E' stato un weekend di pura follia quello che si è appena concluso. Con Frattini che se ne esce con l'idea malsana di un bonus in denaro per convincere i clandestini a rimpatriare, che di tutta evidenza non farebbe altro che alimentare il commercio di essere umani su cui prosperano le organizzazioni criminali; il centrodestra al governo e i giornali ad esso vicini (con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi) che continuano a trattare la crisi libica come un'emergenza immigrazione e poco più (quando a tutt'oggi i grandi esodi paventati non si sono visti) e, ancor più patetico, ad esercitarsi in complottismi e vittimismi, quando è evidente che Parigi e Londra, ciniche quanto si vuole, stanno solo perseguendo il loro interesse nazionale; e in ultimo le opposizioni, che immancabilmente si dimostrano capaci solo di strumentalizzazioni sull'orizzonte ristrettissimo della politica interna.
Con rarissime eccezioni, insomma, un panorama politico e giornalistico davvero deprimente, mentre Gheddafi sta per cadere (i ribelli starebbero marciando verso Sirte, sua città natale), e Francia e Gran Bretagna giocano all'attacco la loro partita per l'influenza nel Mediterraneo, per riempire cioè quel nuovo promettente spazio geopolitico apertosi con le rivoluzioni del Nord Africa. Dovremmo chiederci perché noi non solo non riusciamo ad agire con la stessa determinazione ed efficacia, sembriamo ancora intontiti dalla tempesta che ha spazzato via il nostro comodo "posto al sole" in Libia, ma neanche discutiamo di come riprendercelo, quasi ce ne vergognassimo. Eppure, basterebbe partecipare attivamente, quanto francesi e inglesi, alle operazioni militari (abbiamo le forze e le capacità operative per farlo) e sfruttare al meglio qualcosa che loro invece non hanno: i nostri contatti, la nostra conoscenza sul campo, la nostra buona immagine.
Invece, stiamo lì a rimuginare, a piangerci addosso, ad aspettare un'improbabile «fase di mediazione» che dovrebbe farci tornare protagonisti, sottolineando in questo modo noi stessi il ruolo di secondo piano dell'Italia. Se chiedere «l'immediato cessate il fuoco» quando Gheddafi sembrava stesse per sferrare l'attacco finale su Bengasi aveva un qualche senso, è ridicolo farlo oggi, quando può essere scambiato per un modo di correre in aiuto del Colonnello stretto in una morsa (ribelli e raid) che sembra inesorabile, anche se lenta. Il nostro governo vaneggia di «mediazioni», «dialogo», «riconciliazione nazionale», mentre il raìs sta ancora combattendo ed è chiaro a tutti che venderà cara la pelle, altro che esilio... Certo, prima o poi occorrerà avviare un dialogo fra le tribù, un lavoro di riconciliazione, ma solo dopo che sarà caduto Gheddafi. Affannarsi tanto ora ricopre di un alone di ambiguità le nostre intenzioni, si potrebbe pensare che pretendiamo o che crediamo possibile «riconciliare» i ribelli con il tiranno e viceversa.
Siamo riusciti, è vero, a togliere a Sarkozy il monopolio del palcoscenico, ma ormai gli effetti che l'intervento alleato doveva determinare sul campo si sono verificati. Insomma, la Nato sembra intervenire se non a cose fatte, di certo molto ben avviate, e i ribelli sanno bene chi è intervenuto per primo e in modo decisivo in loro soccorso, nell'ora più drammatica. Pensare che ci lasceranno condurre le danze del dopo-Gheddafi, dopo che siamo rimasti in secondo piano negli sforzi per cacciarlo, è pura utopia consolatoria. Tant'è che alla nostra vera o presunta «soluzione diplomatica» avanzata da Frattini (di sponda, pare, con Germania, Russia e Turchia) già se ne contrappone un'altra, vera o presunta anche questa, elaborata da Parigi e Londra (almeno così dice il ministro degli Esteri francese Juppé). Sarà dura recuperare sulla nuova Libia l'influenza che avevamo, ma quand'è che iniziamo a giocare da duri?
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