è questo: il ministro vuole fare la riforma del fisco e dell'assistenza, e dai tagli a quest'ultima si aspetta di ricavare 17 miliardi in due anni da destinare all'obiettivo di azzeramento del deficit. Ma se entro il 2012 il governo non riuscirà ad attuare la legge delega, se cioè non si riuscirà ad incidere sugli sprechi e i privilegi che si annidano nell'assistenza (falsi invalidi eccetera), allora non solo non ci sarà alcuna riduzione delle tasse tramite la rimodulazione delle aliquote Irpef, ma i 17 miliardi che servono arriveranno in automatico dal taglio lineare, di circa il 15%, di tutte le detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali che oggi valgono circa 170 miliardi (le "tagliabili" però ne valgono circa 100).

Siccome la riforma fiscale a tre aliquote è a somma zero, dovrà cioè autofinanziarsi (ritoccando l'Iva e l'aliquota sulle rendite finanziarie - probabilmente - e, appunto, asciugando deduzioni e detrazioni), che non ci sarà una riduzione complessiva delle tasse è matematicamente certo, mentre c'è persino il rischio che la pressione fiscale aumenti ancora, per reperire le risorse - circa 17 miliardi - che sarebbero dovute arrivare dalla legge delega tramite tagli e razionalizzazioni dell'assistenza.

Per non parlare degli 8,8 miliardi già rapinati, a cominciare da ieri, dai depositi titoli. Una cosa è certa: come scrive Mario Sechi su Il Tempo, «caro presidente Berlusconi, non si può più dire "non abbiamo mai messo le mani nelle tasche degli italiani". Sta avvenendo. E i suoi elettori se ne sono accorti». La patrimoniale sui conti titoli è uno scandalo che grida vendetta. Pensavamo che solo la sinistra avesse la faccia tosta di chiamare «rendite» quelli che in realtà sono piccoli risparmi. Ci sbagliavamo. La mancata rivalutazione delle pensioni - non di quelle "ricche", ma di 1.500-2.000 euro - e l'aumento del bollo sui depositi titoli, sono «patrimoniali senza ma e senza se», sottolinea giustamente Claudio Borghi, oggi su il Giornale:
«I milioni di italiani che negli anni hanno aperto un conto titoli non percepiscono alcuna "rendita" ma tentano (di solito senza riuscirci) semplicemente di salvare il proprio capitale dall'inflazione, vera tassa occulta a favore degli Stati indebitati e in danno ai risparmiatori. In molti hanno votato Pdl in avversione alle idee della sinistra e confidando nel principio, sempre ribadito, della tutela del risparmio. Proprio da questo governo devono vedersi arrivare rincari sproporzionati sui depositi titoli e aumenti delle aliquote sulle cedole?... Colpevolizzare la ricchezza, bastonando la povera formica a tutto vantaggio delle solite cicale è una "tara" del comunismo: in bocca alla Camusso è normale, fatto da un governo di centrodestra è scandalo».
E ovviamente le banche, che alzano timide il ditino, sanno bene che per loro il superbollo può rivelarsi persino un affare. Come riporta Il Foglio, infatti, «nel comitato esecutivo dell'Abi tenuto ieri c'era comunque la consapevolezza che l'incremento dell'imposta di bollo possa favorire altri strumenti finanziari come depositi vincolati, conti correnti, fondi comuni di investimento e operazioni in pronti contro termine».

Il problema che hanno di fronte a sé Berlusconi e il Pdl è che ormai evitare di mettere le mani nelle tasche degli italiani, e magari ricavare i soldi per un vero taglio delle tasse, il tutto a saldi invariati per azzerare il deficit nel 2014, è un'impresa disperata: bisognerebbe rovesciare radicalmente la manovra, tagliare ancor più violentemente la spesa di amministrazioni centrali e locali, abolire le province e altri enti inutili, allungare da subito l'età pensionabile e fare tutte le riforme liberali che fino ad oggi non sono state fatte. Il tutto mentre Comuni e Regioni, quelli amministrati dal centrodestra in prima fila, ma anche i ministri, sono pronti a tutto pur di difendere il proprio portafogli.

No, purtroppo l'errore, a questo punto insanabile, è a monte. Anzi, a Tremonti: l'aver lasciato per troppi anni la politica economica totalmente nelle mani del ministro del Tesoro, senza porgli fin dal primo giorno della legislatura obiettivi concreti e verificabili di cui chiedergli conto; l'aver accettato supinamente la scellerata teoria Tremonti-Sacconi che durante la crisi non si dovesse toccare nulla, mentre era proprio quello il momento migliore per impostare riforme radicali.

E la colpa - badate bene - non è dell'accentramento nel Ministero del Tesoro di competenze che una volta spettavano ad altri ministeri. Quella continua ad essere una semplificazione irrinunciabile se si vogliono tenere davvero sotto controllo i conti pubblici. La colpa è principalmente di chi era stato indicato dagli elettori nel ruolo di premier, di capo del governo, e del suo partito. Era Berlusconi che avrebbe dovuto fin da subito accentrare su di sé ogni decisione fondamentale, tenere le redini della politica economica, seguire e controllare l'operato del suo ministro, indirizzarlo. Che poi abbia dalla sua qualche alibi, qualche attenuante e qualche giustificazione, questo è vero, ma è un altro discorso e ci porterebbe lontani. Adesso l'impressione è che sia troppo tardi: anche se ci fosse la volontà politica, c'è da dubitare che qualcuno sappia mettere le mani laddove per otto lunghi e critici anni solo Tremonti ha potuto mettere le sue.

Friday, June 17, 2011

Caro Daw, occhio alla demagogia

Innanzitutto, sul partito abbiamo ragione noi (e con "noi" intendo non solo Daw, Right Nation, Sechi, ma mi ci metto anch'io) a chiedere che le cariche interne siano elettive e che le candidature alle cariche esterne vengano decise tramite le primarie, mentre l'onorevole Stracquadanio ha torto marcio. Nel rispondere a Sechi, su La7, è rimasto con una patata in bocca e la sua lunga risposta autobiografica non rileva affatto, non c'entra nulla con ciò di cui stiamo discutendo. E ci frega anche pochino di come ha fatto "carriera".

Occorre però stare molto attenti alla demagogia e su un paio di cose buttate lì con troppa faciloneria dall'onorevole del Pdl bisogna ragionare. Innanzitutto, demagogica mi sembra questa campagna "ad personam" sulla «rottamazione» degli esponenti di centrodestra, come se qualche decina o centinaia di lettori, pur con tutte le ragioni per essere "arrabbiati", siano legittimati a decretare chi è il bollito e chi no in una rosa di candidati selezionati piuttosto arbitrariamente per il giochino. Bella trovata mediatica, non c'è dubbio, e probabilmente troverà spazio nei migliori giornali e sui migliori siti. Se l'intenzione era "bucare", l'obiettivo è stato centrato.

Ma provo a suggerire qualcosa di più costruttivo e "ragionato". Invece di agitare il forcone internettiano, perché non rilanciare il tema dell'uninominale? Sarà mediaticamente meno appagante, ma bisogna riconoscere che l'uninominale (e tra l'altro è in quel sistema che le primarie nascono e si affermano) è l'unico vero strumento in grado di "rottamare" davvero - non nei convegni (alla Renzi & Civati), o sui nostri blog - la classe politica. E tra l'altro solo con l'uninominale avrebbero senso le primarie per scegliere i candidati al Parlamento nazionale. L'avversione bipartisan per l'uninominale non si spiega solo con la pretesa dei partiti di "acchittarsi" il sistema di voto più congeniale ai propri disegni politici, ma con rare eccezioni è profondamente radicata nella stragrande maggioranza dei parlamentari e dei dirigenti politici di ogni schieramento. Vi siete mai chiesti perché? Perché mette in gioco la loro personalissima sopravvivenza politica. Perché con l'uninominale secco, ad un turno, o sei dentro o sei fuori. Non ci sono vie di mezzo. E per quanto possano esserci collegi "blindati", anche i leader in disarmo o i "colonnelli" rampanti possono incappare in una sconfitta. Solo che non avrebbero ripescaggi né paracadute di sorta. Se poi, assieme all'uninominale e alle primarie, avessimo partiti leggeri, "all'americana", allora sarebbero costretti a cercarsi un lavoro vero.

Secondo, internet. Come pretendiamo che i politici reagiscano senza «sindromi da lesa maestà» alle nostre critiche, ebbene anche noi dobbiamo saper ragionare su noi stessi e la rete. Se quello di Stracquadanio sembrava un anatema nei confronti di internet perché ormai "in mano alla sinistra", e se in tutti questi anni il centrodestra, così come la stampa d'area (va detto!), ha colpevolmente snobbato cosa avevano e hanno da dire migliaia di blog che come noi hanno cercato di far circolare le idee liberali e conservatrici, tuttavia anch'io ho la sensazione che sul web, sui social network e i siti più visitati, la sinistra sia «quantitativamente soverchiante sul centrodestra». Non so se sia dovuto al fatto che i militanti della sinistra sono «fannulloni», ma riconoscerlo non significa in alcun modo sminuire ciò che molti blog e siti come i nostri fanno ogni giorno da anni. A me pare, ma la mia è un'opinione parziale, che oltre ad essere una supremazia solo quantitativa e per nulla qualitativa, sia anche una maggior capacità di penetrazione e che ciò dipenda da una maggiore faziosità e da un uso più "virale" della rete. Ciò che passa, ciò che si diffonde in rete come un tam tam è la battuta demagogica, ciò che "buca" e diventa evento mediatico in grado di rimbalzare sui media tradizionali, non sono le "idee", i dibattiti, le grandi questioni, ma lo sputo telematico in faccia all'avversario.

Infine, ricordiamoci che le primarie servono come il pane ma non sono, e non saranno tutto. Riconosciamo serenamente che agli elettori interessa poco chi sarà, e come verrà scelto, il coordinatore del Pdl in questa o quella regione. Non ne sapranno mai nemmeno il nome. La fiducia degli elettori che nel 2008 hanno votato centrodestra sta venendo meno per la deludente prova di governo. Punto. Se domattina avessimo le primarie, avremmo una garanzia in più che la classe dirigente del futuro sia migliore di questa, ma guardando al 2013 è da Palazzo Chigi che si possono riannodare i fili del consenso o tirarli via completamente.

Monday, March 28, 2011

Panorama deprimente

E' stato un weekend di pura follia quello che si è appena concluso. Con Frattini che se ne esce con l'idea malsana di un bonus in denaro per convincere i clandestini a rimpatriare, che di tutta evidenza non farebbe altro che alimentare il commercio di essere umani su cui prosperano le organizzazioni criminali; il centrodestra al governo e i giornali ad esso vicini (con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi) che continuano a trattare la crisi libica come un'emergenza immigrazione e poco più (quando a tutt'oggi i grandi esodi paventati non si sono visti) e, ancor più patetico, ad esercitarsi in complottismi e vittimismi, quando è evidente che Parigi e Londra, ciniche quanto si vuole, stanno solo perseguendo il loro interesse nazionale; e in ultimo le opposizioni, che immancabilmente si dimostrano capaci solo di strumentalizzazioni sull'orizzonte ristrettissimo della politica interna.

Con rarissime eccezioni, insomma, un panorama politico e giornalistico davvero deprimente, mentre Gheddafi sta per cadere (i ribelli starebbero marciando verso Sirte, sua città natale), e Francia e Gran Bretagna giocano all'attacco la loro partita per l'influenza nel Mediterraneo, per riempire cioè quel nuovo promettente spazio geopolitico apertosi con le rivoluzioni del Nord Africa. Dovremmo chiederci perché noi non solo non riusciamo ad agire con la stessa determinazione ed efficacia, sembriamo ancora intontiti dalla tempesta che ha spazzato via il nostro comodo "posto al sole" in Libia, ma neanche discutiamo di come riprendercelo, quasi ce ne vergognassimo. Eppure, basterebbe partecipare attivamente, quanto francesi e inglesi, alle operazioni militari (abbiamo le forze e le capacità operative per farlo) e sfruttare al meglio qualcosa che loro invece non hanno: i nostri contatti, la nostra conoscenza sul campo, la nostra buona immagine.

Invece, stiamo lì a rimuginare, a piangerci addosso, ad aspettare un'improbabile «fase di mediazione» che dovrebbe farci tornare protagonisti, sottolineando in questo modo noi stessi il ruolo di secondo piano dell'Italia. Se chiedere «l'immediato cessate il fuoco» quando Gheddafi sembrava stesse per sferrare l'attacco finale su Bengasi aveva un qualche senso, è ridicolo farlo oggi, quando può essere scambiato per un modo di correre in aiuto del Colonnello stretto in una morsa (ribelli e raid) che sembra inesorabile, anche se lenta. Il nostro governo vaneggia di «mediazioni», «dialogo», «riconciliazione nazionale», mentre il raìs sta ancora combattendo ed è chiaro a tutti che venderà cara la pelle, altro che esilio... Certo, prima o poi occorrerà avviare un dialogo fra le tribù, un lavoro di riconciliazione, ma solo dopo che sarà caduto Gheddafi. Affannarsi tanto ora ricopre di un alone di ambiguità le nostre intenzioni, si potrebbe pensare che pretendiamo o che crediamo possibile «riconciliare» i ribelli con il tiranno e viceversa.

Siamo riusciti, è vero, a togliere a Sarkozy il monopolio del palcoscenico, ma ormai gli effetti che l'intervento alleato doveva determinare sul campo si sono verificati. Insomma, la Nato sembra intervenire se non a cose fatte, di certo molto ben avviate, e i ribelli sanno bene chi è intervenuto per primo e in modo decisivo in loro soccorso, nell'ora più drammatica. Pensare che ci lasceranno condurre le danze del dopo-Gheddafi, dopo che siamo rimasti in secondo piano negli sforzi per cacciarlo, è pura utopia consolatoria. Tant'è che alla nostra vera o presunta «soluzione diplomatica» avanzata da Frattini (di sponda, pare, con Germania, Russia e Turchia) già se ne contrappone un'altra, vera o presunta anche questa, elaborata da Parigi e Londra (almeno così dice il ministro degli Esteri francese Juppé). Sarà dura recuperare sulla nuova Libia l'influenza che avevamo, ma quand'è che iniziamo a giocare da duri?

Tuesday, March 22, 2011

Arginiamo Parigi, ma cacciamo Gheddafi

Sono le misere gelosie tra i Paesi europei a stagliarsi sulle ceneri della leadership americana. L'Italia ha ragione nel pretendere un comando Nato della missione, ha torto nel porre limiti alle operazioni, ma in questo sembra in linea con le ambiguità del presidente americano Obama.

Se si tratta di arginare il protagonismo francese - che ha tutta l'aria di essere dettato non da un afflato umanitario, ma dalla volontà di sostituire la propria influenza a quella italiana in Libia e dall'ambizione personale di Sarkozy, che cerca di rianimare la sua immagine nell'imminente corsa alla rielezione - ok; se è un modo per tornare su una posizione "neutralista" e prolungare surrettiziamente il regime di Gheddafi, decisamente no, perché ciò non risponde più ai nostri stessi interessi e prima ce ne convinciamo, meglio è. Invece, nel centrodestra stanno confondendo la legittima reazione al protagonismo francese con le sorti del raìs. E' certamente vero che siamo di fronte ad un intervento per lo più di carattere "neocoloniale" da parte di francesi e inglesi, che mirano a sostituire la loro influenza alla nostra in Libia, ma la soluzione non è piangerci addosso e addolorarci per Gheddafi. Il punto è un altro: che il Colonnello cada, e il prima possibile, è ormai anche nel nostro interesse, dal momento che il ritorno a qualcosa che somigli anche lontanamente allo status quo ante è impensabile e quindi il nostro comodo "posto al sole" in Libia è perduto. Dobbiamo riconquistarlo non prolungando l'agonia di Gheddafi, bensì non lasciando il comando delle operazioni - belliche e politiche - ai francesi. Questa è la sfida, rispetto alla quale l'alternativa è ritrarsi, rinunciando però in partenza a riguadagnare le preziose posizioni perdute in Libia.

Ad aver lasciato campo libero ai francesi purtroppo siamo stati noi stessi, paralizzati - a quanto pare ancora oggi - dall'imbarazzo per la nostra (ex?) amicizia con Gheddafi. Guardiamo agli Stati Uniti di Obama, a quanto velocemente hanno scaricato il loro miglior "amico" in Medio Oriente, Mubarak, quando si sono accorti che lo scenario era cambiato per sempre. Dobbiamo riconoscere, come fa non da oggi Mario Sechi su Il Tempo, che Sarkozy «è stato svelto nello scavalcarci perché ha capito qual era lo scenario»: in breve, che le rivoluzioni in Tunisia, Egitto e Libia stavano aprendo lo «spazio geopolitico» del Mediterraneo a chi fosse stato più rapido nel riempire quel vuoto; e che gli Stati Uniti sarebbero stati refrattari a svolgere un ruolo da protagonisti nella crisi libica. In questo spazio avremmo dovuto infilarci noi, invece Sarkozy ci ha preceduti. Ora non possiamo far altro che rincorrere, non negare la situazione.

Di fronte a quanto stava accadendo, e alla Francia che puntava chiaramente a sostituire l'Italia nei rapporti con la nuova Libia, due erano le possibilità per il nostro governo: o sostenere dichiaratamente il Colonnello, con tutto quello che avrebbe comportato, e senza nasconderci che comunque il suo destino sarebbe stato segnato nel medio termine; oppure, contendere ai francesi il dopo-Gheddafi, ma puntando decisamente a favorire il "dopo". Tertium non datur. Per questo è giusto sollevare un problema di comando, ma sarebbe sbagliato restare nell'ambiguità sull'obiettivo ultimo: cacciare Gheddafi prima possibile.

Questa guerra è cominciata tardi e male essenzialmente per responsabilità americane, per la debolezza della leadership di Obama. La confusione sull'obiettivo ultimo della missione infatti è innanzitutto la sua. Da una parte ripete ogni giorno che nessuna risoluzione dell'Onu autorizza a cacciare il raìs, quindi che l'obiettivo della missione non è rovesciare il regime, dall'altra aggiunge che il dittatore «se ne deve andare», non si capisce bene come. Indica una sottilissima «distinzione» fra l'intervento militare autorizzato dall'Onu e la politica del suo governo. La risoluzione 1973 richiede la protezione dei civili dalle violenze di Gheddafi, dunque l'obiettivo della coalizione non è il «cambio di regime», ma ciò non toglie che la Casa Bianca ritenga che «Gheddafi deve abbandonare il potere». Eh sì, sono lontani i tempi della chiarezza cristallina di George W. Bush. Solo con le lenti dell'ipocrisia si può fingere di non vedere che laddove la risoluzione autorizza «ogni mezzo necessario» a proteggere la popolazione civile, de facto autorizza - se necessario - anche la rimozione di Gheddafi dal potere. Ma secondo Obama l'intervento armato si dovrebbe limitare a proteggere i civili, mentre le sanzioni dovrebbero bastare a far cadere il regime. Questo per lasciare almeno all'apparenza nelle mani dei libici il loro destino, come in Egitto nel caso di Mubarak, evitando di impegnare gli Usa in un vero e proprio "regime change", che ricorderebbe troppo Bush. Se è lecito dubitare che una no-fly zone possa provocare da sola la caduta di Gheddafi, figuriamoci le sanzioni. O si tratta di ipocrisia liberal allo stato puro - e a questo punto c'è da augurarselo - oppure c'è da dubitare delle doti politiche del presidente Usa.

Stupiscono infine certe obiezioni sollevate nel campo del centrodestra, che somigliano in modo sospetto a quelle sollevate dalla sinistra ad ogni guerra americana: perché in Libia sì e in altre parti del mondo no? Il fatto che di dittature anche più minacciose e di genocidi sia pieno, purtroppo, il mondo non significa che bisogna rimanere con le mani in mano anche quando c'è la possibilità di intervenire. E' il solito trucco dialettico: siccome si dovrebbe intervenire ovunque, o comunque "ben altre" sarebbero le situazioni che richiederebbero un intervento, allora non si interviene mai.

Monday, March 21, 2011

Se siamo costretti a inseguire la colpa è solo nostra

La spiacevole sensazione di trovarci trascinati obtorto collo in un conflitto che la nostra diplomazia aveva scommesso non ci sarebbe stato, e che avremmo volentieri evitato, è comprensibile, ma della nostra condizione dobbiamo incolpare solo noi stessi. Se oggi, come si legge sul Corriere della Sera, il premier si trova «nell'indesiderata e paradossale posizione di dover sperare nel successo pieno, sino alla destituzione di Gheddafi, di un'operazione che vive anche nel ruolo di vittima», è comodo ma miope prendersela con il cinico Sarkozy. Piuttosto, Berlusconi se la prenda con le "distrazioni" giudiziarie di cui è suo malgrado oggetto e con una Farnesina poco reattiva e malamente informata. Ricordiamo bene i giorni delle rivolte in Tunisia e in Egitto, quando i nostri servizi segreti, quelli che avrebbero dovuto saperne di più al mondo sulla situazione in Libia, assicuravano che il regime del Colonnello era saldo. Se non capiamo questo in fretta, sbaglieremo anche le prossime mosse. Come osserva Panebianco sul Corriere della Sera, stiamo facendo «la cosa giusta, l'unica possibile», partecipando con tutti i nostri mezzi a questa azione internazionale. Non potevamo tirarci indietro. Il classico "buon viso a cattivo gioco", insomma, con la differenza che il cattivo gioco se l'è autoinflitto l'Italia da sola, non comprendendo per tempo ciò che stava accadendo e che inevitabilmente sarebbe accaduto. Consapevoli di non avere la forza di impedire agli altri di "giocare" nel cortile davanti casa nostra, sarebbe stato più intelligente uscire di casa col pallone sotto braccio e organizzare noi per primi la partita.

Era del tutto evidente, infatti, fin dai primissimi giorni della rivolta in Libia e anche ad umilissimi blogger come il sottoscritto, che Gheddafi non sarebbe rimasto al potere se non ad un prezzo inaccettabile di vite umane, rendendo quindi impossibile un ritorno al "business as usual" e probabilmente inevitabile un intervento militare per cacciarlo, soprattutto dopo le impegnative parole di Obama e di Sarkozy. Insomma, il nostro comodo e privilegiato "posto al sole" in Libia era comunque perduto, tanto valeva prepararsi il prima possibile a rioccuparlo nella nuova Libia. Avremmo dovuto giocare d'anticipo e porci noi, dall'inizio, alla testa dei Paesi interventisti, invece abbiamo tentennato e ora ci troviamo costretti ad inseguire, ma sempre titubanti, il protagonismo altrui. Capisco che è un boccone amarissimo, ma dobbiamo mandarlo giù in fretta. L'esclusione della Nato è anch'essa un altro piccolo grande successo di Sarkozy, permesso dalla debolezza americana e italiana. Si potrebbe iniziare da qui per arginare il protagonismo francese.

Non sorprende che la Lega, per sua natura non pacifista ma isolazionista, sia refrattaria all'intervento. Sorprende che lo siano i principali giornali di centrodestra, con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi, che in tempi non sospetti aveva colto tutti gli aspetti di ciò che stava montando. Questa guerra porterà solo altri immigrati sulle nostre coste e ci toglierà il petrolio e il gas libici, come temono i leghisti ed ampi settori del Pdl? Avrei capito le perplessità nei confronti del nostro intervento se ci fosse stato davvero uno status quo da difendere, ma al contrario ciò che ci ha fatto rimanere indietro rispetto ai nostri alleati è esattamente non aver compreso che tutto ciò che ci interessa in Libia - le nostre "piattaforme" energetiche e commerciali, il contenimento dell'immigrazione clandestina e dell'estremismo islamico, non avere alle nostre porte uno Stato fallito - per noi era già perduto in partenza, con l'innescarsi della crisi, e questa guerra, semmai, ci offre l'occasione di tentare di riprenderci in futuro ciò che altrimenti non avremmo avuto più. In ogni caso. Perché se Gheddafi fosse rimasto al potere, certo non sarebbe stato possibile tornare al "business as usual" e il raìs, ce lo ha brutalmente chiarito lui stesso alcuni giorni fa, ci avrebbe fatto pagare salatissimo il nostro mancato appoggio, avremmo dovuto ritrattare tutto; se invece la nuova Libia nascesse con un aiuto esterno ma senza il contributo italiano, perderemmo ogni possibilità d'influenza. Dunque, per uscire dal vicolo cieco occorreva fare esattamente ciò che sta facendo Sarkozy, solo prima che lo facesse lui. Adesso è tardi, non possiamo far altro che accodarci e riguadagnare pazientemente le posizioni perdute. Siamo in grado di farlo, perché trattiamo con i libici da quarant'anni e non abbiamo l'arroganza dei francesi.

In questi ultimi due decenni abbiamo preso parte a costose missioni estere in cui il nostro interesse a partecipare era solo indiretto: contribuire alla lotta contro il terrorismo islamico e accrescere il nostro status sulla scena internazionale. Paradossalmente è proprio nella crisi libica che non abbiamo saputo cogliere l'occasione più unica che rara di un intervento nelle cui ragioni confluivano la nobile causa della difesa delle popolazioni civili da una brutale dittatura, l'interesse strategico ad accrescere il nostro status guidando una coalizione internazionale nel Mediterraneo (almeno formalmente sarebbe stato possibile vista la refrattarietà degli Usa di Obama) e - per una volta - la tutela di interessi concretissimi (energetici e commerciali) nell'unico Paese che si trova, se così possiamo definirla, nella nostra "sfera d'influenza". Sarkozy invece - con l'arroganza tipica dei francesi e un pizzico di avventurismo (la scommessa su una campagna breve, dal minimo sforzo e trionfale è comunque un azzardo) - ha colto al volo l'occasione di riempire questo vuoto lasciato dalle incertezze di Washington e dall'imbarazzo italiano. Per la Francia l'occasione di sostituirsi a noi come primo partner energetico e commerciale della nuova Libia e di lanciarsi così alla conquista del nostro "spazio naturale": il Mediterraneo. Per Sarkozy, accusato in patria di aver subito in modo troppo passivo le crisi in Tunisia ed Egitto, anche una ghiottissima occasione per riaffermare la "grandeur" francese e risollevare così le sue sorti personali. Per gli Stati Uniti non solo la difesa della propria influenza in Medio Oriente, e l'interesse strategico a sintonizzarsi con le masse arabe che si sono rivoltate contro i loro oppressori imprimendo alla storia della regione un nuovo corso, ma anche un modo per penetrare in Africa (dopo il tragico fallimento in Somalia) e contrastare le ambizioni imperialiste della Cina (come abbiamo visto presente in forze nella Libia di Gheddafi).

E' «la guerra di Sarkozy», come osserva Lucio Caracciolo su la Repubblica, o non dobbiamo farci ingannare dalle apparenze ed è «tutta americana», come sostiene Lucia Annunziata su La Stampa? In effetti, quello francese potrebbe rivelarsi un colpo di coda della "grandeur" perduta, mentre dietro l'intervento "umanitario" per gli Stati Uniti si concretizza la possibilità di segnare un punto a favore nella serrata competizione che li vede in svantaggio rispetto alla Cina per l'influenza in Africa.

L'azione in corso presenta non pochi rischi, è vero. L'obiettivo dichiarato è far cadere Gheddafi. Questo nella risoluzione dell'Onu che autorizza gli attacchi non c'è scritto, ma tutti lo sanno. Ebbene, uno dei rischi di quest'azione, poiché tardiva e priva fino ad ora di una leadership forte, è che salvi gli insorti dalla controffensiva del raìs, ma che non riesca a rianimare le loro capacità militari e quindi a provocare in tempi ragionevoli la caduta del dittatore. All'inizio c'è stato un momento, durante l'avanzata dei ribelli, durato circa una settimana, in cui sembrava che una no-fly zone, alcuni bombardamenti mirati, potessero assestare l'ultima spallata a Gheddafi. Oggi è tutto molto più problematico, perché i raid sono iniziati quando al Colonnello mancava solo Bengasi per riprendersi il controllo del Paese intero. Il rischio quindi è una situazione di stallo: la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo. Purtroppo sull'efficacia dell'intervento pesa anche l'irresolutezza e la mancanza di leadership degli Stati Uniti. Molti vi hanno visto l'intenzione di lasciare per una volta all'Europa la guida politica di una crisi alle porte del vecchio continente. Purtroppo, bisogna riconoscere che le oscillazioni della Casa Bianca sono dipese solo dalle incertezze di Obama, a loro volta dovute in parte all'inesperienza ma soprattutto alla totale mancanza di visione politica del presidente Usa.

Non si capisce, poi, se Obama si nasconda spudoratamente o sia un totale idiota, quando sottolinea che l'intervento punta a «proteggere civili» e non a «rovesciare un regime» (se così fosse, sarebbe un irresponsabile), e che gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano» (non credo gli americani siano contenti di sapere che le loro forze armate sono sotto il comando di Sarkozy). Per altro, anche la «solida legittimazione internazionale» fornita dalla risoluzione dell'Onu mostra le prime crepe, con le prese di distanza di Russia e Lega araba, mettendo a nudo un lavoro diplomatico non proprio perfetto come si vorrebbe far credere.

Wednesday, March 16, 2011

Isteria e dilettantismo

Uno schifo autentico, permettetemi lo sfogo. L'isteria collettiva europea sul nucleare (non ci siamo fatti mancare neanche il solito euroburocrate irresponsabile che ha parlato di «apocalisse» ed è paradossale che il ministro degli Esteri giapponese debba esortare «i Paesi stranieri ad avere sangue freddo») e l'immobilismo di tutto l'Occidente nella crisi libica restituiscono un'immagine nitida dei mala tempora che stiamo vivendo.

Non voglio certo sottovalutare quanto sta accadendo alla centrale di Fukushima, dove purtroppo c'è ancora molto che può andare storto, ma siamo di fronte ad una catastrofe naturale di proporzioni epiche, che ha già ucciso migliaia, forse decine di migliaia di persone, mentre i vapori radioattivi fuoriusciti dai reattori non hanno ancora ucciso nessuno, l'esplosione delle strutture esterne undici operai e la contaminazione radioattiva sembra per ora non aver oltrepassato la zona circostante la centrale. Insomma, tutto può ancora succedere, ma c'è una probabilità che «l'apocalisse atomica» sia una bolla mediatica. Ed è uno schifo vedere gente in tv o sui giornali che ha tutta l'aria di auspicare il peggio solo per vedere avvalorata la propria ideologia antinuclearista.

I giornali e le tv sembrano non accontentarsi di raccontare il dramma che sta già vivendo il Giappone. L'enorme distesa di fango che ricopre le province nipponiche colpite dallo tsunami, così come la conta dei morti e delle distruzioni, è roba noiosa, deprimente, e soprattutto vista e rivista. C'è bisogno di dare il senso di un'escalation per mantenere il pubblico col fiato sospeso come in uno di quei thriller apocalittici che riempiono le sale. Con voracità inaudita divorano e risputano le notizie. E pazienza se spesso hanno ben poco a che fare con la realtà. Nell'incertezza, le sparano ad alzo zero. Ci raccontano dei giapponesi cinici impassibili di fronte alla tragedia, quegli stessi giapponesi che nell'articolo sulla pagina successiva vengono descritti così in preda al panico da dar vita ad esodi di massa e assalti ai generi alimentari.

E' una riflessione utile in queste ore quella del Wall Street Journal in un editoriale di qualche giorno fa: «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico è che più ci rende maggiormente sicuri, più sembriamo diventare avversi ai rischi, che sono l'unica strada verso progressi futuri». Senza tener conto che «il motivo per cui il Giappone è sopravvissuto ad un tale evento catastrofico è proprio il suo grande sviluppo e la sua ricchezza materiale». «La civiltà moderna è quotidianamente occupata a misurare e mitigare i rischi, ma il suo progredire richiede che continuiamo ad assumerci dei rischi... La vita moderna richiede di trarre delle lezioni dai disastri, non di fuggire da tutti i rischi. Dovremmo imparare dalla crisi nucleare giapponese, non lasciare che alimenti un panico politico sull'energia nucleare in generale».

Nella crisi nucleare di Fukushima, così come nella crisi libica, ha ragione Mario Sechi: «Siamo di fronte a un decadimento delle leadership e a una quanto mai improvvisata e dilettantesca gestione dell'agenda internazionale».

Gli ultimi sviluppi in Libia dimostrano che c'è una nuova ideologia da abbattere in Occidente: il multilateralismo. E che quando l'America esercita la sua leadership, gli altri Paesi si accodano. Quando invece rimane inerte, il mondo diventa un posto più pericoloso.

Nonostante l'inedito e preziosissimo via libera della Lega araba, nessuno farà nulla mentre Gheddafi schiaccerà i ribelli e potrà cantare vittoria - unico leader arabo ad aver umiliato l'Occidente. A Washington c'è un re-tentenna le cui parole altisonanti valgono ormai come un dollaro bucato. Si è capito che la Merkel decide in base alle scadenze elettorali, sulla sospensione delle centrali così come sulle ipotesi di intervento in Libia. Francia e Gran Bretagna sono più interventiste ma solo a parole, senza un mandato dell'Onu e soprattutto - si ha l'impressione - senza Washington, non muoverebbero mai un dito. La Russia a mio avviso dopo il voto della Lega araba sarebbe stata pronta a chiudere un occhio, ma trovata la sponda tedesca e le incertezze americane ne ha approfittato.

L'Italietta si barcamena, non vuole bruciarsi l'ultimo filo di rapporto con Gheddafi nel caso - ormai quasi certo - che il raìs riconquisti il Paese e che la comunità internazionale dopo tanti esercizi di multilateralismo non muova un dito. Non so se per un colpo di fortuna o per capacità d'analisi, ma alla fine tocca ammettere che il governo italiano ci ha visto lungo nel mantenere un atteggiamento prudente, forse prevedendo che non ci sarebbe stato alcun intervento internazionale e che Gheddafi sarebbe rimasto al potere, quindi meglio non esporsi. Diciamo che è stato il miglior modo di arrendersi agli eventi e ai non eventi, ma certo non il migliore per tutelare i nostri interessi in Libia.

Friday, March 11, 2011

L'Italia si autoesclude

Il dado è tratto. Ci siamo autoesclusi. Per mancanza di leadership o per comodità - probabilmente per entrambe le cose - Obama preferisce lasciare la guida sulla crisi libica agli europei, come ha scritto ieri il Washington Post. Il protagonismo interessato di Parigi e Londra. Italia scalzata, solita ignavia e solito patetico doppiogiochismo.

La Francia è il primo Paese europeo che ha riconosciuto il Consiglio provvisorio degli insorti libici e Sarkozy oggi a Bruxelles chiederà al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Ue di fare altrettanto. Più che una no-fly zone proporrà bombardamenti mirati contro il regime di Gheddafi. Non ritiene opportuno che a intervenire sia la Nato, né che una vera e propria no-fly zone sia lo strumento appropriato. Meglio una coalizione di "volonterosi" europei, guidata da Francia e Regno Unito, per bombardamenti aerei mirati e limitati: distruggere il bunker di Gheddafi e neutralizzare i tre aeroporti da cui partono le sue operazioni. E probabilmente ha ragione. Sulla stessa linea il premier britannico David Cameron. E' così che Francia e Gran Bretagna lanciano la loro Opa sulla nuova Libia e, quindi, sullo sfruttamento delle sue risorse naturali. E come osserva Il Foglio, «Sarkozy ne approfitta per rifarsi una verginità araba, dopo i disastri della sua diplomazia in Tunisia e Egitto».

Finalmente europei con le palle, mentre l'Italia cagasotto resta a guardare mentre le sfilano di mano il posto di prima fila occupato fino ad oggi in Libia. Un esito che nonostante tutta l'"amicizia" tra i nostri governi (dagli anni '70 in poi) e Gheddafi non era affatto scontato, bensì non è altro che l'inevitabile conseguenza della nostra miopia, ma soprattutto, credo, della nostra codardia, che ci spinge anche in queste ore ad adottare una strategia attendista e doppiogiochista. Il retropensiero che traspare, infatti, dalle dichiarazioni governative, è il seguente: se Gheddafi restasse al potere, l'Italia ne ricaverebbe un ruolo. Sono calcoli della serva. Più che infondati, sfiorano il ridicolo. In effetti, come hanno spiegato al Congresso Usa i vertici dei servizi segreti, alla lunga l'apparato militare di Gheddafi potrebbe prevalere sugli insorti, peggio equipaggiati, addestrati e organizzati. Ma è uno scenario che a questo punto è anche nel nostro interesse scongiurare ad ogni costo, perché se davvero il Colonnello riuscisse a restare al potere, sarebbe per poco tempo, il prezzo sarebbe così alto che sarebbe improponibile restaurare relazioni "normali", il Paese sarebbe comunque altamente instabile e quindi insicuro per qualsiasi investimento e, infine, non è affatto scontato che il «cane rabbioso» ricompenserebbe la nostra ambiguità. Questi sono giochetti da fine '800, che nella diplomazia contemporanea irritano tutte le parti in gioco.

Eppure, l'impostazione uscita dal Consiglio supremo di Difesa, presieduto da Napolitano, sembrava andare nella giusta direzione, parlando non di basi e missioni umanitarie, ma di un'Italia «pronta a dare il suo attivo contributo alla migliore definizione ed alla conseguente attuazione delle decisioni» delle Nazioni Unite, dell'Unione europea e della Nato. Ma come osserva correttamente Mario Sechi su Il Tempo, da noi si parla della crisi libica in uno «scenario da questura e non d'ambasciata e centro di comando aero-navale. Non a caso il ministro più loquace e attivo in questa vicenda appare quello dell'Interno, Roberto Maroni, mentre il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sembra impegnato da un lato ad assecondare i timori di Berlusconi sui contraccolpi per la caduta del regime di Gheddafi, dall'altro deve fare i conti con la Lega, la cui visione del mondo su questa vicenda sembra purtroppo cominciare e finire a Varese». Ma non diamo troppe colpe alla Lega, isolazionista per definizione e da sempre, qui a mancare è Berlusconi, che pure in passato aveva dimostrato di saper tenere saldamente in mano le redini della politica estera.

Naturalmente la strada dell'Onu è quella maestra, ma la Francia si dice pronta ad agire da sola «se necessario» ed è quanto basta ad assumere la leadership in una situazione paradossale, in cui tutti dicono che è finita la stagione del regime Gheddafi, ma nessuno si prende la responsabilità di decidere come tradurre in azione questa dichiarazione e nessuno, in Europa, sembra rendersi conto che ripetere questa sentenza e poi essere smentiti dalla realtà senza far nulla di concreto fa perdere drammaticamente credibilità. Tra l'altro, le chance che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu autorizzi una no-fly zone, o un generico uso della forza in base al capitolo VII della Carta, non sembrano del tutto azzerate questa volta. Non so se sono io ad avere le traveggole, nessun giornale l'ha riportato, ma mi pare che il ministro degli Esteri russo Lavrov ieri non abbia chiuso del tutto le porte ad una no-fly zone autorizzata dall'Onu:
«We hear talk about the idea of creating a no-fly zone in Libya. ... Such zones have been deployed in the past by the Security Council and we already have certain experience in the ways they function. So if such proposals emerge, we will naturally study them based on existing experience. And this will probably require more precise and detailed information about how the authors of these proposals expect to implement them in practice».
Ieri l'Unione africana ha espresso la sua contrarietà a qualsiasi intervento militare, ma la sensazione è che le decisioni in proposito della Lega araba potrebbero essere diverse e risultare decisive rispetto alla posizione di Mosca. E comunque a Washington, Parigi e Londra ormai si comincia a dare più importanza ad «un forte sostegno regionale» che ad un mandato del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

Tuesday, October 20, 2009

Dove vuole arrivare il "compagno" Tremonti?

L'impressione è che stavolta Tremonti abbia davvero esagerato con la sua ultima provocazione anti-mercatista, addirittura la "riabilitazione" del posto fisso. Come mi pare fece con Fini, a questo punto Feltri dovrebbe candidare anche Tremonti alla leadership del centrosinistra. Questa volta però non tutti i ministri sono rimasti in silenzio in nome della compattezza e dell'armonia nell'Esecutivo. E anche nel partito gli scontenti per le uscite schiettamente socialdemocratiche del ministro dell'Economia - pur ammettendo che le sue politiche finora sono rimaste fiscalmente responsabili, il che non era scontato in un Paese come l'Italia, durante una grave recessione - si sentono finalmente autorizzati ad uscire allo scoperto.

Non manca chi ha esteso la critica a Tremonti ben oltre la restaurazione del mito del posto fisso. «Tremonti dà una risposta per l'uscita dalla crisi che io non condivido. Tornare indietro è più facile, ma non risolve i problemi. Bisogna cambiare occhiali per capire come è fatto il nuovo mondo. Non si deve aver paura». Sembra una critica complessiva, per esempio, questa di Brunetta in un'intervista a la Repubblica. Come sapete, è anche la posizione di questo blog: «Abbiamo vissuto la stagione del lavoro atipico come estrema conseguenza dell'egoismo del lavoro tipico, dell'egoismo degli insiders contro gli outsiders. Tutte le garanzie ai primi, protetti dal sindacato, tutte le flessibilità scaricate orribilmente sui secondi privi di rappresentanza».

Ma la soluzione non può essere quella di far diventare gli outsiders degli insiders, perché il sistema non sarebbe in grado di sopportarne i costi. La proposta di Brunetta è di «spalmare le esigenze di flessibilità su tutte le forze lavoro occupate. So bene quanto sia delicato questo argomento, basti pensare agli scontri, tra riformisti e conservatori, intorno all'articolo 18». Tremonti, invece, «vorrebbe una nuova società dei salariati. Solo che questa non risponde alle esigenze di flessibilità che pone il sistema. La sua è una soluzione del Novecento che non va più bene in questo secolo».


«Le garanzie non devono derivare da un posto di lavoro, ma dalla propria professionalità, dal proprio essere azionisti dell'attività produttiva. Bisogna provare, anche se mi rendo conto di essere un po' utopista, ad adattare le regole del mercato del lavoro a quelle della Rete, perché è questa la novità di quest'epoca. La novità è Internet, è l'intelligenza che produce senza capitali».
Va bene lavorare «per dare posti di lavoro più duraturi», osserva un altro ministro, Sacconi, a Mattino5, ma «questo non si ottiene con norme vincolanti bensì permettendo ai lavoratori di affermare le proprie competenze». E i finiani mostrano di sentire la concorrenza di Tremonti per il dopo-Berlusconi. «La cultura del posto fisso è uno dei mali del Mezzogiorno che i giovani dovrebbero contrastare per essere liberi dallo statalismo e dalle clientele politiche che nei decenni passati hanno caratterizzato il mercato del lavoro», osserva Italo Bocchino, deputato Pdl vicino al presidente della Camera: «Quello di cui c'è veramente bisogno è una formazione professionale vera, capace di introdurre i giovani nel mercato del lavoro e di garantire quella professionalità utile a competere».

Alberto Alesina, intervistato da Il Foglio, comprende il ragionamento di Tremonti e rispetta le sue categorie di pensiero. Certo, la stabilità sociale, anche durante questa grave recessione, ha contribuito alla tenuta del Paese, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze delle nostre scelte. Far prevalere la stabilità del posto fisso presenta dei costi non irrilevanti, e non solo per le imprese. I costi maggiori, anzi, li sopportano proprio i lavoratori: scarsa produttività, quindi un salario più basso e un reddito pro capite inferiore a quello di altri Paesi:

«Non possiamo avere tutto insieme, la piena occupazione con posto stabile, il salario più alto, la crescita più rapida. Il risultato probabile, al contrario, è che aumenterà la frattura tra chi il posto ce l'ha e se lo tiene stretto e chi non lo avrà mai. Una società in cui chi ha un lavoro garantito (e per lo più sono uomini adulti) dovrà mantenere i figli per un numero elevato di anni. Una società a un tempo statica e divisa».
Salari alti, redditi alti, posto fisso e piena occupazione è «un'equazione che non funziona».

Come osserva Dario Di Vico, sul Corriere, l'uscita di Tremonti «spiazza la sinistra», mira dal punto di vista comunicativo, come già sta accadendo da alcuni mesi, a mettere il Pd in un angolo, facendo rientrare nel Pdl entrambi i poli del dibattito politico-culturale che si svolge sui principali temi, dall'immigrazione al lavoro:

«Inneggiando al posto fisso e sbeffeggiando la mobilità sociale, Tremonti non pare avere intenzione di capovolgere la linea di politica del lavoro del governo Berlusconi. Giacché dovrebbe rivoltare la filosofia della riforma della pubblica amministrazione del collega Renato Brunetta, sconfessare il ministro Gelmini, chiedere la cancellazione della legge Biagi e fare una buona provvista di euro per assumere, come Stato, tutti i precari della scuola, delle Poste, della Rai, dell'Istat, dell'Isfol, della Croce Rossa, dell'Istituto superiore di sanità e via di questo passo».
Una «sortita», quella di Tremonti, che va circoscritta quindi «al mondo dei simboli e delle querelle politico-culturali».

E' vero che dal punto di vista comunicativo può rivelarsi un vantaggio per il Pdl riassumere al proprio interno un ampio spettro di posizioni su vari temi polarizzanti (stato e mercato, laicità, immigrazione-integrazione, rapporto tra istituzioni). In condizioni normali, la confusione che si genera nel profilo politico-programmatico della coalizione avvantaggerebbe l'avversario. E' pur vero che non siamo in condizioni normali, finché l'opposizione rimane nello stato di irrilevanza e di totale mancanza di credibilità nel Paese in cui è, ma non bisogna comunque esagerare, fino a porre in discussione l'identità e le basi politico-culturali su cui una moderna politica economico-sociale di centrodestra dovrebbe fondarsi.

Stando a quanto riporta questa mattina Mario Sechi, su Libero, il Pdl comincia a ribollire di sentimenti anti-tremontiani. «Non siamo al Giulio contro tutti, né al ritorno della notte del 3 luglio 2004, quando il ministro fu costretto dalla tenaglia An-Udc a lasciare l'incarico», scrive Sechi, ma ormai si dubita sempre di più che la politica economica del ministro Tremonti sia in grado di garantire all'Italia un tasso di crescita sostenuto e soddisfare le aspettative delle «categorie di riferimento». Per questo, rivela Sechi, «negli uffici del partito si stanno ultimando le bozze di due documenti riservati, a esclusiva circolazione interna, che fanno un punto-nave politico e cercano di dare una risposta economica alle richieste che vengono dalla Confindustria, dal mondo delle imprese e delle partite Iva, dal Viminale e le forze dell'ordine, dalla stessa Banca d'Italia». Leva fiscale e riforma delle pensioni le due idee «fulcro» dei due documenti, certamente «non tremontiani».

Il ministro è convinto, sia per ragioni di bilancio (assolutamente condivisibili), sia per la sua filosofia politica (meno condivisibile), che nella società di oggi la domanda di stabilità e sicurezza sia prevalente su tutte le altre. Ma Tremonti sbaglia a sottovalutare il tema "tasse", che da almeno due secoli non manca di infiammare i popoli di ogni latitudine.

Friday, October 03, 2008

McCain-Palin vincono in tv, ma perdono la campagna

Non ho visto il dibattito di ieri notte tra i due candidati alla vicepresidenza Usa, ma pare che l'abbia vinto Sarah Palin, stando ai post di Mario Sechi e Andrea Mancia. Se non altro perché i mainstream media hanno propagandato della Palin un ritratto troppo brutto per essere vero.

Ignorante, provinciale, impreparata. Animati da pesanti pregiudizi urban radical chic, i grandi giornali e i grandi network televisivi hanno di fatto aiutato la Palin, creando sulla sua performance televisiva aspettative così basse che alla candidata è bastato evitare tecnicismi e concentrarsi su messaggi semplici e concisi per rendersi credibile e presentabile. La Palin è apparsa diversa quanto basta rispetto a come i media la dipingevano, mentre Biden non è ancora chiaro se sia o no impagliato.

Maria Laura Rodotà, che oggi sul Corriere ha firmato un imbarazzante (per lei) articolo sul dibattito ("Svelato il segreto della cofana di Sarah Palin", il titolo), viene sistemata a dovere da Bazarov, senza null'altro da aggiungere.

Nonostante il ticket repubblicano si sia ben comportato nei due dibattiti televisivi tenuti fino ad oggi, la crisi finanziaria rischia di rendere inutile qualsiasi sforzo. Quasi impossibile che vinca il candidato del partito del presidente in carica mentre l'America è in pieno panico finanziario e sull'orlo della recessione. Obama può permettersi di restare immobile e appiattirsi sul piano di salvataggio approvato stasera dal Congresso, ma McCain deve prendere iniziative forti, indipendenti più che bipartisan. Forse s'illude che il piano possa portare ristoro al sistema finanziario a tal punto da far passare in secondo piano la crisi almeno in queste ultime settimane di campagna. Il rischio è che invece, dopo qualche giorno di calma, altri fallimenti siano inevitabili, accompagnati dalla recessione.

Friday, January 04, 2008

Anche il centrodestra avrà la sua Rifondazione

«Rifondazione nazionale», l'ha ribattezzata il vicedirettore Mario Sechi. Niente di più calzante, se i caratteri della nuova Alleanza nazionale - Alleanza per l'Italia - saranno davvero quelli anticipati su Panorama.

Dalla bozza del documento politico in preparazione per la conferenza programmatica fissata dall'8 al 10 febbraio a Milano, emerge una An che «guarda al futuro» con le risposte del passato.

Critica della globalizzazione e politiche protezionistiche in economia. Va riscoperta «una cultura dell'interesse nazionale». Sul banco degli imputati quelle nazioni che «fanno shopping di aziende e industrie» italiane, ponendo «un problema di difesa degli interessi strategici economici nazionali».

Su tutti i temi etici, dal testamento biologico alle coppie di fatto, fino all'omosessualità, le posizioni sono quelle del Vaticano. «C'è chi dirà che si tratta di un passo indietro rispetto alla visione laica e moderna del partito modellato da Fini. Forse non è così, ma certo un ritorno ai temi più in linea con il motto "Dio, patria, famiglia" è evidente e avrà un peso decisivo nelle prossime scelte di An in Parlamento», osserva Sechi.

Anche per quanto riguarda le tasse, il partito della spesa pubblica sul lato destro sta bene accorto. Riduzione sì, ma solo verso i redditi medio-bassi e le famiglie, con la proposta di introduzione del quoziente familiare.

Per quanto riguarda il problema della casa, An riscopre l'intervento diretto dello Stato: «E' necessario non solo finanziare l'edilizia economico-popolare, ma lanciare una vera politica di housing sociale che metta a disposizione case con affitti controllati per il ceto medio».

Insomma, conclude Sechi, «a leggere la bozza in corso d'opera, sono proposte molto più vicine a quelle di un partito di sinistra che di centrodestra». E se nel frattempo non interverrà una legge elettorale maggioritaria e almeno tendenzialmente bipartitica, difficilmente Berlusconi potrà rispolverare in modo attendibile e convincente il suo volto liberale e liberista, dovendo fare i conti con una "Rifondazione" di centrodestra come minimo al 10%.

Sunday, June 10, 2007

Patetiche e marginali le manifestazioni anti-Bush

Non più di 10-15 mila al corteo "No War", dove "Prodi = Bush". In piazza del Popolo 50, 100, 200. Questo l'ordine di grandezza dei presenti al «presidio» per "L'altra America", convocati da tre partiti di governo: Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi.

Se un dato politico si può trarre dalle manifestazioni di ieri contro Bush è che pur essendo fenomeno diffuso l'antiamericanismo nel nostro paese, rispetto a qualche anno fa oggi la quantità di italiani che ritengono di scendere in piazza per la "pace", contro la politica americana, si è assottigliata fino all'irrilevanza. Una triste marginalità ben descritta da questo articolo di Aldo Cazzullo.

«Alle tre e mezzo c'era più folla intorno al presidente emerito che sotto il palco», ironizza Luca Telese su il Giornale, che si riferisce al gelato "americano" preso proprio a piazza del Popolo dall'ex presidente Cossiga, che in mattinata dalle finistre del suo appartamento in Prati aveva esposto ben cinque bandiere: americana, britannica, israeliana, italiana, sarda.

Anche Pannella insiste con la sua versione di "Altra America", che si riconosce in Lincoln, Martin Luther King e Ike Eisenhower. Nomi che secondo il leader radicale dovrebbero far riflettere Bush. Avevamo già invitato Pannella, invece, a riflettere e a leggere un po' di stampa in lingua inglese.

Per quanto riguarda il bilancio politico della visita del presidente Bush in Italia e dei suoi incontri con Napolitano e Prodi, Maurizio Molinari osserva che «a prevalere sono stati i dossier che consentono ai due leader di operare in sintonia e in tempi stretti» (clima, interdipendenza globale, Kosovo e Libano), mentre sono rimasti «sullo sfondo i dissensi su Afghanistan, Iraq, Abu Omar e Calipari».

«Un nuovo inizio», lo ha definito Molinari, nei rapporti tra Prodi e Bush, «apparso convinto dell'esistenza di un'agenda compatibile con il governo italiano nel lungo termine».

Simile la lettura di Augusto Minzolini: «Il primo comandamento della diplomazia prevede che quando non si è d'accordo su un argomento, è meglio accantonarlo». E' quello che hanno fatto Bush e Prodi. Obiettivo della diplomazia Usa era «attutire», «rammendare». E «con George W. che in queste commedie è un vero mattatore».

Il rapporto tra Bush e Prodi «non è quello della pacca sulle spalle, ma la classica amicizia che secondo il protocollo diplomatico debbono dimostrare i capi di governo di due Paesi alleati, specie se hanno litigato da poco». Un'«amicizia diplomatica», appunto, mentre quella che unisce Bush e Berlusconi è «vera, personale, non fosse altro perché i due si piacciono. Parlano lo stesso linguaggio e quasi sempre la pensano allo stesso modo».

Ma il sigillo che ha colto l'aspetto più rilevante dei buoni rapporti ostentati sia da Bush che da Prodi l'ha messo Mario Sechi: «Ogni volta che George Bush gli dava una pacca sulla spalla, Romano Prodi perdeva voti dalla tasca della giacca», sfotte. E, aggiungiamo noi, gli si vedeva bene una ruga di paura sul viso. «Dopo le urne, anche le piazze, care al centrosinistra, si sono svuotate», osserva Sechi, mettendo il dito proprio là dove più duole alla classe dirigente della sinistra italiana, «in larghissima parte figlia del Sessantotto», che può «abbandonare perfino il controllo delle istituzioni, ma non può permettersi di perdere quel consenso popolare che le ha consentito di perpetuarsi, credere di essere nel giusto e perseverare nei propri errori».