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Thursday, July 27, 2017

EnMarche! Sul cadavere dell'Italia

Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur

Fine dei giochi, secondo schiaffone all'Italia in tre giorni... Il "liberale" ed "europeista" Macron ha deciso di nazionalizzare STX piuttosto che farla guidare a Fincantieri. Europa? Mercato? Belle parole, poi c'è l'interesse nazionale... "Il nostro obiettivo è difendere gli interessi strategici della Francia", ha spiegato il ministro dell'economia francese Bruno Le Maire. Non si tratta di cattiveria, ma all'Eliseo evidentemente non si fidano del nostro sistema-Paese. Oppure, sarà colpa del "protezionista" Trump??

Già come Italia non contavamo molto, ma dal 2011, dalla chiamata dello straniero e dai governi di inetti che sono seguiti, ci hanno azzerati completamente, ci stanno massacrando, ma i nostri governi non l'hanno ancora capito e continuano a parlarsi addosso.

O forse l'hanno capito un paio di giorni fa, e sono ancora storditi. Martedì all'Eliseo si sono incontrati i due principali rivali sul futuro della Libia, al-Serraj e Haftar, invitati dal presidente francese Macron, che ha preso in mano le redini del processo dopo aver probabilmente ricevuto via libera da Trump e da Putin (invitati anch'essi a Parigi in rapida successione). Blitz Macron, Italia fuori dai giochi. "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur". La storia di come ci siamo di fatto auto-esclusi è ancora da scrivere. Ma si può azzardare qualche ipotesi... Indecisi a tutto, timidi, siamo andati in crisi con al Sisi cadendo nella trappola Regeni, troppi complessi - che Macron non ha avuto - nel parlare con i "cattivoni" Trump e Putin... eccetera...

E ora il presidente francese annuncia anche gli hotspot in Libia (idea poi parzialmente smentita: non subito), di cui si discute, anzi si chiacchiera da anni in Italia ovviamente senza concludere nulla. Mentre il governo italiano si occupava di migranti come una qualsiasi ONG, Macron ha semplicemente fatto politica. Non è un nostro "nemico", fa gli interessi francesi mentre noi quasi ci vergogniamo di averne.

Non provino nemmeno Gentiloni, Alfano e Renzi: non c'è modo per ridimensionare gli schiaffoni presi da Macron. Possono solo tacere e, se possibile, sparire. Per tentare di parare il colpo ora sono pronti a inviare le navi della marina militare in Libia... Dopo che per anni hanno detto che non si poteva e ridicolizzato chi lo proponeva. Pagliacci!

Sarà chiaro adesso cosa significa EnMarche! Il primo cadavere su cui Macron è passato sopra marciando, cantando la Marsigliese e sventolando la bandiera francese, non quella europea, è quello dell'Italia. Macron ha effettivamente "salvato l'Europa", intesa come burocrazia europea, ma si sta muovendo come se l'Ue non esistesse, agisce senza nemmeno avvertirla. E ha ragione: l'Europa sui temi e le crisi internazionali non esiste. Non esiste un interesse europeo. Esistono interessi francesi, tedeschi, italiani (sebbene non ce ne curiamo). Tutti legittimi.

Friday, July 21, 2017

Senza pudore

Per anni i migranti (non aventi diritto ad alcun asilo) ce li siamo andati a prendere davanti alle coste libiche in barba a qualsiasi regola e buon senso, praticamente un'invasione autoinflitta. Ora pretendiamo che se li accollino quota parte anche gli altri paesi europei e siccome si rifiutano, in nome dell'interesse nazionale ma anche soprattutto europeo, li minacciamo con la "proposta Bonino-Soros" dei 200mila visti... Poi non lamentiamoci dei luoghi comuni sugli italiani eh!

La pretesa italiana di "relocation" anche dei migranti illegali che si è messa in casa da sola è surreale. È contro ogni regola, logica e interesse non solo nazionale ma della stessa Unione europea che rischia la disgregazione. E anziché coltivare buoni rapporti con i Paesi dell'Est, per non subire troppo l'asse franco-tedesco, rompiamo... Resteremo i valletti di Parigi e Berlino.

Che poi, il direttore dell'INPS un po' di pudore dovrebbe averlo a sbandierare che i contributi di oggi servono a pagare le pensioni di oggi. Sappiamo tutti che è così, non solo per i contributi degli stranieri. Ma saperlo è un conto, che il direttore dell'INPS quasi se ne vanti... soprattutto nei confronti di lavoratori stranieri che probabilmente non vedranno mai una pensione, è come vantarsi di una rapina... Bella considerazione degli immigrati che hanno questi professorini...

Thursday, July 06, 2017

L'Italia è un pericolo per sé, per gli altri e per l'Europa

Fallimentare il vertice di Tallinn per il governo italiano, ma sui siti della stampa mainstream la notizia è già affossata. In soccorso arriva la scoperta del Cern...

Il problema non è che l'Europa nega "solidarietà" all'Italia, ma che l'Italia insista con politiche dannose per sé, per gli altri e per l'Ue.

La chiusura dei partner europei all'Italia sulla crisi dei migranti è nel loro interesse nazionale, pensano molti, ma in realtà questo è uno dei pochi casi in cui interesse nazionale ed europeo coincidono. Condividere la dissennata politica dei governi italiani sui migranti sarebbe suicida per l'Ue, porterebbe alla disgregazione. È l'Italia che ahimé non riesce a fare né i propri interessi nazionali né quelli dell'Europa e nemmeno se ne rende conto...

Monday, July 03, 2017

Italia isolata in Europa sull'emergenza migranti

Hanno ragione Francia, Spagna e Austria, che non sono certo governate da pericolosi estremisti... E torto l'Italia, che sull'emergenza migranti, per lo più autoinflitta, non rispetta leggi e regole, e soprattutto i suoi cittadini

Praticamente, ieri sera al vertice di Parigi sull'emergenza migranti, Francia Germania e Italia hanno adottato il "piano Zuccaro" sulla condotta delle ong. Le prove dovevano essere proprio convincenti...

Se tra i punti dell'intesa sul protocollo di condotta delle ong c'è 1) il divieto di entrare in acque libiche; 2) il divieto di spegnere i trasponder a bordo; e 3) il divieto di lanciare segnali luminosi verso la costa libica, vuol dire che al momento un numero non irrilevante delle navi delle ong fanno esattamente queste tre cose: entrano in acque libiche, spengono i trasponder e lanciano segnali luminosi ai trafficanti. E questo non è soccorso...

Prima, anzi fino a ieri, non c'era nemmeno un'emergenza, era un fenomeno ineluttabile a cui abituarsi, vi dicevano. D'un tratto, nell'arco di un weekend, il fenomeno è diventato "ingestibile", tanto da dover chiudere i porti... E il problema è l'Europa? Qualcosa non torna...

L'emergenza migranti (come il debito pubblico e la nostra interminabile crisi economica) è per lo più autoinflitta, abbiamo incoraggiato il business per anni. Più siamo andati a prenderli vicino alle coste libiche, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Non ci voleva un genio per capirlo... Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme - tratta di essere umani - e in questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti. Anche il New York Times è xenofobo e razzista??

Certo, la crisi generata dal caos libico (grazie Obama, Clinton, Sarkozy, Cameron), ma è stata aggravata dalle politiche dissennate dei governi Letta e Renzi. Profughi una estrema minoranza, sulle nostre coste arrivano da sempre migranti economici, che spesso non fuggono nemmeno da una condizione di miseria assoluta: leggere queste scomode verità. Di quelli nessuno in Europa ne voleva e ne vuole sapere. Abbiamo ancora la nostra sovranità, i nostri confini e gli strumenti per farli rispettare. È una questione di volontà politica nostra, non di chiedere permessi o aiuti a Bruxelles. Tirare in ballo - ora - l'Ue serve solo a cercare di coprire le responsabilità di chi c'è e di chi c'era al governo...

La realtà è che si sono finalmente accorti che la politica dell'accoglienza è alla lunga insostenibile, che sull'immigrazione senza limiti hanno perso consensi (referendum e amministrative), e ora che le politiche sono dietro l'angolo, et voilà, il "blocco" non è più xenofobo, razzista, disumano. Però per giustificare il cambio di linea prendono come alibi presunte inadempienze dell'Ue. Cialtroni. Ipocriti. Codardi.

E' un gioco delle parti. La relocation riguarda i rifugiati, un'estrema minoranza di quanti arrivano in Italia. Al di là delle pacche sulle spalle, la posizione dell'Ue è chiara da tempo (ed è la più ovvia): identificazione e rimpatri (e aiuti in Africa). Se poi il governo italiano vuole accogliere tutti, problemi suoi. Al massimo uno sconticino sul deficit. Il governo italiano lo sa bene, ma continua a lamentarsi con l'Ue che "non ci aiuta" per giustificare all'opinione pubblica la crisi e il cambio di linea. Poi ci sarebbe il tema Libia, ma l'Ue non esiste (per una soluzione bussare a Washington e Mosca), ogni nazione fa i suoi interessi. Anche questa non è una novità...

Il presidente francese Macron ha il merito di aver detto le cose come stanno, mentre dagli altri solo ipocrisia. "La Francia deve fare la sua parte sull'asilo di persone che vogliono rifugio. Poi c'è il problema dei migranti economici, e questo non è un tema nuovo: l'80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici (dati Viminale, ndr). Non dobbiamo confondere". E questa è la vera posizione di tutti i paesi. Solo in Italia si è voluto confondere, per confondere i cittadini, e giustificare un'accoglienza indiscriminata. Ora arriva il conto, politico ed economico.

Tuesday, May 23, 2017

A Manchester come a Parigi... Drive Them Out

Attacco orribile e vile a Manchester... Non solo i leader arabi, anche quelli europei dovrebbero ascoltare bene: Drive them out!

Anche a Manchester come a Parigi... I terroristi islamici che colpiscono nelle nostre città sono quasi sempre stra-noti ai servizi di sicurezza e schedati. Il problema, dunque, non è di intelligence, ma di decisioni e volontà politiche. L'attuale strategia di sicurezza che si sta seguendo in Europa mostra tutti i suoi limiti. Individuare i soggetti cosiddetti "radicalizzati" e tenerli d'occhio non sempre riesce, bisogna decidere cosa farci: Drive them out or lock them up ("cacciare o rinchiudere gli estremisti").

Delle reti terroristiche in Libia che arruolano e addestrano jihadisti "europei", come Abedi, che poi tornano per colpirci chi dobbiamo ringraziare se non Obama e la signora Hillary Clinton, che tutti volevano presidente?

In Italia, finora immune da attentati dell'Isis o di al Qaeda, il combinato disposto della legge da poco approvata sui minori stranieri non accompagnati e di quella ancora da approvare sulla cittadinanza, che introduce lo "ius soli", è la ricetta giusta, e la più rapida, per avere anche in Italia tanti Salman Abedi. Basta saperlo...

Thursday, May 04, 2017

Ong né con lo Stato, né con i trafficanti

Il flusso di migranti non è un fenomeno così ineluttabile come ci è stato raccontato. Almeno non in questi termini e in questi numeri

Che ci siano stati o meno dei contatti, che svolgano la loro attività più o meno in buona fede e in modo trasparente, è ormai innegabile che il modus operandi delle Ong (e di "Mare Nostrum" prima), come emerso ormai inequivocabilmente dalle audizioni in numerose commissioni parlamentari, dai dati e dalle testimonianze, facilita il business dei trafficanti. Lo rende meno rischioso, meno costoso, quindi più redditizio, mettendo ancora più in pericolo invece le vite dei migranti. Questo è il tema da cui non si può sfuggire. Il flusso di migranti dalla Libia all'Italia non è un fenomeno così ineluttabile come ci è stato raccontato. Almeno non in questi termini e in questi numeri. Non è qualcosa di "epocale" e inarrestabile, né è indotto da un grande evento come una guerra o una carestia. Si tratta de facto di un corridoio "umanitario" (anche se gli aventi diritto all'asilo sono una esigua minoranza) messo in atto da organizzazioni private che i governi italiano ed europei subiscono e di cui i trafficanti approfittano.

Il tema precede e prescinde le più o meno opportune uscite di Zuccaro. Non c'è bisogno di provare profili penalmente rilevanti per concludere che l'attuale politica, che di fatto consegna i nostri confini nelle mani delle ong, è completamente folle e autolesionista.

E se le Ong, come hanno spiegato durante le audizioni parlamentari, respingono come inaccettabile la proposta di ospitare ufficiali di polizia giudiziaria a bordo per investigare, ed eventualmente individuare gli scafisti, evidentemente la loro agenda va oltre il semplice soccorso in mare e salvare vite. Non solo non prevede, ma è indifferente rispetto all'obiettivo di fermare i trafficanti e una precisa condotta criminale che si chiama "tratta di essere umani". Né con lo Stato, né con i trafficanti, sembra essere il loro motto (vi ricorda qualcosa e qualcuno?). Ok, però non si lamentino poi se qualcuno sospetta collusioni o complicità de facto.

Saturday, April 29, 2017

Corridoi umanitari poco umanitari

Il procuratore di Catania Zuccaro non è il solito magistrato di provincia "innamorato di protagonismo", né si diverte a infangare il buon nome delle ONG, ma come riporta oggi La Stampa lancia un allarme sulla base di prove reali che però non può usare processualmente. Non si tratta di illazioni. È ormai acclarato che proprio "Mare Nostrum", cioè andare a prendere i migranti davanti le coste libiche, ha fatto esplodere il fenomeno con meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, peggiori condizioni e più rischi per i migranti. Responsabilità dei governi italiani Letta e Renzi. Ora che sotto missione Ue è arretrato il raggio d'azione dei pattugliamenti, il "vuoto" viene colmato dalle ONG e i dati peggiorano ancora (sia arrivi che vittime). Di fatto siamo di fronte alla realizzazione di un corridoio umanitario (che come mostrano i dati tanto umanitario non è...), cioè un atto di politica estera e di difesa, da parte di privati. Il problema è politico e di sicurezza nazionale: è qualcosa che un governo può accettare?

Zuccaro non è né il primo né sarà l'ultimo dei magistrati italiani a non parlare solo con gli atti, una condotta diffusa quanto inappropriata, che però indigna a corrente alternata, e semmai a differenza di altri suoi colleghi finora ha evitato di imbastire processi e ordinare arresti eclatanti in mancanza di prove utilizzabili in dibattimento... A stupire però è la rapidità con cui un magistrato, se solleva ipotesi non "allineate" alla narrazione dei "benpensanti" di sinistra, finisce sotto la lente del Csm e la gogna dei sacerdoti del politicamente corretto.

"Sulla pelle dei migranti sta emergendo un ennesimo scandalo: il sospetto, che purtroppo non sembra totalmente privo di fondamento, di una manipolazione a fini economici e politici anche delle operazioni di salvataggio. (...) la paura che venga meno lo sforzo generoso di molti per il salvataggio dei migranti non deve portare a semplificare il problema negandone l'esistenza".
L'Osservatore Romano, non La Padania né il blog di Grillo...

Wednesday, April 26, 2017

Meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare

Trucco ormai smascherato: altro che Canale di Sicilia, davanti Tripoli non sono salvataggi, ma è un efficiente servizio di linea operato dalla benemerita joint venture ong-trafficanti. Cui prodest? E soprattutto, cosa impedisce al governo italiano di denunciare attività che ben poco hanno a che fare con scopi umanitari? Qualche struzzo in realtà (compreso il capo di tutti gli struzzi, Matteo Renzi) sta alzando la testa dalla sabbia... Il 19 aprile a Matrix l'ex premier si è finalmente fatto sentire ("non possiamo essere presi in giro da nessuno, né in Europa, né da ong che non rispettano le regole"), ma purtroppo solo dopo che si è fatto prendere in giro per anni. E che, su questo tema, ha perso il referendum della vita...

Qualche dato di fatto.
In audizione davanti alla Commissione Difesa del Senato, il responsabile di SOS Méditerranée conferma: migranti imbarcati a pochi chilometri dalla costa libica.

L'aumento dei mezzi di soccorso (delle ong) nel tratto di mare tra Italia e Libia è "paradossalmente" coinciso con l'aumento delle vittime (4.500 nel 2016, 2.800 nel 2015). Salvini? No, il direttore di Frontex.

Sempre il direttore di Frontex, non Salvini... "L'origine dei migranti è prevalentemente africana (in particolare dai paesi dell'Africa occidentale sub-sahariana, mentre è in diminuzione dal Corno d'Africa). Il profilo più ricorrente è quindi quello di migranti economici irregolari". Dunque, per l'ennesima volta, dalla Libia non arrivano profughi siriani, pochi dal corno d'Africa, quindi è ovvio che non funzioni la redistribuzione a livello europeo, che non vale per gli irregolari.

"Evidenze che tra alcune ong e i trafficanti di uomini che stanno in Libia ci sono contatti diretti", avverte il procuratore di Catania Zuccaro, ma come lui stesso avverte, il problema è politico.

Frontex 1: "E' chiaro che i trafficanti che operano in Libia stanno approfittando dell'obbligo internazionale di salvare vite in mare".

Frontex 2: Dall'inizio dell'anno "oltre 36mila migranti sono arrivati in Italia, partendo soprattutto dalla Libia. E' il 43% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso".

Frontex 3: dal 2014 è cambiato il modus operandi dei trafficanti libici. In particolare:
1) "l'area di ricerca e salvataggio è cambiata: mentre nel 2011 le barche che trasportavano i migranti arrivavano fino a Lampedusa e nel 2014 i salvataggi avvenivano a metà strada fra la Libia e l'Italia, nel 2016 e 2017 l'area di ricerca e salvataggio si è spostata al limite delle acque territoriali libiche";

2) "il numero di persone che viaggiano a bordo dei gommoni è aumentato: da circa 90 in media nel 2014 per imbarcazioni di 10 metri, nel 2016 e 2017 sono circa 170";

3) "la qualità dei materiali di cui sono fatte queste barche è drammaticamente peggiorata negli ultimi due anni";

4) "mentre nel 2014 la quantità di carburante era sufficiente per fare lunghi percorsi, ora basta appena a lasciare le acque territoriali libiche. Lo stesso vale per l'acqua da bere e il cibo";

5) "inoltre, recentemente abbiamo notato che i trafficanti tolgono i motori dalle barche quando vedono una nave di soccorritori nei paraggi, lasciando i gommoni pieni di gente alla deriva e in pericolo, per riutilizzare il motore per un altro viaggio".

Insomma, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme e con questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti.

Wednesday, April 05, 2017

Prime mosse dell'amministrazione Trump per rompere l'asse Russia-Iran-Turchia

Pubblicato su formiche

Le "cattive" opzioni sul tavolo dell'amministrazione Trump per affrontare la vera e propria "Idra a tre teste" in Medio Oriente (l'interazione Isis-Iran-Russia) ereditata dai disastri di Obama. E a chi giova la "strage chimica" di Assad


Il mondo lasciato in eredità all’amministrazione Trump da Barack Obama (e in parte dal suo primo segretario di Stato, Hillary Clinton) è un vero casino. Soprattutto il Medio Oriente, che lo storico Victor Davis Hanson, della Hoover Institution, ha paragonato ad una “Idra a tre teste” generata dagli errori delle amministrazioni Obama: il ritiro dall’Iraq nel 2011, il fallito “reset” nei rapporti con la Russia (sì, nel 2008 e nel 2012 era Obama che prometteva a Putin che sarebbe stato “più flessibile”) e l’accordo con Teheran sul programma nucleare. Dall’interazione nella regione tra il regime iraniano (con i suoi alleati siriani, Hezbollah e Assad), definito “primo sponsor del terrorismo al mondo” dal segretario alla difesa Usa Mattis, la Russia di Putin e i tagliagole dell’Isis, prende vita un “mostro” che lascia a Trump davvero poche opzioni, che vedremo più avanti.

Il primo problema è che il Medio Oriente sta scivolando, nemmeno troppo lentamente, sotto l’influenza di Mosca, grazie al “leading from behind”, in realtà il disimpegno di Obama, e i suoi fallimenti nelle guerre in Siria e in Libia, che hanno favorito la penetrazione strategica russa in entrambi i Paesi e nella regione. L’asse che Putin sta tessendo con Iran e Turchia punta a sostituire gli Stati Uniti e i suoi alleati sunniti storici come “dominus” del Medio Oriente. Se la stampa non fosse stata impegnata negli ultimi otto anni a celebrare la presidenza Obama come una serie di successi indiscutibili, oggi sarebbe l’ex presidente, e non Trump, sul banco degli imputati come inconsapevole benefattore di Putin, che proprio grazie agli errori e alla confusione di Washington ha conseguito negli ultimi anni successi militari e strategici insperati, dal Medio Oriente all’Europa orientale. Anche se nemmeno la Russia di Putin è immune dal rischio di restare impantanata nella trappola siriana, come dimostra l’attentato alla metro di San Pietroburgo.

Se confermata la responsabilità del regime di Damasco, l’uso del Sarin o di altri gas tossici su Idlib non fa che ricordarci la brutalità di cui è capace Assad e una delle tante beffe che Obama ha subito da Putin: l’accordo con la Russia sotto egida Onu, in seguito del quale dal 2014 Assad non avrebbe dovuto più possedere armi chimiche, era evidentemente scritto sulla sabbia. Quando nel 2012 l’amministrazione Obama non ha dato seguito alla sua “red line” contro l’uso di armi chimiche da parte di Damasco, è stato chiaro che non faceva sul serio in Siria e Putin ne ha approfittato. Ora in Siria, aviazione e “boots on the ground” russi collaborano da tempo con le forze armate del regime di Assad, con quelle iraniane e con gli Hezbollah. Ad Antalya si è svolto di recente un summit Russia, Iran e Turchia per coordinare le operazioni di guerra nel paese. Inoltre, è in programma l’ampliamento della base navale russa di Tartus, per far spazio a 11 navi da guerra. In Libia, Mosca sostiene l’unico vero esercito sul terreno, quello del generale Haftar, che controlla la maggior parte del territorio e le infrastrutture petrolifere della “Mezzaluna”. E, come hanno confermato fonti militari Usa e Nato, forze speciali russe sono presenti nella base egiziana di Sidi Barrani, a un centinaio di chilometri dal confine orientale con la Libia. Mosca inoltre sta rafforzando i suoi rapporti proprio con l’Egitto di Al Sisi: un accordo per il trasporto aereo civile, un accordo economico e industriale in discussione, una maggiore cooperazione nel settore energetico, con la compagnia petrolifera russa Rofsnet che sta negoziando la fornitura di gas liquido. L’obiettivo dell’incontro di Trump con il presidente egiziano Al Sisi, lunedì scorso alla Casa Bianca, è proprio rilanciare, in funzione della lotta al terrorismo e al radicalismo islamico, il rapporto con l’Egitto, raffreddatosi sotto Obama.

Ma è l’asse con l’Iran quello che desta maggiore preoccupazione a Washington, suggellato dalla visita della scorsa settimana del presidente Hassan Rouhani a Mosca (dopo quella del presidente turco Erdogan il 10 marzo scorso). Relazioni che da occasionali rischiano di trasformarsi in strategiche e che mostrano le superiori capacità di Putin nella scacchiera geopolitica rispetto alle controparti occidentali.

Si tratta della prima visita ufficiale del presidente iraniano a Mosca e del primo incontro con Putin in un vertice bilaterale e non a margine di un contesto multilaterale. L’incontro, a poche settimane dalle presidenziali iraniane del 19 maggio, non solo conferma la cooperazione Russia-Iran nel conflitto siriano, ma sembra l’avvio di una nuova, più solida fase nelle relazioni tra i due Paesi, decollate da quando l’accordo voluto da Obama sul nucleare iraniano ha portato al progressivo alleggerimento delle sanzioni contro Teheran. L’indicazione dell’Iran come uno dei tre “garanti”, insieme a Russia e Turchia, del cessate-il-fuoco in Siria denota il clima di fiducia reciproca sul dossier siriano, nonostante le differenze, e fa di Teheran – anche ufficialmente – uno degli attori in campo (della guerra e della futura pace). Ma la visita di Rouhani non solo aiuta i due Paesi a tracciare una road map condivisa sui prossimi passi in Siria, contribuisce anche a rafforzare l’asse Russia-Iran-Turchia e ad accrescere la sua rilevanza a livello regionale, a scapito degli Usa e dei suoi alleati.

I colloqui tra Rouhani e Putin vengono definiti “importanti e approfonditi”, su questioni regionali e globali così come sulle relazioni bilaterali. Durante il vertice sono stati firmati 14 documenti di cooperazione in diversi settori – politico, economico, tecnologico, militare, legale e culturale, sull’energia nucleare e le infrastrutture. L’Iran è “un buon vicino e un partner stabile e affidabile”, ha riconosciuto Putin. Il presidente iraniano Rouhani ha confermato che la cooperazione tra Teheran e Mosca non si ferma alla Siria, ma è “diretta ad incrementare la stabilità nella regione”. Inoltre, la leadership iraniana teme che il riavvicinamento tra Washington e Mosca auspicato da Trump in campagna elettorale possa indurre i russi a mollare Teheran e a coordinare le loro politiche in Medio Oriente con gli americani. Dunque, meglio giocare d’anticipo rispetto al nuovo approccio di Trump con Mosca per consolidare la propria posizione al Cremlino. Al momento, insomma, i tre Paesi hanno tutti interesse a consolidare le reciproche relazioni per controbilanciare l’ostilità occidentale.

Un’altra fonte di grande preoccupazione a Washington è che dell’asse a cui Mosca sta lavorando per accrescere la sua influenza in Medio Oriente farebbe parte anche la Turchia, un membro della Nato (!). Le crescenti tensioni di Ankara con l’Unione europea e gli Stati Uniti infatti rischiano di far passare in secondo piano la sua competizione regionale con Teheran. Prevedendo che la Turchia sia spinta a guardare verso Est per compensare le sue deteriorate relazioni con l’Occidente, Mosca è pronta a cogliere l’occasione per coinvolgere Ankara e Teheran in una partnership strategica a regia russa.

I negoziati diretti di Ankara con Mosca per acquisire il sistema russo di difesa aerea S-400 suonano come una provocazione alla Nato, o un “test” della sua reale volontà di ricucire. Il problema è che i sistemi di difesa “esterni” alla Nato potrebbero non essere integrabili con l’attuale struttura difensiva dell’alleanza, ma ecco le contro argomentazioni non proprio concilianti del presidente turco Erdogan: “Se non possiamo ottenere i mezzi di cui abbiamo bisogno all’interno della Nato, dobbiamo rivolgerci a fonti diverse… Sfortunatamente in Siria, abbiamo visto armamenti di nostri alleati Nato nelle mani dei terroristi”. Insomma, si tratta di una mossa tattica per “richiamare” l’attenzione degli alleati occidentali, e magari ottenere da loro un sistema difensivo a un miglior prezzo, al tempo stesso facilitando la normalizzazione dei rapporti con Mosca, oppure del segnale di una nuova direzione strategica. Acquisire il sistema S-400 vorrebbe dire per Erdogan aprire la porta di relazioni militari di lungo termine con Mosca, ma anche diventarne dipendente. I russi stessi sembrano scettici rispetto al reale interesse turco per il sistema S-400 e si chiedono se la membership Nato di Ankara stia davvero vacillando, se davvero abbia più interessi strategici e geopolitici in comune con Mosca che con l’Occidente. Quali che siano le reali intenzioni di Erdogan, l’esistenza stessa della trattativa provoca più di un mal di testa alla Nato. Aggiungere alle attuali tensioni con l’Unione europea un ulteriore dissidio sul sistema S-400, potrebbe aprire seriamente il dibattito sulla permanenza della Turchia nell’alleanza.

Tra le varie ferite aperte, nulla infastidisce i turchi come l’alleanza di Washington con i curdi siriani in funzione anti-Isis. La recente visita del segretario di Stato Usa Rex Tillerson ad Ankara sembra si sia conclusa con un nulla di fatto, senza aver appianato nessuna delle fondamentali divergenze che stanno affondando le relazioni tra i due alleati Nato, che sembrano sempre più in “rotta di collisione”, ha osservato il WSJ. Negli incontri con il presidente Erdogan, il primo ministro Yildirim e il ministro degli affari esteri Cavusoglu, Tillerson avrebbe confermato i piani per la conquista di Raqqa, la capitale Isis in Siria, ma anche la collaborazione con le Forze democratiche siriane (SDF), dominate dalle milizie curde siriane delle YPG (“unità di protezione popolare”), ala militare del partito curdo dell’Unione Democratica (PYD), che Ankara ritiene essere ramificazione siriana del PKK. E mentre il PKK è considerato un gruppo terroristico sia da Ankara che dall’Ue e dagli Usa, solo i turchi considerano terroristi anche i miliziani delle YPG. Dal Dipartimento di Stato assicurano di “tener conto delle preoccupazioni turche”, ma anziché arrestarsi, con Trump è incrementato il sostegno militare Usa alle operazioni delle YPG. “Abbiamo discusso le opzioni disponibili. Sono opzioni difficili. Sarò molto franco, non è facile, ci sono scelte difficili che devono essere fatte”, ha avvertito Tillerson nella conferenza stampa congiunta con Cavusoglu. “Il PYD è l’estensione del regime di Assad e Assad significa Iran”, ricordano ad Ankara. Erdogan si aspettava un “reset” dall’amministrazione Trump ed è rimasto molto deluso, ma per ora sembra mordersi la lingua e voler evitare attacchi come quelli riservati agli europei, così come da Washington si evitano commenti sulla repressione e la deriva autoritaria in Turchia.

Quali dunque, secondo lo storico Victor Davis Hanson, le opzioni sul tavolo del presidente Trump per affrontare l'”Idra a tre teste” in Medio Oriente? 1) turarsi il naso e allearsi con Russia e Iran (e Assad ed Hezbollah) per distruggere innanzitutto l’Isis, e affrontare solo in un secondo momento gli altri due avversari (sul modello dell’alleanza con Stalin per sconfiggere Hitler); 2) lavorare con il “meno peggio”, la Russia di Putin (sul modello dell’apertura di Kissinger alla Cina di Mao per allontanarla dall’Urss); 3) tenersi fuori e lasciare che si indeboliscano tra di loro, ma al prezzo di continuare a perdere influenza nella regione, di una crisi umanitaria e un afflusso di profughi che può destabilizzare l’Europa.

La prima opzione, ma solo dopo il 2014, è quella timidamente e confusamente perseguita dall’amministrazione Obama, ma che ha lasciato troppo campo libero a Mosca e Teheran. La seconda opzione sembra quella di cui l’amministrazione Trump ha intenzione di “testare” la percorribilità, ma presuppone di recuperare il rapporto con Erdogan e che la Russia sia disposta a voltare le spalle al regime degli ayatollah, rinunciando all’asse che sta tentando di costruire con Teheran e Ankara per accrescere la sua influenza in Medio Oriente. Significherebbe convincere Putin che avere ai suoi confini un’ulteriore potenza nucleare, l’Iran, non è nei suoi interessi, quindi a sganciarsi dagli iraniani in Siria e smettere di vendere loro sistemi d’arma, e convincerlo a lavorare alla “stabilità” regionale con Washington, Israele e i regimi sunniti moderati. Insomma, a cambiare il sistema d’alleanze in Medio Oriente.

Nel gettare le basi di un nuovo approccio con Mosca e della sua politica in Medio Oriente, il primo passo dell’amministrazione Trump quindi è “testare” l’alleanza Russia-Iran, cercare di capire in che misura, e a che prezzo, Putin sarebbe pronto a porre fine alla sua collaborazione con la Repubblica islamica e a cooperare con gli Stati Uniti per contenere l’espansionismo iraniano in Siria e in Medio Oriente, innanzitutto impedendogli di diventare una potenza nucleare. In questa direzione vanno tutti gli attuali sforzi diplomatici dell’amministrazione Usa.

Ma cosa potrebbe offrire Trump in cambio? E’ evidente che abbandonare qualsiasi progetto di ulteriore allargamento della Nato (e dell’Ue) verso est, ridurre la presenza militare nei Paesi Nato confinanti con la Russia, cancellare le sanzioni imposte per l’annessione della Crimea, sono tutte contropartite gradite a Mosca, mentre il presidente Trump si è detto interessato ad un nuovo accordo con la Russia sul controllo degli armamenti. Secondo Matthew McInnis, ex analista DIA e ora all’American Enterprise Institute, citato da Eli Lake su Bloomberg View, “non c’è modo per cacciare gli iraniani dalla Siria”, ma è un obiettivo realistico “ridurre l’influenza e la presenza iraniana”, il che significa che la Russia “concordi nel sostenere la ricostruzione di un esercito siriano che non sia sotto l’influenza di Teheran e delle sue milizie estere”, gli Hezbollah.

Pochi giorni fa l’ambasciatore Usa all’Onu Nikki Haley ha spiegato che per risolvere la crisi siriana la testa di Assad non è più una condizione pregiudiziale per gli Stati Uniti (“la nostra priorità non è più focalizzata sui modi per cacciare Assad”, ha dichiarato all’AP). Ora la priorità dell’amministrazione, ha aggiunto, è lavorare con Turchia e Russia (non menzionato l’Iran…) per trovare una soluzione di lungo termine in Siria, piuttosto che restare fissata sulla sorte di Assad, il cui futuro di lungo periodo “sarà deciso dal popolo siriano”, ha precisato il segretario di Stato Tillerson. Un’apertura, insomma, a una soluzione di compromesso che garantisca gli interessi e l’influenza di Ankara e Mosca in Siria (ma non di Teheran). A conferma della svolta lo stop degli aiuti alle milizie siriane anti-Assad per concentrarli sulle SDF, che combattono l’Isis e avanzano verso Raqqa. Alla luce di questi sviluppi a Washington, è difficile spiegare i motivi che avrebbero indotto Assad all’attacco “chimico” su Idlib, facendo così tornare all’attenzione internazionale i suoi crimini e la sua impresentabilità, tanto da suscitare la ferma condanna della Casa Bianca (“brutali azioni di Assad” che “non possono essere ignorate”). “Su Russia e Iran gravano grandi responsabilità morali”, ha ammonito il segretario di Stato Tillerson.

Ma un’intesa con la Russia di Putin sarebbe più presentabile di quella di Obama con l’Iran? Sarebbe arduo per il presidente Trump convincere il Congresso dell’utilità di una simile intesa, proprio oggi che sono in corso indagini sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane e sui presunti legami tra il team Trump e il governo di Mosca.

La sensazione però, è che mentre continuano a rafforzare con una certa ostentazione l’asse con Teheran, sia Putin che Erdogan stiano aspettando dall’amministrazione Trump la proposta di un accordo più ampio rispetto ai singoli motivi di frizione con gli Usa. Gli Stati Uniti non possono pensare di contenere le ambizioni egemoniche degli ayatollah sulla regione, e assicurarsi un Iran non-nucleare, senza portare Russia e Turchia dalla loro parte, rompendo così un asse che minaccia letteralmente di scalzare la decennale influenza americana in Medio Oriente. Di sicuro, Trump non ha creato l'”Idra a tre teste”, l’ha ereditata dai suoi predecessori, ma ora ha di fronte solo “cattive opzioni” e la meno peggio presuppone un accordo, non scontato e costoso, con due governi autoritari.

Friday, February 24, 2017

La "sveglia" di Trump alla Nato e all'Europa

Versione ridotta pubblicata su L'Intraprendente

Rassicurazioni sull'impegno Usa nella Nato e i rapporti con la Russia, ma il vice presidente Pence e il segretario alla difesa Mattis "suonano la sveglia" agli alleati. "Americans cannot care more for your children's security than you do"

La realtà ha già cominciato a smentire le previsioni apocalittiche sulla presidenza Trump e gli "esperti" non sanno ancora decidersi se criticarlo quando "attenta" all'ordine e alle istituzioni internazionali del dopoguerra, o quando adotta una linea più convenzionale, apparentemente tornando sui suoi passi e contraddicendo se stesso. Non hanno capito nulla di Trump prima, durante e dopo... E ora si arrampicano sugli specchi per spiegarci come mai le prime, ragionevoli mosse della nuova amministrazione Usa non sembrano coerenti con i loro scenari catastrofici.

I suoi critici "a prescindere" non accetteranno mai di vederla, ma c'è una logica nella politica estera dell'amministrazione Trump, che ha appena cominciato a prendere forma. Innanzitutto, l'idea secondo cui allo slogan trumpiano "America First" debba corrispondere un'America chiusa in se stessa che abbandona gli alleati al loro destino si sta sempre più scontrando con la realtà dei primi passi dell'amministrazione, come dimostrano le calorose accoglienze riservate da Trump ai premier di Regno Unito e Giappone a Washington e i recenti tour in Europa del vicepresidente Mike Pence (alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco e a Bruxelles), del segretario alla difesa Jim Mattis (al vertice Nato e alla conferenza di Monaco) e del segretario di Stato Rex Tillerson (al G20 di Bonn). E' chiaro: se si sono prese alla lettera, ma non sul serio, le parole di Trump in campagna elettorale, rivolte all'elettore medio americano, allora le parole dei suoi uomini oggi, prese altrettanto alla lettera, possono apparire distanti, persino divergenti. Ma se, con uno sforzo di onestà intellettuale, si prendono sul serio le une e le altre, si vedrà che i concetti espressi coincidono, che pur nelle diverse sensibilità prevale la sintonia, non un presidente "sotto tutela" come qualcuno insinua.

I suoi critici sono disorientati, ma un filo logico nella politica estera di Trump sta emergendo, ha scritto sul WSJ lo studioso dell'American Enterprise Institute Michael Auslin. Sulle questioni di politica estera che hanno un impatto diretto sul fronte interno, come gli accordi commerciali e la globalizzazione, persegue un cambiamento radicale; sulle questioni di pura politica estera, come i rapporti con gli alleati, la Russia o la Cina, sta adottando un approccio più tradizionale. "Almeno finora, Trump è stato molto coerente. I critici da sinistra e da destra dovrebbero accettare che i prossimi quattro anni di politica estera americana saranno definiti da un mix di tradizionalismo e di radicalismo". In una parola: pragmatismo, gli interessi dell'America al primo posto.

Il candidato Trump ha suscitato scandalo quando ha posto, in modo a volte provocatorio, il tema del giusto contributo degli alleati ai costi della difesa comune, e quando ha parlato di un'alleanza "obsoleta", perché non a sufficienza rivolta a contrastare la minaccia del terrorismo islamico, e di migliori rapporti con la Russia. Su questi tre fronti non potevano certo esprimersi come il candidato Trump, ma sia il vicepresidente Mike Pence sia il segretario alla difesa Mattis hanno "suonato la sveglia" agli alleati della Nato e all'Europa, recando il messaggio del presidente nel modo più chiaro, esplicito e ultimativo possibile (anche se, chiusi nella loro bolla e nei loro pregiudizi, gli europei fanno sapere di restare disorientati sulle reali intenzioni della Casa Bianca). Washington non intende abbandonare a se stessa la Nato - ma pretende giustamente che gli alleati contribuiscano alla sicurezza comune almeno quanto pattuito - né fare regali alla Russia, con la quale cercherà un "terreno comune" di cooperazione, ma al tempo stesso richiamandola alle sue responsabilità.

Naturalmente i media europei hanno evidenziato le rassicurazioni di Pence e Mattis sull'impegno americano, lasciando persino intendere che stessero correggendo il loro presidente o in qualche modo ridimensionando le sue dichiarazioni (nonostante entrambi abbiano esplicitamente, più volte, premesso di parlare a suo nome), mentre molto meno rilievo è stato dato alle parti dei loro discorsi in cui recavano le richieste della nuova amministrazione Usa.

Il segretario alla difesa Mattis ha assicurato che la Nato resta un "pilastro fondamentale" per gli Stati Uniti, l'impegno per l'articolo 5 dell'Alleanza atlantica resta "solido come una roccia", ma ha anche detto chiaro e tondo che se gli alleati non aumenteranno la loro spesa militare, gli Stati Uniti non potranno che "moderare" il loro impegno nella Nato. Un vero e proprio "warning". E la notizia semmai è che, almeno a parole, la Nato abbia acconsentito alla richiesta di Trump, che in fondo è la stessa dei suoi predecessori alla Casa Bianca. "Americans cannot care more for your children's security than you do". Mattis è stato franco e diretto, il suo ragionamento non fa una piega: "Devo a tutti voi chiarezza sulla realtà politica negli Stati Uniti e porre la giusta richiesta da parte della gente del mio Paese in termini concreti... L'America terrà fede alle sue responsabilità, ma se le vostre nazioni non vogliono vedere l'America moderare il suo impegno per l'alleanza, ciascuna delle vostre capitali dovrà mostrare il suo sostegno per la nostra difesa comune". "Il contribuente americano non può più sopportare una quota sproporzionata della difesa dei valori occidentali. Gli americani non possono preoccuparsi per la sicurezza dei vostri figli più di quanto facciate voi stessi. Il disprezzo per la preparazione militare dimostra una mancanza di rispetto per noi stessi, per l'Alleanza e per le libertà che abbiamo ereditato, che sono ora chiaramente minacciate". Quindi, una sorta di ultimatum: "Dobbiamo garantire che alla fine dell'anno non saremo nella stessa situazione di oggi". Gli Stati Uniti si aspettano che gli alleati adottino quest'anno dei "piani", con "date e scadenze precise", che assicurino "progressi costanti" verso il raggiungimento della quota del 2% del Pil di spesa militare, come pattuito. La ricca Germania, per esempio, spende solo l'1,19%...

Riguardo la necessità di rinnovare la "mission" dell'Alleanza, sempre Mattis ha spiegato che per rimanere credibile la Nato deve adattarsi ai nuovi scenari geopolitici. I Paesi membri "non possono più negare la realtà" del terrorismo islamico e degli altri rischi geopolitici e devono essere "unificati da queste crescenti minacce alle nostre democrazie". E' esattamente la questione posta da Trump quando ha parlato di Nato "obsoleta": modernizzare una proiezione dell'alleanza fossilizzata sull'inevitabilità della minaccia proveniente da est, dalla Russia, come ai tempi della Guerra Fredda. La correzione chiesta dal presidente Trump è ragionevole e non diversa da quella di cui già da tempo si discute e verso la quale spingono soprattutto i membri del fronte sud dell'Alleanza: riorientare la Nato verso le minacce provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Come sugli oneri della difesa, anche su questo l'iniziativa della nuova amministrazione Usa sembra aver accelerato processi già in corso: i 28 hanno dato il via libera al cosiddetto "hub per il Sud", all'interno del Joint Force Command di Napoli, e approvato un generale riorientamento strategico verso sud, per meglio affrontare le minacce che arrivano, appunto, dal Medio Oriente e dal Nord Africa (Libia compresa, essendo giunta dal governo al-Sarraj la richiesta formale di un supporto Nato).

Quanto ai rapporti con la Russia, nessuno a Washington ha intenzione di abbandonare gli alleati dell'Europa orientale, né di cedere alle ambizioni putiniane, né di tradire i valori dell'Occidente. La Russia resta tra le principali sfide alla sicurezza transatlantica, ma si tratta di guardare con realismo al ruolo che può giocare Mosca su altri fronti. Se la Nato è "essenziale", ha spiegato infatti il segretario Mattis, nel "bloccare gli sforzi russi tesi all'indebolimento delle democrazie", lo è anche nel "contrastare l'estremismo islamico e rispondere a una Cina più assertiva". Certo, ha avvertito, "bilanciare collaborazione e confronto è certamente una sgradevole equazione strategica". Se da una parte Mattis ha confermato l'apertura del presidente Trump "alle opportunità di restaurare una relazione cooperativa con Mosca, allo stesso tempo - ha aggiunto - restiamo realisti nelle nostre aspettative e raccomandiamo ai nostri diplomatici di negoziare da una posizione di forza". Ciò significa, ha assicurato, che "non siamo disposti ad abbandonare i valori di questa alleanza, né a lasciare che la Russia, attraverso le sue azioni, parli con voce più alta di chiunque in questa stanza".

E se Mosca, tramite il suo ministro alla difesa, si dice "pronta per ristabilire la cooperazione con il Pentagono", il capo del Pentagono dice che no, "in questo momento" gli Stati Uniti non sono pronti per una collaborazione militare con la Russia. Prima di una collaborazione con gli Stati Uniti e la Nato, la Russia deve "dimostrare" di voler rispettare le leggi internazionali, ha spiegato Mattis parlando a Bruxelles. "In questo momento non siamo nella posizione di collaborare a un livello militare con la Russia, ma i nostri leader politici si incontreranno e cercheranno di trovare un terreno comune o una via d'uscita".

Della ricerca di un "terreno comune" con Mosca ha parlato anche il segretario di Stato Rex Tillerson in una breve dichiarazione alla stampa dopo l'incontro con il ministro degli affari esteri russo Lavrov a margine del G20 di Bonn. Ma gli Stati Uniti si aspettano che la Russia "onori gli impegni presi con gli accordi di Minsk e lavori per una de-escalation della violenza in Ucraina". Usa e Russia devono lavorare insieme laddove i loro interessi siano coincidenti, concordano Tillerson e Lavrov. Anche se nell'esprimere lo stesso concetto il segretario Tillerson ha usato parole un po' diverse: "Come ho già detto nella mia audizione di conferma al Senato, gli Stati Uniti considereranno la possibilità di lavorare con la Russia quando sarà possibile trovare aree di cooperazione pratica che potranno portare beneficio agli americani". In ogni caso, la nuova amministrazione Trump, ha chiarito, "non prevede di andare contro gli interessi e i valori dell'America e dei suoi alleati".

Sulla Russia i vertici dell'amministrazione Trump parlano con una voce sola e "terreno comune" è l'espressione ricorrente. Mentre gli Stati Uniti, ha spiegato il vicepresidente Pence, "continueranno a ritenere la Russia responsabile e ad esigere che rispetti gli accordi di Minsk cominciando a diminuire la violenza nell'Ucraina orientale, seguendo le direttive del presidente Trump tenteremo anche in nuovi modi di trovare con la Russia un terreno comune". Fermo restando, ha aggiunto, che "alla luce dello sforzo della Russia di ridisegnare i confini dei Paesi con la forza, noi continueremo a sostenere la Polonia e gli Stati baltici attraverso la presenza avanzata rafforzata della Nato" in quei Paesi.

A conferma di tutto ciò, gli Stati Uniti stanno mobilitando unità corazzate nei Paesi baltici, in Polonia, Romania e Bulgaria, per "sostenere e integrare l'impegno Nato a favore della deterrenza" nei confronti di Mosca. Via libera dall'amministrazione Trump anche al rafforzamento della presenza navale Nato nel Mar Nero, annunciato dal segretario Stoltenberg, "per addestramento avanzato, esercitazioni e consapevolezza situazionale". Una mossa che, ha assicurato, "sarà misurata, di natura difensiva, in nessun modo volta a provocare un conflitto né ad alimentare le tensioni".

Anche del discorso del vicepresidente Mike Pence a Monaco è stato dato maggiore rilievo alle rassicurazioni, ma nei confronti degli alleati il suo monito è stato ancor più duro. "Il presidente mi ha chiesto di essere qui oggi per trasmettere il messaggio che gli Stati Uniti sostengono fortemente la Nato e che noi saremo incrollabili nel nostro impegno verso l'Alleanza atlantica", ha detto Pence. Gli Stati Uniti, ha aggiunto, saranno "più forti di quanto non siano mai stati" sotto la presidenza Trump, che ha intenzione di "ripristinare l'arsenale della democrazia". Così come, a Bruxelles, Pence ha riferito, sempre a nome del presidente Trump, "il forte impegno degli Stati Uniti ad una continua cooperazione e partnership con l'Unione europea". Ma la seconda parte del messaggio è che il popolo americano potrebbe perdere la pazienza (che "non durerà per sempre") con i membri della Nato se questi non condividono i costi della difesa comune. Oggi "non pagano la loro giusta parte" e questa mancanza "corrode le fondamenta della nostra alleanza". "E' venuto il tempo di fare di più... It is time for actions, not words", ha detto prendendo in prestito uno slogan dal discorso di insediamento del suo presidente. Anche da Pence una sorta di ultimatum: il presidente Trump si aspetta "progressi reali entro la fine del 2017" da parte degli alleati che non rispettano l'impegno a investire il 2% del Pil in spesa militare.

E nel caso qualcuno ancora non avesse compreso il messaggio, Pence ha esortato i Paesi Nato che non spendono il 2% del loro Pil nella difesa ad accelerare i loro piani per arrivarci: "E se non avete un piano, datevene uno". Ad essere onesti, la realtà è che l'ingresso di Trump alla Casa Bianca ha già impresso una positiva accelerazione nel dibattito sulla e nella Nato. E nonostante mugugni, piagnistei e moti di sdegno un po' ipocriti, l'Alleanza sta facendo l'unica cosa possibile: allinearsi.

P.S.
La questione è semplice: pare che per qualcuno la difesa ce la debbano assicurare i contribuenti americani (e il debito i contribuenti tedeschi...). Troppo comodo, no? Se si crede nella Nato, si è coerenti e si contribuisce (almeno) quanto pattuito. Se si crede nell'Unione europea, si taglia il debito prima di chiederne la mutualizzazione. Altrimenti, la figura dei soliti furbastri e inaffidabili è assicurata.

Wednesday, February 01, 2017

Libia, soluzione nelle mani di Trump...

Pubblicato su Ofcs Report

Prima che sia Mosca, come in Siria, a occupare il vuoto lasciato da Obama. Washington è per l'Italia l'ultima exit strategy dal vicolo cieco in cui si è cacciata

Oggi la Libia rappresenta per l'Italia il principale problema sia di politica estera che di politica interna. La crisi di migranti generata dal caos libico accresce l'insofferenza dei cittadini italiani per i comandamenti dell'"Accoglienza", fattore non trascurabile alla base della crisi di consensi del Governo Renzi, e indebolisce la nostra posizione in Europa. Solo nelle ultime settimane: sedi ministeriali occupate a Tripoli, proprio nei giorni successivi la visita del ministro dell'interno Minniti; un'autobomba esplosa nei pressi dell'ambasciata italiana da poco riaperta; golpe veri o presunti o minacciati e continue dichiarazioni dal Parlamento di Tobruk contro "l'occupazione militare italiana". Vendette dell'ex premier libico Ghwell, scalzato dal governo targato Onu di al-Serraj? Avvertimenti del generale Haftar ("con me dovete trattare")? E' comunque difficile non scorgere dietro questi eventi un disegno, o quanto meno una serie di provocazioni. In ogni caso, una spia del fatto che la nostra politica in Libia rischia di essere fondata sulla sabbia - potremmo aver puntato sul cavallo sbagliato - e che resta alto il rischio di un'escalation tra le fazioni in lotta per il controllo del Paese. Il governo di Fayez al-Sarraj sembra non aver alcun controllo del territorio, nemmeno a Tripoli, ed essere stato di fatto scaricato dalla comunità internazionale. Solo l'Italia si espone ancora a sostenerlo. Sicuri sia l'interlocutore giusto con il quale cercare un accordo per fermare il flusso di migranti che arriva sulle coste italiane?

I governi italiani hanno commesso almeno due errori. L'aver scommesso sul processo politico "onusiano" che ha portato alla legittimazione dell'impotente governo al-Sarraj e l'essersi fidati del presidente americano Obama, che oltre ai raid contro l'Isis non ha profuso che un minimo, formale impegno nel processo politico, che a suo avviso (non a torto) dovrebbe essere affare degli europei. Peccato che i nostri "amici" europei coinvolti in Libia si stiano muovendo in ordine sparso tutelando ciascuno i suoi interessi. E, come in Siria, l'impegno scarso e confuso prima, il progressivo disimpegno poi dell'amministrazione Obama ha creato anche in Libia un vuoto nel quale si sta inserendo la Russia di Putin.

Cosa fare, dunque? E' il momento di correggere la rotta, ma non c'è un minuto da perdere. Il cambio di amministrazione a Washington offre non solo al Regno Unito post-Brexit ma anche all'Italia una exit strategy dal vicolo cieco in cui si è cacciata in Libia sostenendo con eccessivo zelo il fragile tentativo onusiano di al Serraj. Convincere Washington a riprendere in mano sul serio il dossier libico per controbilanciare, finché siamo in tempo, la crescente influenza della Russia. Mosca sta infatti sempre più stringendo i suoi rapporti con il generale Haftar, che con il suo esercito, al fianco del Parlamento di Tobruk, controlla ormai saldamente l'est e il sud del paese, infrastrutture petrolifere comprese. Dopo la visita a Mosca qualche settimana fa, Haftar è salito a bordo della portaerei Kuznetsov, di passaggio nel Meditterraneo di rientro dalla Siria, per siglare un accordo di collaborazione militare (si parla di forniture di armi per due miliardi di dollari).

"A Trumpian Peace Deal in Libya?" è il titolo di un recente articolo di Jason Pack e Nate Mason su Foreign Affairs secondo cui la nuova amministrazione Usa può giocare un ruolo decisivo nel dare soluzione al rebus libico. Da una parte, spiegano, il generale Haftar, sostenuto da Russia ed Egitto, avendo già il controllo delle infrastrutture petrolifere, avrebbe poco interesse a scivolare verso una sanguinosa battaglia per Tripoli se ci fosse la possibilità di un negoziato. Dall'altra, le fazioni occidentali, quella di Misurata inclusa, sono più incentivate a negoziare ora, prima che la loro posizione si indebolisca ulteriormente. Haftar potrebbe infatti attaccare Misurata a breve e a quel punto l'egemonia di Mosca (e del Cairo) sulla Libia sarebbe difficilmente reversibile.

Che ruolo può giocare quindi la nuova amministrazione Usa? E cosa si aspettano da essa le fazioni libiche? Almeno "per le strade libiche", secondo i due autori, il presidente Trump è "molto più popolare di quando sarebbe stata Hillary Clinton". "Gli emissari dell'ex segretario di Stato sono associati con lo status quo e con la fazione di Misurata. Inoltre, poche aree al mondo sono state più trascurate della Libia durante il secondo mandato del presidente Obama. Gli Stati Uniti sono stati decisivi per i raid aerei che hanno cacciato l'Isis da Sirte, ma non hanno esercitato la loro leadership sugli aspetti politici ed economici della transizione. Quindi, le fazioni libiche sperano in una iniziativa della nuova amministrazione Usa per superare lo stallo e dare nuova vita alle trattative", evitando così un'escalation del conflitto armato che non conviene a nessuna.

E' nell'interesse di Washington affrontare il dossier libico quanto prima per evitare che gli sviluppi del conflitto possano minacciare gli interessi americani. I paesi vicini (Tunisia, Algeria ed Egitto) potrebbero venire contagiati dal conflitto con infiltrazioni di milizie jihadiste. E la Russia potrebbe giocare d'anticipo riconoscendo il generale Haftar e il Parlamento di Tobruk come governo legittimo della Libia. Un regime filo-russo in Libia significherebbe trovarsi, dopo l'Ucraina e la Siria, con un nuovo fronte di tensione con Mosca. Proprio perché il presidente Trump sembra intenzionato a lavorare ad "un ampio accordo geostrategico con la Russia, non c'è ragione di pensare che intenda regalarle un'ulteriore leva negoziale".

Per gli autori Washington ha ancora più di una carta in mano. Solo gli Stati Uniti infatti possono offrire "pieno accesso nell'economia globale (e al mercato petrolifero) e legittimità internazionale alle varie fazioni libiche", nonché garantire aiuti per la ricostruzione. Da Russia ed Egitto riceverebbero invece solo "dipendenza e ulteriore marginalizzazione". Quindi l'amministrazione Trump "dovrebbe riconoscere che nessuna fazione, tra cui il governo di al-Serraj, ha un diritto esclusivo di legittimità politica in Libia". Il generale Haftar e le milizie di Misurata sono "i due blocchi più potenti". Anche se Haftar si sta rafforzando e Misurata si sta indebolendo, è improbabile che il primo possa prevalere a breve e una separazione de facto del Paese è l'esito più probabile.

"Una soluzione negoziata di condivisione del potere" è preferibile, secondo i due analisti, rispetto a qualsiasi altro "pseudo-governo", ma ciò "non può accadere finché Washington continua a sostenere l'impotente governo di al-Serraj come unico legittimo e ad escludere Haftar e le altre fazioni". Gli autori suggericono quindi "il diretto coinvolgimento di Haftar e dei leader moderati di Misurata", dato che in Libia "sono i leader delle milizie ad avere il potere vero, non i politici". E che "l'Occidente contribuisca a mettere a punto una proposta di decentramento politico cosicché tutte le fazioni vedano l'attuale conflitto come un gioco a somma zero". Meglio "devolvere" alle città la maggior parte dei poteri, così come gli introiti delle risorse naturali. Eventuali conflitti locali sono più gestibili di un unico conflitto nazionale o tre regionali e la governance locale è necessaria per la ripresa economica. A questo scopo, Trump dovrebbe nominare un suo "inviato presidenziale" che coordini le politiche delle agenzie federali, supervisioni il processo Onu e agisca da "primus inter pares" con gli alleati europei coinvolti in Libia (Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito), delegando loro "ruoli complementari".

Finora la "leadership confusa" dell'amministrazione Obama ha portato ad una politica "mal coordinata e incoerente". Se gli Stati Uniti vogliono porre fine alla guerra civile in Libia, avvertono, devono abbandonare il concetto di "leading from behind" ed esercitare direttamente la loro leadership. "Trump, come sappiamo, è un pensatore non convenzionale - concludono i due analisti di Foreign Affairs - non vincolato ai modi di fare tipici della burocrazia. E la Libia ha bisogno di un approccio fresco e coraggioso. Fortunatamente per gli Stati Uniti, per motivi geopolitici, le principali fazioni libiche sono ansiose di lavorare con Trump. Ora è il momento per lui di dimostrare che è pronto a lavorare con loro".

Dunque, nella partita a scacchi che sta per iniziare tra Washington e Mosca - e che si gioca tra l'Europa orientale, il Medio Oriente e l'Iran - la Libia occupa una parte non così trascurabile della scacchiera. E l'Italia deve cogliere al volo l'occasione (che potrebbe essere l'ultima) di un rinnovato impegno americano sul dossier libico per correggere l'attuale corso degli eventi la cui inerzia contrasta con i nostri interessi. "Con l'Italia faremo grandi cose". "Abbiamo bisogno dell'esperienza che l'Italia possiede sulla Libia", è quanto ha detto nei giorni scorsi il neo segretario di Stato Usa Rex Tillerson all'inviato del quotidiano "La Stampa" Paolo Mastrolilli. Un'apertura che fa ben sperare sull'intenzione degli Stati Uniti di andare nella direzione auspicata da Jason Pack e Nate Mason su Foreign Affairs. Washington si aspetta dall'Italia anche un aiuto concreto nella "gestione del dialogo con Putin". Al contrario di quanto si dice e si scrive, l'amministrazione Trump non sarebbe poi così disposta a cedere a Mosca sull'Ucraina...

Insomma, il governo italiano e le forze politiche che lo sostengono, con quel che abbiamo in gioco in Libia (e con la Russia), non possono permettersi un approccio meno che rispettoso e collaborativo nei confronti della presidenza Trump, che può rappresentare l'ultima nostra exit strategy dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati in Libia.

Friday, September 04, 2015

La retorica dell'accoglienza e i costi umani del non intervento

Ma perché, le migliaia di uomini, donne e bambini massacrati e decapitati dell'Isis non sono nostri fratelli, sorelle e figli? Solo perché non abbiamo visto le foto dei cadaveri? O, se le abbiamo viste, perché non abbiamo mosso un dito, nemmeno sulla tastiera? Quanta retorica a buon mercato! La foto del bimbo siriano senza vita sulla spiaggia di Bodrum viene pubblicata perché serve ad alimentare la retorica dell'accoglienza, e il senso di colpa dell'Occidente. Ma tutte le foto mai pubblicate di massacri e decapitazioni dell'Isis? No, quelle no, suggerirebbero di dover muovere guerra all'Isis.

La foto di quel bimbo siriano non c'entra nulla con l'emergenza immigrazione che il governo Renzi non sa gestire e che anzi ha irresponsabilmente alimentato. Solo una piccolissima parte dell'immigrazione che sbarca da noi infatti è di origine siriana. I siriani vanno in Germania via Balcani, da noi arrivano africani via milizie islamiche dalla Libia. E solo la metà della metà ha diritto all'asilo, ma noi facciamo entrare tutti senza identificarli (oltre 60 mila finiti nel nulla).

No, la foto di quel bimbo siriano dovrebbe convincerci una volta per tutte che anche il non intervento ha costi umani altissimi, inaccettabili. Quella foto ci parla delle tante nuove Srebrenica generate in Siria per l'ignavia dell'Europa e i disastri di Obama, che ha mandato due droni ma ha consapevolmente abbandonato la crisi siriana nelle mani delle potenze regionali (Iran, Turchia e Arabia saudita su tutte).

Wednesday, May 15, 2013

Tre Watergate per Obama

Anche su Rightnation.it

Tre scandali ciascuno dei quali, preso singolarmente, somiglia terribilmente ad un Watergate per il presidente Obama. A differenza di Nixon, manca (ancora) la "pistola fumante" che lo collega personalmente ai misfatti della sua amministrazione, ma politicamente ne è comunque responsabile: il "cover up" (l'insabbiamento) dell'attentato al consolato americano di Bengasi; la condotta persecutoria dell'Irs (l'agenzia delle entrate Usa) nei confronti dei suoi avversari politici; lo spionaggio ai danni dell'agenzia di stampa Ap. Ma le polemiche infuocate che oltreoceano si stanno abbattendo su Obama in Italia vengono relegate nelle ultime pagine dei giornali, o in fondo alle homepage dei siti internet, e solo accennate nei notiziari tv e radio, mentre si è letto di tutto, e viene discusso ogni singolo aspetto, della decisione di Angelina Jolie di farsi asportare i seni per "prevenire" il tumore. L'effetto è quello di una gigantesca operazione di distrazione di massa, che non sarebbe riuscita così bene se fosse stata orchestrata, mentre è solo il frutto del conformismo dei mainstream media.

SPIONAGGIO AP - Per due mesi (aprile-maggio 2012) il Dipartimento di Giustizia ha tenuto sotto controllo 20 utenze telefoniche dell'Associated Press, intercettando a loro insaputa le conversazioni di un centinaio di giornalisti, a caccia della talpa che dall'interno dell'amministrazione passava informazioni riservate all'agenzia di stampa. Un'azione così prolungata e invasiva, per altro non autorizzata dal procuratore generale in persona, Eric Holder, come da regolamento, ma dal suo vice Jim Cole, è senza precedenti. Che funzionari del governo abbiano messo sotto controllo un centinaio fra reporter, caporedattori e direzione, in pratica l'intera redazione centrale della maggiore agenzia di stampa Usa, ha il sapore del Watergate.

Se Hunt e Liddy erano i cosiddetti "plumbers" del presidente Nixon, un team ristretto incaricato di dare la caccia alle talpe interne all'amministrazione, Obama ha usato a questo scopo il Dipartimento di Giustizia, deputato a questo tipo di indagini. Peccato però che abbia fatto ricorso a metodi sporchi, a rischio di incostituzionalità, tanto da suscitare la vibrante indignazione anche del leggendario reporter del caso Watergate Carl Bernstein: «E' vergognoso, pericoloso, non ci sono scuse». Un «evento nucleare», l'ha definito Bernstein, secondo cui il vero scopo dell'indagine era intimidire chi parla con i giornalisti. Ed è irrilevante che la Casa Bianca non ne fosse al corrente, dal momento che scovare e punire le talpe è una politica centrale della presidenza Obama: ne ha perseguite penalmente già sei, più di tutti i predecessori messi insieme. Stavolta anche la stampa amica del presidente, dal Washington Post al New York Times, non ha potuto far altro che esprimere forti preoccupazioni e biasimare i metodi dell'amministrazione, che rischia di trovarsi in violazione del I emendamento (che tutela la libertà di stampa) e del IV (che garantisce i cittadini contro indebite violazioni della sfera personale). Niente di lontanamente paragonabile al caso dell'agente Valerie Plame per cui fu messo in croce Bush.

CASO IRS - E sa di Watergate anche il caso dell'Irs, l'agenzia delle entrate Usa, che ha preso intenzionalmente di mira, trattandole come sospetti evasori, associazioni di destra, del movimento anti-tasse o che proclamano di voler difendere la Costituzione, ossia i più acerrimi nemici dell'amministrazione Obama, per la sola presenza di parole come "tea party" o "patriot" nel loro nome. Le loro pratiche per l'esenzione dal pagamento delle tasse hanno subito un deliberato ostruzionismo da parte dell'Irs (ritardi e controlli non necessari). Per oltre 18 mesi dal 2010, afferma un rapporto del Dipartimento del Tesoro citato dalla Cnn, l'Irs ha sviluppato e applicato una politica scorretta per determinare se i richiedenti fossero o meno coinvolti in attività politiche.

Condotta «inappropriata», ha ammesso il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. «No, usare per il piatto principale la forchetta per l'insalata è inappropriato. Usare l'Irs per scopi politici è un reato», ha osservato l'editorialista del WaPost George Will, che parla di «echi di Watergate». Ecco quanto si legge, infatti, tra gli articoli per l'impeachment contro Nixon, adottati nel 1974 dalla Commissione giudiziaria della Camera. «He (Nixon, ndr) has, acting personally and through his subordinates and agents, endeavored to... cause, in violation of the constitutional rights of citizens, income tax audits or other income tax investigations to be initiated or conducted in a discriminatory manner».

BUGIE SU BENGASI - Amministrazione Obama sotto accusa anche per la gestione dell'attentato al consolato di Bengasi dell'11 settembre scorso. Dalle audizioni del Congresso sta emergendo che non solo c'è stata una vera e propria operazione di insabbiamento della natura dell'attacco e della ricostruzione degli eventi, ma che si poteva fare molto di più per salvare la vita dell'ambasciatore e delle altre tre vittime americane. La testimonianza dell'ex vice ambasciatore Gregory Hicks, secondo cui le forze speciali americane sarebbero potute intervenire ma avrebbero ricevuto l'ordine di non muoversi, contraddice quanto detto in precedenza dall'amministrazione, e in particolare dall'ex segretario di Stato Hillary Clinton. La matrice terrorista dell'attacco al consolato, inoltre, fu chiara fin dai primi momenti e a Washington ne erano perfettamente al corrente, ma giorni dopo ancora si sosteneva la versione delle proteste per un video amatoriale su Maometto.

Le e-mail scambiate durante e dopo la crisi fra Dipartimento di Stato, Cia, direttore dell'intelligente e Casa Bianca, e consegnate al Congresso, avvalorano la tesi di Hicks. L'ufficio sicurezza del Dipartimento comprese subito, ad assalto in corso, che si trattava di jihadisti. Il primo rapporto della Cia parlava di «estremisti di Al Qaeda», alcuni «legati ad Ansar al Sharia», ma queste frasi vennero fatte sparire nelle versioni successive su richiesta di una portavoce del segretario di Stato Clinton. Nell'ultima, al posto di «attacco» si parla di «violente dimostrazioni», e ogni riferimento ad Al Qaeda è sostituito da un generico «estremisti». Non solo, dunque, un insabbiamento mediatico nei giorni immediatamente successivi all'attacco e - ricordiamo - vicinissimi al voto per le presidenziali, ma anche un insabbiamento, dinanzi al Congresso, degli errori commessi dall'amministrazione.

Nessun altro presidente americano, probabilmente, ha beneficiato come Obama di una narrazione, e di conseguenza di una copertura mediatica, così positiva. Si può dire che sia addirittura diventato presidente grazie a quella narrazione così carica di passione e speranza. Ora però pesantissimi dubbi si stanno addensando sui metodi con cui Obama e la sua amministrazione "curano" la narrazione degli eventi e si occupano degli avversari politici: manipolazione, intimidazione e violazione dei diritti costituzionali.

Wednesday, October 17, 2012

Vittoria striminzita di Obama, debacle dei media

Anche su Rightnation.it

Nulla a che vedere con la sconfitta che Romney ha inflitto al presidente nel primo dibattito, a Denver. E' stata una vittoria striminzita quella di Obama ieri sera, nel secondo match televisivo. Lo dimostrano anche i numeri dei sondaggi post-debate della Cbs, non esattamente un covo di repubblicani: 37 a 30% per Obama, con un 33% che ha visto un pareggio. Nessun dubbio, invece, sul fatto che Romney è sembrato di gran lunga più convincente di Obama sull'economia: 65-34%. Se l'impressione complessiva premia il presidente anche per la Cnn (46-39%), anche qui su tutti i principali temi economici i telespettatori hanno visto Romney più convincente (58-40% sull'economia, 49-46% sulla sanità, 51-44% sulle tasse e 59-36% sul deficit).

Anche se Obama ha forse centrato l'obiettivo minimo, quello di cancellare l'immagine di un presidente con le pile scariche, da pugile suonato e remissivo, trasmessa a Denver, non credo sia riuscito ad invertire il trend pro-Romney, al massimo ad arrestarlo.

Ma l'aspetto più degno di nota del dibattito di ieri è senza alcun dubbio la scorrettezza della moderatrice. Il momento cruciale quando la giornalista della Cnn, Candy Crowley, ha confermato in diretta la versione falsa di Obama, salvando il presidente da un vero e proprio colpo da ko sull'attacco di Bengasi costato la vita all'ambasciatore Stevens (qui il video).

Rispondendo alla domanda Obama ha mentito, dicendo che «the day after the attack... I told the American people (...) That this was an act of terror». Al che Romney ha replicato che «ci sono voluti 14 giorni prima che il presidente definisse l'attacco di Bengasi un act of terror». All'invito del presidente di prendere la trascrizione la conduttrice è intervenuta dando ragione ad Obama (e scandendo meglio su suo invito: «Can you say that a little louder, Candy?»). Ma non è così: Obama ha in effetti pronunciato le parole «act of terror» in quel discorso al Rose Garden, ma in generale, di sicuro non come definizione della natura dell'attacco al consolato di Bengasi (qui la trascrizione), mentre anche la conduttrice ha concesso a Romney che per molto tempo l'amministrazione ha lasciato intendere che l'attacco fosse legato al video oltraggioso della figura di Maometto.

Su tutti i siti italiani, ovviamente, è finito «lo scivolone di Romney sulla Libia», ma la notizia non è Romney che «balbetta», o che «si è fatto fregare», bensì la moderatrice che in diretta arriva ad avvalorare un'affermazione falsa di Obama pur di evitargli un colpo da ko. Cosa avrebbe potuto Romney, senza carte in mano, contro due (di cui uno in teoria imparziale) che affermavano il falso? Certo che il punto è andato a Obama, ma non si è trattato di un autogol di Romney, bensì di un rigore inesistente concesso a Obama da un arbitro di parte.

La Crowley come un'Annunziata qualsiasi, dalla selezione delle domande alle interruzioni, fino alla scena madre. Non ricordo un dibattito presidenziale condotto in modo così fazioso come quello di ieri. Un segnale davvero brutto per i media americani, sempre più incapaci di imparzialità, ormai persino nel condurre i dibattiti presidenziali. In tutti e tre quelli finora svolti un repentino cambio di argomento ha troppo spesso tolto Obama dall'imbarazzo e neanche nei tempi è stata rispettata la "par condicio" tra i candidati, come sottolinea Nardelli su Rightnation.it: Romney e Ryan hanno parlato per un totale di 119 minuti e 33 secondi, Obama e Biden invece per 128 e 26. Una differenza di ben 8 minuti e 53 secondi (42:50 a 38:32 nel primo dibattito, 41:32 a 40:11 in quello tra i vice, 44:04 a 40:50 nel secondo).

E dinanzi alla screanzata partigianeria dei media Usa, la mancanza (ma non è una novità) di spirito critico e coraggio dei media e dei giornalisti italiani, persino quelli non di sinistra. Piuttosto che andare controcorrente, più a loro agio con le analisi paludate, più elegante lo sfoggio di terzismo.

Thursday, October 11, 2012

Il Bengasi-Gate di Obama

Anche su Rightnation.it

Si mette male per Obama mentre ci si avvicina al secondo dibattito televisivo, che verterà anche sulla politica estera. E oggi sarà il turno dei candidati vice sfidarsi in tv. Un video rubato può distrarre l'attenzione del pubblico per qualche giorno, ma le responsabilità, quando ci sono, tendono a venire a galla. Erano già emerse da un'approfondita inchiesta del Wall Street Journal di qualche giorno fa, ma ora arrivano conferme anche da vie più ufficiali. In poche ore, davanti ad una Commissione d'inchiesta del Congresso (qui il video) sull'uccisione dell'ambasciatore Stevens a Bengasi, le deposizioni di alcuni funzionari impegnati sul campo inchiodano l'amministrazione alle sue responsabilità: la sicurezza al consolato di Bengasi era «debole e in peggioramento». Nonostante gli attacchi in aumento, nei mesi precedenti, a Bengasi e nel resto della Libia, e le minacce specifiche contro l'ambasciatore Stevens, le richieste di rinforzi sono cadute nel vuoto. Anzi, la sicurezza sarebbe stata ulteriormente ridotta. Perché si voleva dare l'idea della «normalizzazione», è la tesi dei congressmen dell'opposizione repubblicana. Ma una cosa appare certa: l'amministrazione Obama ha sollevato un polverone sulla natura dell'attacco per non ammettere, in piena campagna elettorale, il successo militare di al Qaeda o dei suoi affiliati.

Alcuni punti fermi sono emersi con chiarezza, scrive il Wall Street Journal:
1) Non c'è stata alcuna manifestazione contro il famigerato film su Maometto, eppure per oltre una settimana funzionari dell'amministrazione Obama, compresa la rappresentante all'Onu, Susan Rice, hanno continuato a legare l'accaduto alla "rabbia" contro il film. Ma già entro le prime 24 ore era chiara, e nota all'amministrazione, la natura terroristica dell'attacco, come confermato dall'ex capo della sicurezza a Tripoli, Andrew Wood: gli attacchi erano «immediatamente riconoscibili come terroristici» e «quasi me l'aspettavo l'attacco, era questione di tempo».

2) Il Dipartimento di Stato ha rigettato ripetute richieste di aumentare la sicurezza della missione in Libia, in particolare la richiesta di tenere un DC-3 di appoggio nel paese. Anzi, l'ha ulteriormente ridotta nei mesi immediatamente precedenti l'attacco. Nonostante la Gran Bretagna e la Croce Rossa, dopo gli attacchi subiti (l'11 giugno il convoglio dell'ambasciatore britannico era stato colpito da una granata da lanciarazzi), avessero deciso addirittura di andarsene da Bengasi. E nessuna misura di sicurezza speciale è stata presa in occasione dell'anniversario dell'11 settembre. Eric Nordstrom, funzionario del Dipartimento di Stato deputato alla sicurezza in Libia fino al luglio scorso, ha ammesso di essersi sentito «frustrato» per la «completa e totale assenza di programmazione» per la sicurezza. L'amministrazione si è affidata completamente al governo libico, che era palesemente «sopraffatto e non in grado di garantire la nostra sicurezza».

3) Inoltre, ad attacco in corso la Casa Bianca non ha mai seriamente considerato l'ipotesi di intervenire militarmente a Bengasi, scegliendo invece di rivolgersi solo alla sicurezza libica (che per altro è riuscita a scongiurare un numero di vittime molto superiore). L'ipotesi venne scartata, perché avrebbe costituito una violazione della sovranità libica.

Tuesday, September 25, 2012

Nessuno tocchi Obama

Un ambasciatore e altri tre funzionari americani vengono uccisi da estremisti islamici mentre l'amministrazione Obama è impegnata a scusarsi per un presunto film su Maometto? I media Usa si accaniscono su Romney che avrebbe strumentalizzato il tragico accaduto pur di attaccare Obama (anche se il comunicato incriminato precede l'uccisione dell'ambasciatore). Il caso rischia comunque di tenere banco mettendo in imbarazzo il presidente? Ecco che spunta il video-gaffe di Romney sul 47% degli americani "poveri" che votano comunque Obama e quindi non interessano.

La Cnn, dunque non esattamente un covo di repubblicani, trova un diario su cui l'ambasciatore Stevens aveva annotato a mano le sue preoccupazioni per l'aumento, negli ultimi mesi, dell'estremismo islamico a Bengasi, e di temere di essere finito nel mirino di al Qaeda, contenuti che avvalorerebbero l'ipotesi della matrice terroristica dell'attacco, mettendo in imbarazzo l'amministrazione per essersi fatta cogliere di sorpresa nell'anniversario dell'11 settembre. Ed ecco che il Dipartimento di Stato monta una polemica-diversivo accusando la Cnn di scorrettezza per non aver restituito subito il diario di Stevens alla famiglia, come promesso.

L'emittente però rilancia la scomoda domanda, che fin dal primo giorno su questo blog abbiamo posto: «Ciò che emerge da queste pagine pone l'interrogativo sul perché il Dipartimento di Stato non ha fatto di più per proteggere l'ambasciatore e il personale americano». Già, perché il consolato, e l'ambasciatore Stevens, in una delle zone più calde e instabili del Medio Oriente, erano praticamente indifesi alla vigilia dell'anniversario dell'11 settembre?

Thursday, September 13, 2012

Basta scuse, su la testa

L'amministrazione Obama sta davvero scadendo nel grottesco. Il segretario di Stato Hillary Clinton continua a dissociarsi da un video amatoriale che nessuno ha visto, nessuno è davvero in grado di dire chi lo abbia prodotto e di che nazionalità sia (il mistero è fitto), né se la traduzione in arabo nel trailer è corretta. Insomma, c'è puzza di montatura lontano un miglio, tanto che il video sarebbe comparso su internet a luglio ma guarda caso solo alla vigilia dell'11 settembre qualcuno s'è preso la briga di tagliare un trailer e tradurlo in arabo.

Ebbene, la Clinton continua a condannare questo ridicolo video amatoriale, quando ormai è appurato che l'attacco al consolato di Bengasi non c'entra nulla (si è trattato di un assalto militare pianificato da tempo come rappresaglia alle operazioni Usa contro gli estremisti in Libia), mentre dovrebbe rivendicare la piena libertà d'espressione garantita in America (si brucia la bandiera nazionale, non si può girare un video su Maometto?) e piuttosto chiedere conto dei cristiani quotidianamente trucidati e perseguitati nei Paesi musulmani.

A leggere l'analisi di Maurizio Molinari sulla «pista che porta ad al Qaeda», su La Stampa, e la ricostruzione di Daniele Raineri, su Il Foglio, sembra emergere una grave sottovalutazione da parte delle autorità americane della possibilità di attacchi, soprattutto in Libia. Da maggio-giugno i droni americani stanno bombardando gli estremisti islamici nell'area di Bengasi. Da uno di questi attacchi, nel giugno scorso, è stato ucciso Abu Yahia al Libi, influente capo di al Qaeda. Sempre a giugno un primo attacco al consolato americano e un attentato con lanciarazzi all'ambasciatore britannico. Insomma, i rischi di ritorsione, di rappresaglia, erano elevatissimi (in particolare in concomitanza con l'anniversario dell'11 settembre), eppure uno degli obiettivi più sensibili era praticamente indifeso. Per tentare di salvare i funzionari del consolato sono dovuti partire in aereo da Tripoli, dopo l'attacco, 8 militari, i quali senza l'aiuto dei poliziotti libici avrebbero potuto ben poco e i morti ora sarebbero 25.

Liz Cheney, oggi sul Wall Street Journal, indica con precisione chirurgica il problema di fondo: con la politica estera di Obama in troppe parti del mondo gli Stati Uniti non sono più sufficientemente affidabili per gli alleati, né sufficientemente temibili per i nemici. Ed elenca tutti i messaggi sbagliati partiti dalla Casa Bianca e gli atti che hanno indebolito l'America:
«Apologizing for America, appeasing our enemies, abandoning our allies and slashing our military are the hallmarks of Mr. Obama's foreign policy».
Certo, tra un mese e mezzo ci sono le presidenziali, ora un colpo Obama è costretto a spararlo per non mostrarsi debole. Ma dove? Verso chi?

E questo film ridicolo, che potrebbe anche essere tutta una montatura, lo continuiamo ad offrire come pretesto agli integralisti islamici, in una rincorsa folle e senza fine alle loro paranoie e alla loro malafede. Non solo l'America, tutto l'Occidente ha un grosso problema di mancanza di autostima, roba da psicoanalisi di massa.

Wednesday, September 12, 2012

Il 12 settembre di Obama: la resa ideologica

Ciò che è accaduto ieri al Cairo e a Bengasi, e stamattina a Washington, è emblematico. Nulla avrebbe potuto spiegare meglio il significato del mio post di ieri sulla sensazione di un disarmo ideologico dell'Occidente di fronte alla minaccia terrorista islamica.

In mattinata viene diffusa dalle tv arabe la notizia (e subito dopo le drammatiche immagini) dell'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, di un altro funzionario e due marine, nell'attacco della notte al consolato Usa di Bengasi. Già ieri l'ambasciata Usa al Cairo era stata oggetto di una violenta manifestazione di protesta a causa di un film anti-islamico amatoriale, prodotto da cristiani copti espatriati in America. Bandiera strappata, violazione dell'ambasciata, qualche colpo in aria. Ma a Bengasi si è trattato di qualcosa di diverso dalla sassaiola di una folla spontanea: un assalto militare in piena regola, con armi pesanti, evidentemente pianificato (forse in coincidenza con l'11 settembre). Il consolato è dato alle fiamme, c'è almeno una vittima.

Poi si verrà a sapere che le vittime sono quattro, incluso l'ambasciatore. Ciò che più sconcerta - oltre alla sensazione che l'attacco sia stato sottovalutato e il consolato letteralmente abbandonato al suo destino da parte di Washington - è la reazione timida, cerchiobottista, di vera e propria sudditanza e resa ideologica da parte dell'amministrazione Obama.

Innanzitutto, il delirante comunicato e i tweet in cui l'ambasciata al Cairo chiede praticamente scusa per il film anti-islamico. Che sia stato diffuso prima o dopo i fatti di Bengasi poco importa a questo punto, conta il contenuto: si condannano «i continui sforzi da parte di individui fuorviati di ferire i sentimenti religiosi dei musulmani» e si rigettano «con forza gli abusi del diritto universale alla libertà d'espressione per offendere il credo religioso altrui». In pratica ci si scusa per i propri principi, e per un'offesa di cui gli Stati Uniti non hanno colpa, e che in ogni caso non avrebbe mai potuto giustificare la violenza. Un comunicato da cui solo sei ore più tardi la Casa Bianca si sarebbe dissociata («non l'abbiamo approvato»).

Poi nella notte viene ammazzato un ambasciatore statunitense e per ore la Casa Bianca tace. Sembra di rivedere lo sketch di Clint Eastwood che alla convention repubblicana parla con una sedia vuota dove dovrebbe essere seduto Obama. Un presidente assente, o dormiente. Arriverà presto un comunicato di scuse per il disagio causato ai musulmani?

Inizia a serpeggiare l'idea che Bengasi 2012 possa trasformarsi per Obama in ciò che rappresentò Teheran 1979 per Carter. Qualcuno comincia a rimpiangere Gheddafi e Mubarak. No, qui bisogna rimpiangere l'America, quella che non sapeva nemmeno cosa volesse dire abdicare ai suoi principi.

Finalmente, dopo ore, arriva una nota scritta del presidente Obama, nella quale «condanna fermamente l'ignobile attacco», ma in cui di nuovo traspare questa preoccupazione di scusarsi con i musulmani per le offese del film. Hanno appena ucciso un suo ambasciatore, ma Obama riesce a ricordare che gli Usa «respingono i tentativi di denigrare le religioni altrui», nella stessa frase in cui dichiara di «opporsi inequivocabilmente alla violenza senza senso». Il link è fatto, in qualche modo i due eventi - film offensivo e attacco - vengono accostati. Una condanna con "ma anche": Obama si oppone alla «violenza senza senso» dell'attacco, ma anche ai «tentativi di denigrare le religioni altrui».

Più convincente e presidenziale nel tono la dichiarazione successiva di Hillary Clinton rispetto a quella di Obama il patetico. Tanto che si rende necessaria una comparsata del presidente (con Hillary al suo fianco) per rafforzare il fiacco e cerchiobottista comunicato scritto qualche ora prima. Una dichiarazione di cinque minuti ben più tosta nella quale, senza rispondere a domande, il presidente ripete più volte che non può esservi alcuna giustificazione alla violenza, e promette che «sarà fatta giustizia», che «le autorità americane e quelle libiche lavoreranno per individuare e assicurare alla giustizia gli assassini».

Quello che più ripugna di questa triste storia è che molti, anche ai vertici dell'amministrazione Usa, si bevono ancora la cazzata che queste cose nascono da un film o da qualche vignetta offensiva. Certo, qualche fanatico che riesce ad aizzare una folla di suoi simili può esserci. Ma a Bengasi è accaduto qualcosa di diverso: un attacco militare, non una protesta. Secondo quanto riporta su twitter Daniele Raineri, inviato del Foglio, «c'è stata un'operazione militare di 'rescue' andata male, un aereo americano è arrivato ieri notte a Bengasi per salvare lo staff. Gli americani si erano rifugiati in una 'safe house' segreta, ma gli aggressori sapevano dov'era. E' seguito un conflitto a fuoco: due americani sono morti in questo secondo scontro, dopo la morte dell'ambasciatore». Una versione confermata da fonti Usa alla Cnn. Dunque, «un'operazione di 'rescue' andata male, spiega il ritardo nelle notizie e forse cambia anche il significato politico della storia».

Già, lo aggrava per Obama, diventa più simile a Teheran 1979: e se si è trattato di un puro e semplice attentato, e la protesta per il film amatoriale su Maometto era solo un diversivo, perché parlare ancora dei «tentativi di denigrare le religioni altrui»? Non è un problema di libertà d'espressione che ferisce i sentimenti dei musulmani, ma di terrorismo da una parte e mancanza di leadership dall'altra.

Il governo Usa conta come il due di picche al Cairo e a Tripoli (il presidente egiziano non ha ancora espresso una condanna per la violazione dell'ambasciata americana). Obama non ha affatto «guidato da dietro le quinte» le transizioni della primavera araba, le ha subite da sotto il tavolo. Leading from behind è stato solo uno slogan efficace per nascondere i suoi ritardi nella comprensione degli eventi e il suo vacillare nelle decisioni strategiche. In Libia è intervenuto per fare bella figura, perché si trattava di cacciare col minimo sforzo un pagliaccio, geopoliticamente ormai innocuo e indifeso, mentre con Assad, che ha dietro Iran e Russia, se la fa sotto, assiste immobile ad un massacro anche peggiore e al riarmo iraniano.