Anche su Rightnation.it
Tre scandali ciascuno dei quali, preso singolarmente, somiglia terribilmente ad un Watergate per il presidente Obama. A differenza di Nixon, manca (ancora) la "pistola fumante" che lo collega personalmente ai misfatti della sua amministrazione, ma politicamente ne è comunque responsabile: il "cover up" (l'insabbiamento) dell'attentato al consolato americano di Bengasi; la condotta persecutoria dell'Irs (l'agenzia delle entrate Usa) nei confronti dei suoi avversari politici; lo spionaggio ai danni dell'agenzia di stampa Ap. Ma le polemiche infuocate che oltreoceano si stanno abbattendo su Obama in Italia vengono relegate nelle ultime pagine dei giornali, o in fondo alle homepage dei siti internet, e solo accennate nei notiziari tv e radio, mentre si è letto di tutto, e viene discusso ogni singolo aspetto, della decisione di Angelina Jolie di farsi asportare i seni per "prevenire" il tumore. L'effetto è quello di una gigantesca operazione di distrazione di massa, che non sarebbe riuscita così bene se fosse stata orchestrata, mentre è solo il frutto del conformismo dei mainstream media.
SPIONAGGIO AP - Per due mesi (aprile-maggio 2012) il Dipartimento di Giustizia ha tenuto sotto controllo 20 utenze telefoniche dell'Associated Press, intercettando a loro insaputa le conversazioni di un centinaio di giornalisti, a caccia della talpa che dall'interno dell'amministrazione passava informazioni riservate all'agenzia di stampa. Un'azione così prolungata e invasiva, per altro non autorizzata dal procuratore generale in persona, Eric Holder, come da regolamento, ma dal suo vice Jim Cole, è senza precedenti. Che funzionari del governo abbiano messo sotto controllo un centinaio fra reporter, caporedattori e direzione, in pratica l'intera redazione centrale della maggiore agenzia di stampa Usa, ha il sapore del Watergate.
Se Hunt e Liddy erano i cosiddetti "plumbers" del presidente Nixon, un team ristretto incaricato di dare la caccia alle talpe interne all'amministrazione, Obama ha usato a questo scopo il Dipartimento di Giustizia, deputato a questo tipo di indagini. Peccato però che abbia fatto ricorso a metodi sporchi, a rischio di incostituzionalità, tanto da suscitare la vibrante indignazione anche del leggendario reporter del caso Watergate Carl Bernstein: «E' vergognoso, pericoloso, non ci sono scuse». Un «evento nucleare», l'ha definito Bernstein, secondo cui il vero scopo dell'indagine era intimidire chi parla con i giornalisti. Ed è irrilevante che la Casa Bianca non ne fosse al corrente, dal momento che scovare e punire le talpe è una politica centrale della presidenza Obama: ne ha perseguite penalmente già sei, più di tutti i predecessori messi insieme. Stavolta anche la stampa amica del presidente, dal Washington Post al New York Times, non ha potuto far altro che esprimere forti preoccupazioni e biasimare i metodi dell'amministrazione, che rischia di trovarsi in violazione del I emendamento (che tutela la libertà di stampa) e del IV (che garantisce i cittadini contro indebite violazioni della sfera personale). Niente di lontanamente paragonabile al caso dell'agente Valerie Plame per cui fu messo in croce Bush.
CASO IRS - E sa di Watergate anche il caso dell'Irs, l'agenzia delle entrate Usa, che ha preso intenzionalmente di mira, trattandole come sospetti evasori, associazioni di destra, del movimento anti-tasse o che proclamano di voler difendere la Costituzione, ossia i più acerrimi nemici dell'amministrazione Obama, per la sola presenza di parole come "tea party" o "patriot" nel loro nome. Le loro pratiche per l'esenzione dal pagamento delle tasse hanno subito un deliberato ostruzionismo da parte dell'Irs (ritardi e controlli non necessari). Per oltre 18 mesi dal 2010, afferma un rapporto del Dipartimento del Tesoro citato dalla Cnn, l'Irs ha sviluppato e applicato una politica scorretta per determinare se i richiedenti fossero o meno coinvolti in attività politiche.
Condotta «inappropriata», ha ammesso il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. «No, usare per il piatto principale la forchetta per l'insalata è inappropriato. Usare l'Irs per scopi politici è un reato», ha osservato l'editorialista del WaPost George Will, che parla di «echi di Watergate». Ecco quanto si legge, infatti, tra gli articoli per l'impeachment contro Nixon, adottati nel 1974 dalla Commissione giudiziaria della Camera. «He (Nixon, ndr) has, acting personally and through his subordinates and agents, endeavored to... cause, in violation of the constitutional rights of citizens, income tax audits or other income tax investigations to be initiated or conducted in a discriminatory manner».
BUGIE SU BENGASI - Amministrazione Obama sotto accusa anche per la gestione dell'attentato al consolato di Bengasi dell'11 settembre scorso. Dalle audizioni del Congresso sta emergendo che non solo c'è stata una vera e propria operazione di insabbiamento della natura dell'attacco e della ricostruzione degli eventi, ma che si poteva fare molto di più per salvare la vita dell'ambasciatore e delle altre tre vittime americane. La testimonianza dell'ex vice ambasciatore Gregory Hicks, secondo cui le forze speciali americane sarebbero potute intervenire ma avrebbero ricevuto l'ordine di non muoversi, contraddice quanto detto in precedenza dall'amministrazione, e in particolare dall'ex segretario di Stato Hillary Clinton. La matrice terrorista dell'attacco al consolato, inoltre, fu chiara fin dai primi momenti e a Washington ne erano perfettamente al corrente, ma giorni dopo ancora si sosteneva la versione delle proteste per un video amatoriale su Maometto.
Le e-mail scambiate durante e dopo la crisi fra Dipartimento di Stato, Cia, direttore dell'intelligente e Casa Bianca, e consegnate al Congresso, avvalorano la tesi di Hicks. L'ufficio sicurezza del Dipartimento comprese subito, ad assalto in corso, che si trattava di jihadisti. Il primo rapporto della Cia parlava di «estremisti di Al Qaeda», alcuni «legati ad Ansar al Sharia», ma queste frasi vennero fatte sparire nelle versioni successive su richiesta di una portavoce del segretario di Stato Clinton. Nell'ultima, al posto di «attacco» si parla di «violente dimostrazioni», e ogni riferimento ad Al Qaeda è sostituito da un generico «estremisti». Non solo, dunque, un insabbiamento mediatico nei giorni immediatamente successivi all'attacco e - ricordiamo - vicinissimi al voto per le presidenziali, ma anche un insabbiamento, dinanzi al Congresso, degli errori commessi dall'amministrazione.
Nessun altro presidente americano, probabilmente, ha beneficiato come Obama di una narrazione, e di conseguenza di una copertura mediatica, così positiva. Si può dire che sia addirittura diventato presidente grazie a quella narrazione così carica di passione e speranza. Ora però pesantissimi dubbi si stanno addensando sui metodi con cui Obama e la sua amministrazione "curano" la narrazione degli eventi e si occupano degli avversari politici: manipolazione, intimidazione e violazione dei diritti costituzionali.
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Wednesday, May 15, 2013
Wednesday, October 17, 2012
Vittoria striminzita di Obama, debacle dei media
Anche su Rightnation.it
Nulla a che vedere con la sconfitta che Romney ha inflitto al presidente nel primo dibattito, a Denver. E' stata una vittoria striminzita quella di Obama ieri sera, nel secondo match televisivo. Lo dimostrano anche i numeri dei sondaggi post-debate della Cbs, non esattamente un covo di repubblicani: 37 a 30% per Obama, con un 33% che ha visto un pareggio. Nessun dubbio, invece, sul fatto che Romney è sembrato di gran lunga più convincente di Obama sull'economia: 65-34%. Se l'impressione complessiva premia il presidente anche per la Cnn (46-39%), anche qui su tutti i principali temi economici i telespettatori hanno visto Romney più convincente (58-40% sull'economia, 49-46% sulla sanità, 51-44% sulle tasse e 59-36% sul deficit).
Anche se Obama ha forse centrato l'obiettivo minimo, quello di cancellare l'immagine di un presidente con le pile scariche, da pugile suonato e remissivo, trasmessa a Denver, non credo sia riuscito ad invertire il trend pro-Romney, al massimo ad arrestarlo.
Ma l'aspetto più degno di nota del dibattito di ieri è senza alcun dubbio la scorrettezza della moderatrice. Il momento cruciale quando la giornalista della Cnn, Candy Crowley, ha confermato in diretta la versione falsa di Obama, salvando il presidente da un vero e proprio colpo da ko sull'attacco di Bengasi costato la vita all'ambasciatore Stevens (qui il video).
Rispondendo alla domanda Obama ha mentito, dicendo che «the day after the attack... I told the American people (...) That this was an act of terror». Al che Romney ha replicato che «ci sono voluti 14 giorni prima che il presidente definisse l'attacco di Bengasi un act of terror». All'invito del presidente di prendere la trascrizione la conduttrice è intervenuta dando ragione ad Obama (e scandendo meglio su suo invito: «Can you say that a little louder, Candy?»). Ma non è così: Obama ha in effetti pronunciato le parole «act of terror» in quel discorso al Rose Garden, ma in generale, di sicuro non come definizione della natura dell'attacco al consolato di Bengasi (qui la trascrizione), mentre anche la conduttrice ha concesso a Romney che per molto tempo l'amministrazione ha lasciato intendere che l'attacco fosse legato al video oltraggioso della figura di Maometto.
Su tutti i siti italiani, ovviamente, è finito «lo scivolone di Romney sulla Libia», ma la notizia non è Romney che «balbetta», o che «si è fatto fregare», bensì la moderatrice che in diretta arriva ad avvalorare un'affermazione falsa di Obama pur di evitargli un colpo da ko. Cosa avrebbe potuto Romney, senza carte in mano, contro due (di cui uno in teoria imparziale) che affermavano il falso? Certo che il punto è andato a Obama, ma non si è trattato di un autogol di Romney, bensì di un rigore inesistente concesso a Obama da un arbitro di parte.
La Crowley come un'Annunziata qualsiasi, dalla selezione delle domande alle interruzioni, fino alla scena madre. Non ricordo un dibattito presidenziale condotto in modo così fazioso come quello di ieri. Un segnale davvero brutto per i media americani, sempre più incapaci di imparzialità, ormai persino nel condurre i dibattiti presidenziali. In tutti e tre quelli finora svolti un repentino cambio di argomento ha troppo spesso tolto Obama dall'imbarazzo e neanche nei tempi è stata rispettata la "par condicio" tra i candidati, come sottolinea Nardelli su Rightnation.it: Romney e Ryan hanno parlato per un totale di 119 minuti e 33 secondi, Obama e Biden invece per 128 e 26. Una differenza di ben 8 minuti e 53 secondi (42:50 a 38:32 nel primo dibattito, 41:32 a 40:11 in quello tra i vice, 44:04 a 40:50 nel secondo).
E dinanzi alla screanzata partigianeria dei media Usa, la mancanza (ma non è una novità) di spirito critico e coraggio dei media e dei giornalisti italiani, persino quelli non di sinistra. Piuttosto che andare controcorrente, più a loro agio con le analisi paludate, più elegante lo sfoggio di terzismo.
Nulla a che vedere con la sconfitta che Romney ha inflitto al presidente nel primo dibattito, a Denver. E' stata una vittoria striminzita quella di Obama ieri sera, nel secondo match televisivo. Lo dimostrano anche i numeri dei sondaggi post-debate della Cbs, non esattamente un covo di repubblicani: 37 a 30% per Obama, con un 33% che ha visto un pareggio. Nessun dubbio, invece, sul fatto che Romney è sembrato di gran lunga più convincente di Obama sull'economia: 65-34%. Se l'impressione complessiva premia il presidente anche per la Cnn (46-39%), anche qui su tutti i principali temi economici i telespettatori hanno visto Romney più convincente (58-40% sull'economia, 49-46% sulla sanità, 51-44% sulle tasse e 59-36% sul deficit).
Anche se Obama ha forse centrato l'obiettivo minimo, quello di cancellare l'immagine di un presidente con le pile scariche, da pugile suonato e remissivo, trasmessa a Denver, non credo sia riuscito ad invertire il trend pro-Romney, al massimo ad arrestarlo.
Ma l'aspetto più degno di nota del dibattito di ieri è senza alcun dubbio la scorrettezza della moderatrice. Il momento cruciale quando la giornalista della Cnn, Candy Crowley, ha confermato in diretta la versione falsa di Obama, salvando il presidente da un vero e proprio colpo da ko sull'attacco di Bengasi costato la vita all'ambasciatore Stevens (qui il video).
Rispondendo alla domanda Obama ha mentito, dicendo che «the day after the attack... I told the American people (...) That this was an act of terror». Al che Romney ha replicato che «ci sono voluti 14 giorni prima che il presidente definisse l'attacco di Bengasi un act of terror». All'invito del presidente di prendere la trascrizione la conduttrice è intervenuta dando ragione ad Obama (e scandendo meglio su suo invito: «Can you say that a little louder, Candy?»). Ma non è così: Obama ha in effetti pronunciato le parole «act of terror» in quel discorso al Rose Garden, ma in generale, di sicuro non come definizione della natura dell'attacco al consolato di Bengasi (qui la trascrizione), mentre anche la conduttrice ha concesso a Romney che per molto tempo l'amministrazione ha lasciato intendere che l'attacco fosse legato al video oltraggioso della figura di Maometto.
Su tutti i siti italiani, ovviamente, è finito «lo scivolone di Romney sulla Libia», ma la notizia non è Romney che «balbetta», o che «si è fatto fregare», bensì la moderatrice che in diretta arriva ad avvalorare un'affermazione falsa di Obama pur di evitargli un colpo da ko. Cosa avrebbe potuto Romney, senza carte in mano, contro due (di cui uno in teoria imparziale) che affermavano il falso? Certo che il punto è andato a Obama, ma non si è trattato di un autogol di Romney, bensì di un rigore inesistente concesso a Obama da un arbitro di parte.
La Crowley come un'Annunziata qualsiasi, dalla selezione delle domande alle interruzioni, fino alla scena madre. Non ricordo un dibattito presidenziale condotto in modo così fazioso come quello di ieri. Un segnale davvero brutto per i media americani, sempre più incapaci di imparzialità, ormai persino nel condurre i dibattiti presidenziali. In tutti e tre quelli finora svolti un repentino cambio di argomento ha troppo spesso tolto Obama dall'imbarazzo e neanche nei tempi è stata rispettata la "par condicio" tra i candidati, come sottolinea Nardelli su Rightnation.it: Romney e Ryan hanno parlato per un totale di 119 minuti e 33 secondi, Obama e Biden invece per 128 e 26. Una differenza di ben 8 minuti e 53 secondi (42:50 a 38:32 nel primo dibattito, 41:32 a 40:11 in quello tra i vice, 44:04 a 40:50 nel secondo).
E dinanzi alla screanzata partigianeria dei media Usa, la mancanza (ma non è una novità) di spirito critico e coraggio dei media e dei giornalisti italiani, persino quelli non di sinistra. Piuttosto che andare controcorrente, più a loro agio con le analisi paludate, più elegante lo sfoggio di terzismo.
Thursday, October 11, 2012
Il Bengasi-Gate di Obama
Anche su Rightnation.it
Si mette male per Obama mentre ci si avvicina al secondo dibattito televisivo, che verterà anche sulla politica estera. E oggi sarà il turno dei candidati vice sfidarsi in tv. Un video rubato può distrarre l'attenzione del pubblico per qualche giorno, ma le responsabilità, quando ci sono, tendono a venire a galla. Erano già emerse da un'approfondita inchiesta del Wall Street Journal di qualche giorno fa, ma ora arrivano conferme anche da vie più ufficiali. In poche ore, davanti ad una Commissione d'inchiesta del Congresso (qui il video) sull'uccisione dell'ambasciatore Stevens a Bengasi, le deposizioni di alcuni funzionari impegnati sul campo inchiodano l'amministrazione alle sue responsabilità: la sicurezza al consolato di Bengasi era «debole e in peggioramento». Nonostante gli attacchi in aumento, nei mesi precedenti, a Bengasi e nel resto della Libia, e le minacce specifiche contro l'ambasciatore Stevens, le richieste di rinforzi sono cadute nel vuoto. Anzi, la sicurezza sarebbe stata ulteriormente ridotta. Perché si voleva dare l'idea della «normalizzazione», è la tesi dei congressmen dell'opposizione repubblicana. Ma una cosa appare certa: l'amministrazione Obama ha sollevato un polverone sulla natura dell'attacco per non ammettere, in piena campagna elettorale, il successo militare di al Qaeda o dei suoi affiliati.
Alcuni punti fermi sono emersi con chiarezza, scrive il Wall Street Journal:
1) Non c'è stata alcuna manifestazione contro il famigerato film su Maometto, eppure per oltre una settimana funzionari dell'amministrazione Obama, compresa la rappresentante all'Onu, Susan Rice, hanno continuato a legare l'accaduto alla "rabbia" contro il film. Ma già entro le prime 24 ore era chiara, e nota all'amministrazione, la natura terroristica dell'attacco, come confermato dall'ex capo della sicurezza a Tripoli, Andrew Wood: gli attacchi erano «immediatamente riconoscibili come terroristici» e «quasi me l'aspettavo l'attacco, era questione di tempo».
2) Il Dipartimento di Stato ha rigettato ripetute richieste di aumentare la sicurezza della missione in Libia, in particolare la richiesta di tenere un DC-3 di appoggio nel paese. Anzi, l'ha ulteriormente ridotta nei mesi immediatamente precedenti l'attacco. Nonostante la Gran Bretagna e la Croce Rossa, dopo gli attacchi subiti (l'11 giugno il convoglio dell'ambasciatore britannico era stato colpito da una granata da lanciarazzi), avessero deciso addirittura di andarsene da Bengasi. E nessuna misura di sicurezza speciale è stata presa in occasione dell'anniversario dell'11 settembre. Eric Nordstrom, funzionario del Dipartimento di Stato deputato alla sicurezza in Libia fino al luglio scorso, ha ammesso di essersi sentito «frustrato» per la «completa e totale assenza di programmazione» per la sicurezza. L'amministrazione si è affidata completamente al governo libico, che era palesemente «sopraffatto e non in grado di garantire la nostra sicurezza».
3) Inoltre, ad attacco in corso la Casa Bianca non ha mai seriamente considerato l'ipotesi di intervenire militarmente a Bengasi, scegliendo invece di rivolgersi solo alla sicurezza libica (che per altro è riuscita a scongiurare un numero di vittime molto superiore). L'ipotesi venne scartata, perché avrebbe costituito una violazione della sovranità libica.
Si mette male per Obama mentre ci si avvicina al secondo dibattito televisivo, che verterà anche sulla politica estera. E oggi sarà il turno dei candidati vice sfidarsi in tv. Un video rubato può distrarre l'attenzione del pubblico per qualche giorno, ma le responsabilità, quando ci sono, tendono a venire a galla. Erano già emerse da un'approfondita inchiesta del Wall Street Journal di qualche giorno fa, ma ora arrivano conferme anche da vie più ufficiali. In poche ore, davanti ad una Commissione d'inchiesta del Congresso (qui il video) sull'uccisione dell'ambasciatore Stevens a Bengasi, le deposizioni di alcuni funzionari impegnati sul campo inchiodano l'amministrazione alle sue responsabilità: la sicurezza al consolato di Bengasi era «debole e in peggioramento». Nonostante gli attacchi in aumento, nei mesi precedenti, a Bengasi e nel resto della Libia, e le minacce specifiche contro l'ambasciatore Stevens, le richieste di rinforzi sono cadute nel vuoto. Anzi, la sicurezza sarebbe stata ulteriormente ridotta. Perché si voleva dare l'idea della «normalizzazione», è la tesi dei congressmen dell'opposizione repubblicana. Ma una cosa appare certa: l'amministrazione Obama ha sollevato un polverone sulla natura dell'attacco per non ammettere, in piena campagna elettorale, il successo militare di al Qaeda o dei suoi affiliati.
Alcuni punti fermi sono emersi con chiarezza, scrive il Wall Street Journal:
1) Non c'è stata alcuna manifestazione contro il famigerato film su Maometto, eppure per oltre una settimana funzionari dell'amministrazione Obama, compresa la rappresentante all'Onu, Susan Rice, hanno continuato a legare l'accaduto alla "rabbia" contro il film. Ma già entro le prime 24 ore era chiara, e nota all'amministrazione, la natura terroristica dell'attacco, come confermato dall'ex capo della sicurezza a Tripoli, Andrew Wood: gli attacchi erano «immediatamente riconoscibili come terroristici» e «quasi me l'aspettavo l'attacco, era questione di tempo».
2) Il Dipartimento di Stato ha rigettato ripetute richieste di aumentare la sicurezza della missione in Libia, in particolare la richiesta di tenere un DC-3 di appoggio nel paese. Anzi, l'ha ulteriormente ridotta nei mesi immediatamente precedenti l'attacco. Nonostante la Gran Bretagna e la Croce Rossa, dopo gli attacchi subiti (l'11 giugno il convoglio dell'ambasciatore britannico era stato colpito da una granata da lanciarazzi), avessero deciso addirittura di andarsene da Bengasi. E nessuna misura di sicurezza speciale è stata presa in occasione dell'anniversario dell'11 settembre. Eric Nordstrom, funzionario del Dipartimento di Stato deputato alla sicurezza in Libia fino al luglio scorso, ha ammesso di essersi sentito «frustrato» per la «completa e totale assenza di programmazione» per la sicurezza. L'amministrazione si è affidata completamente al governo libico, che era palesemente «sopraffatto e non in grado di garantire la nostra sicurezza».
3) Inoltre, ad attacco in corso la Casa Bianca non ha mai seriamente considerato l'ipotesi di intervenire militarmente a Bengasi, scegliendo invece di rivolgersi solo alla sicurezza libica (che per altro è riuscita a scongiurare un numero di vittime molto superiore). L'ipotesi venne scartata, perché avrebbe costituito una violazione della sovranità libica.
Thursday, September 13, 2012
Basta scuse, su la testa
L'amministrazione Obama sta davvero scadendo nel grottesco. Il segretario di Stato Hillary Clinton continua a dissociarsi da un video amatoriale che nessuno ha visto, nessuno è davvero in grado di dire chi lo abbia prodotto e di che nazionalità sia (il mistero è fitto), né se la traduzione in arabo nel trailer è corretta. Insomma, c'è puzza di montatura lontano un miglio, tanto che il video sarebbe comparso su internet a luglio ma guarda caso solo alla vigilia dell'11 settembre qualcuno s'è preso la briga di tagliare un trailer e tradurlo in arabo.
Ebbene, la Clinton continua a condannare questo ridicolo video amatoriale, quando ormai è appurato che l'attacco al consolato di Bengasi non c'entra nulla (si è trattato di un assalto militare pianificato da tempo come rappresaglia alle operazioni Usa contro gli estremisti in Libia), mentre dovrebbe rivendicare la piena libertà d'espressione garantita in America (si brucia la bandiera nazionale, non si può girare un video su Maometto?) e piuttosto chiedere conto dei cristiani quotidianamente trucidati e perseguitati nei Paesi musulmani.
A leggere l'analisi di Maurizio Molinari sulla «pista che porta ad al Qaeda», su La Stampa, e la ricostruzione di Daniele Raineri, su Il Foglio, sembra emergere una grave sottovalutazione da parte delle autorità americane della possibilità di attacchi, soprattutto in Libia. Da maggio-giugno i droni americani stanno bombardando gli estremisti islamici nell'area di Bengasi. Da uno di questi attacchi, nel giugno scorso, è stato ucciso Abu Yahia al Libi, influente capo di al Qaeda. Sempre a giugno un primo attacco al consolato americano e un attentato con lanciarazzi all'ambasciatore britannico. Insomma, i rischi di ritorsione, di rappresaglia, erano elevatissimi (in particolare in concomitanza con l'anniversario dell'11 settembre), eppure uno degli obiettivi più sensibili era praticamente indifeso. Per tentare di salvare i funzionari del consolato sono dovuti partire in aereo da Tripoli, dopo l'attacco, 8 militari, i quali senza l'aiuto dei poliziotti libici avrebbero potuto ben poco e i morti ora sarebbero 25.
Liz Cheney, oggi sul Wall Street Journal, indica con precisione chirurgica il problema di fondo: con la politica estera di Obama in troppe parti del mondo gli Stati Uniti non sono più sufficientemente affidabili per gli alleati, né sufficientemente temibili per i nemici. Ed elenca tutti i messaggi sbagliati partiti dalla Casa Bianca e gli atti che hanno indebolito l'America:
E questo film ridicolo, che potrebbe anche essere tutta una montatura, lo continuiamo ad offrire come pretesto agli integralisti islamici, in una rincorsa folle e senza fine alle loro paranoie e alla loro malafede. Non solo l'America, tutto l'Occidente ha un grosso problema di mancanza di autostima, roba da psicoanalisi di massa.
Ebbene, la Clinton continua a condannare questo ridicolo video amatoriale, quando ormai è appurato che l'attacco al consolato di Bengasi non c'entra nulla (si è trattato di un assalto militare pianificato da tempo come rappresaglia alle operazioni Usa contro gli estremisti in Libia), mentre dovrebbe rivendicare la piena libertà d'espressione garantita in America (si brucia la bandiera nazionale, non si può girare un video su Maometto?) e piuttosto chiedere conto dei cristiani quotidianamente trucidati e perseguitati nei Paesi musulmani.
A leggere l'analisi di Maurizio Molinari sulla «pista che porta ad al Qaeda», su La Stampa, e la ricostruzione di Daniele Raineri, su Il Foglio, sembra emergere una grave sottovalutazione da parte delle autorità americane della possibilità di attacchi, soprattutto in Libia. Da maggio-giugno i droni americani stanno bombardando gli estremisti islamici nell'area di Bengasi. Da uno di questi attacchi, nel giugno scorso, è stato ucciso Abu Yahia al Libi, influente capo di al Qaeda. Sempre a giugno un primo attacco al consolato americano e un attentato con lanciarazzi all'ambasciatore britannico. Insomma, i rischi di ritorsione, di rappresaglia, erano elevatissimi (in particolare in concomitanza con l'anniversario dell'11 settembre), eppure uno degli obiettivi più sensibili era praticamente indifeso. Per tentare di salvare i funzionari del consolato sono dovuti partire in aereo da Tripoli, dopo l'attacco, 8 militari, i quali senza l'aiuto dei poliziotti libici avrebbero potuto ben poco e i morti ora sarebbero 25.
Liz Cheney, oggi sul Wall Street Journal, indica con precisione chirurgica il problema di fondo: con la politica estera di Obama in troppe parti del mondo gli Stati Uniti non sono più sufficientemente affidabili per gli alleati, né sufficientemente temibili per i nemici. Ed elenca tutti i messaggi sbagliati partiti dalla Casa Bianca e gli atti che hanno indebolito l'America:
«Apologizing for America, appeasing our enemies, abandoning our allies and slashing our military are the hallmarks of Mr. Obama's foreign policy».Certo, tra un mese e mezzo ci sono le presidenziali, ora un colpo Obama è costretto a spararlo per non mostrarsi debole. Ma dove? Verso chi?
E questo film ridicolo, che potrebbe anche essere tutta una montatura, lo continuiamo ad offrire come pretesto agli integralisti islamici, in una rincorsa folle e senza fine alle loro paranoie e alla loro malafede. Non solo l'America, tutto l'Occidente ha un grosso problema di mancanza di autostima, roba da psicoanalisi di massa.
Wednesday, September 12, 2012
Il 12 settembre di Obama: la resa ideologica
Ciò che è accaduto ieri al Cairo e a Bengasi, e stamattina a Washington, è emblematico. Nulla avrebbe potuto spiegare meglio il significato del mio post di ieri sulla sensazione di un disarmo ideologico dell'Occidente di fronte alla minaccia terrorista islamica.
In mattinata viene diffusa dalle tv arabe la notizia (e subito dopo le drammatiche immagini) dell'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, di un altro funzionario e due marine, nell'attacco della notte al consolato Usa di Bengasi. Già ieri l'ambasciata Usa al Cairo era stata oggetto di una violenta manifestazione di protesta a causa di un film anti-islamico amatoriale, prodotto da cristiani copti espatriati in America. Bandiera strappata, violazione dell'ambasciata, qualche colpo in aria. Ma a Bengasi si è trattato di qualcosa di diverso dalla sassaiola di una folla spontanea: un assalto militare in piena regola, con armi pesanti, evidentemente pianificato (forse in coincidenza con l'11 settembre). Il consolato è dato alle fiamme, c'è almeno una vittima.
Poi si verrà a sapere che le vittime sono quattro, incluso l'ambasciatore. Ciò che più sconcerta - oltre alla sensazione che l'attacco sia stato sottovalutato e il consolato letteralmente abbandonato al suo destino da parte di Washington - è la reazione timida, cerchiobottista, di vera e propria sudditanza e resa ideologica da parte dell'amministrazione Obama.
Innanzitutto, il delirante comunicato e i tweet in cui l'ambasciata al Cairo chiede praticamente scusa per il film anti-islamico. Che sia stato diffuso prima o dopo i fatti di Bengasi poco importa a questo punto, conta il contenuto: si condannano «i continui sforzi da parte di individui fuorviati di ferire i sentimenti religiosi dei musulmani» e si rigettano «con forza gli abusi del diritto universale alla libertà d'espressione per offendere il credo religioso altrui». In pratica ci si scusa per i propri principi, e per un'offesa di cui gli Stati Uniti non hanno colpa, e che in ogni caso non avrebbe mai potuto giustificare la violenza. Un comunicato da cui solo sei ore più tardi la Casa Bianca si sarebbe dissociata («non l'abbiamo approvato»).
Poi nella notte viene ammazzato un ambasciatore statunitense e per ore la Casa Bianca tace. Sembra di rivedere lo sketch di Clint Eastwood che alla convention repubblicana parla con una sedia vuota dove dovrebbe essere seduto Obama. Un presidente assente, o dormiente. Arriverà presto un comunicato di scuse per il disagio causato ai musulmani?
Inizia a serpeggiare l'idea che Bengasi 2012 possa trasformarsi per Obama in ciò che rappresentò Teheran 1979 per Carter. Qualcuno comincia a rimpiangere Gheddafi e Mubarak. No, qui bisogna rimpiangere l'America, quella che non sapeva nemmeno cosa volesse dire abdicare ai suoi principi.
Finalmente, dopo ore, arriva una nota scritta del presidente Obama, nella quale «condanna fermamente l'ignobile attacco», ma in cui di nuovo traspare questa preoccupazione di scusarsi con i musulmani per le offese del film. Hanno appena ucciso un suo ambasciatore, ma Obama riesce a ricordare che gli Usa «respingono i tentativi di denigrare le religioni altrui», nella stessa frase in cui dichiara di «opporsi inequivocabilmente alla violenza senza senso». Il link è fatto, in qualche modo i due eventi - film offensivo e attacco - vengono accostati. Una condanna con "ma anche": Obama si oppone alla «violenza senza senso» dell'attacco, ma anche ai «tentativi di denigrare le religioni altrui».
Più convincente e presidenziale nel tono la dichiarazione successiva di Hillary Clinton rispetto a quella di Obama il patetico. Tanto che si rende necessaria una comparsata del presidente (con Hillary al suo fianco) per rafforzare il fiacco e cerchiobottista comunicato scritto qualche ora prima. Una dichiarazione di cinque minuti ben più tosta nella quale, senza rispondere a domande, il presidente ripete più volte che non può esservi alcuna giustificazione alla violenza, e promette che «sarà fatta giustizia», che «le autorità americane e quelle libiche lavoreranno per individuare e assicurare alla giustizia gli assassini».
Quello che più ripugna di questa triste storia è che molti, anche ai vertici dell'amministrazione Usa, si bevono ancora la cazzata che queste cose nascono da un film o da qualche vignetta offensiva. Certo, qualche fanatico che riesce ad aizzare una folla di suoi simili può esserci. Ma a Bengasi è accaduto qualcosa di diverso: un attacco militare, non una protesta. Secondo quanto riporta su twitter Daniele Raineri, inviato del Foglio, «c'è stata un'operazione militare di 'rescue' andata male, un aereo americano è arrivato ieri notte a Bengasi per salvare lo staff. Gli americani si erano rifugiati in una 'safe house' segreta, ma gli aggressori sapevano dov'era. E' seguito un conflitto a fuoco: due americani sono morti in questo secondo scontro, dopo la morte dell'ambasciatore». Una versione confermata da fonti Usa alla Cnn. Dunque, «un'operazione di 'rescue' andata male, spiega il ritardo nelle notizie e forse cambia anche il significato politico della storia».
Già, lo aggrava per Obama, diventa più simile a Teheran 1979: e se si è trattato di un puro e semplice attentato, e la protesta per il film amatoriale su Maometto era solo un diversivo, perché parlare ancora dei «tentativi di denigrare le religioni altrui»? Non è un problema di libertà d'espressione che ferisce i sentimenti dei musulmani, ma di terrorismo da una parte e mancanza di leadership dall'altra.
Il governo Usa conta come il due di picche al Cairo e a Tripoli (il presidente egiziano non ha ancora espresso una condanna per la violazione dell'ambasciata americana). Obama non ha affatto «guidato da dietro le quinte» le transizioni della primavera araba, le ha subite da sotto il tavolo. Leading from behind è stato solo uno slogan efficace per nascondere i suoi ritardi nella comprensione degli eventi e il suo vacillare nelle decisioni strategiche. In Libia è intervenuto per fare bella figura, perché si trattava di cacciare col minimo sforzo un pagliaccio, geopoliticamente ormai innocuo e indifeso, mentre con Assad, che ha dietro Iran e Russia, se la fa sotto, assiste immobile ad un massacro anche peggiore e al riarmo iraniano.
In mattinata viene diffusa dalle tv arabe la notizia (e subito dopo le drammatiche immagini) dell'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, di un altro funzionario e due marine, nell'attacco della notte al consolato Usa di Bengasi. Già ieri l'ambasciata Usa al Cairo era stata oggetto di una violenta manifestazione di protesta a causa di un film anti-islamico amatoriale, prodotto da cristiani copti espatriati in America. Bandiera strappata, violazione dell'ambasciata, qualche colpo in aria. Ma a Bengasi si è trattato di qualcosa di diverso dalla sassaiola di una folla spontanea: un assalto militare in piena regola, con armi pesanti, evidentemente pianificato (forse in coincidenza con l'11 settembre). Il consolato è dato alle fiamme, c'è almeno una vittima.
Poi si verrà a sapere che le vittime sono quattro, incluso l'ambasciatore. Ciò che più sconcerta - oltre alla sensazione che l'attacco sia stato sottovalutato e il consolato letteralmente abbandonato al suo destino da parte di Washington - è la reazione timida, cerchiobottista, di vera e propria sudditanza e resa ideologica da parte dell'amministrazione Obama.
Innanzitutto, il delirante comunicato e i tweet in cui l'ambasciata al Cairo chiede praticamente scusa per il film anti-islamico. Che sia stato diffuso prima o dopo i fatti di Bengasi poco importa a questo punto, conta il contenuto: si condannano «i continui sforzi da parte di individui fuorviati di ferire i sentimenti religiosi dei musulmani» e si rigettano «con forza gli abusi del diritto universale alla libertà d'espressione per offendere il credo religioso altrui». In pratica ci si scusa per i propri principi, e per un'offesa di cui gli Stati Uniti non hanno colpa, e che in ogni caso non avrebbe mai potuto giustificare la violenza. Un comunicato da cui solo sei ore più tardi la Casa Bianca si sarebbe dissociata («non l'abbiamo approvato»).
Poi nella notte viene ammazzato un ambasciatore statunitense e per ore la Casa Bianca tace. Sembra di rivedere lo sketch di Clint Eastwood che alla convention repubblicana parla con una sedia vuota dove dovrebbe essere seduto Obama. Un presidente assente, o dormiente. Arriverà presto un comunicato di scuse per il disagio causato ai musulmani?
Inizia a serpeggiare l'idea che Bengasi 2012 possa trasformarsi per Obama in ciò che rappresentò Teheran 1979 per Carter. Qualcuno comincia a rimpiangere Gheddafi e Mubarak. No, qui bisogna rimpiangere l'America, quella che non sapeva nemmeno cosa volesse dire abdicare ai suoi principi.
Finalmente, dopo ore, arriva una nota scritta del presidente Obama, nella quale «condanna fermamente l'ignobile attacco», ma in cui di nuovo traspare questa preoccupazione di scusarsi con i musulmani per le offese del film. Hanno appena ucciso un suo ambasciatore, ma Obama riesce a ricordare che gli Usa «respingono i tentativi di denigrare le religioni altrui», nella stessa frase in cui dichiara di «opporsi inequivocabilmente alla violenza senza senso». Il link è fatto, in qualche modo i due eventi - film offensivo e attacco - vengono accostati. Una condanna con "ma anche": Obama si oppone alla «violenza senza senso» dell'attacco, ma anche ai «tentativi di denigrare le religioni altrui».
Più convincente e presidenziale nel tono la dichiarazione successiva di Hillary Clinton rispetto a quella di Obama il patetico. Tanto che si rende necessaria una comparsata del presidente (con Hillary al suo fianco) per rafforzare il fiacco e cerchiobottista comunicato scritto qualche ora prima. Una dichiarazione di cinque minuti ben più tosta nella quale, senza rispondere a domande, il presidente ripete più volte che non può esservi alcuna giustificazione alla violenza, e promette che «sarà fatta giustizia», che «le autorità americane e quelle libiche lavoreranno per individuare e assicurare alla giustizia gli assassini».
Quello che più ripugna di questa triste storia è che molti, anche ai vertici dell'amministrazione Usa, si bevono ancora la cazzata che queste cose nascono da un film o da qualche vignetta offensiva. Certo, qualche fanatico che riesce ad aizzare una folla di suoi simili può esserci. Ma a Bengasi è accaduto qualcosa di diverso: un attacco militare, non una protesta. Secondo quanto riporta su twitter Daniele Raineri, inviato del Foglio, «c'è stata un'operazione militare di 'rescue' andata male, un aereo americano è arrivato ieri notte a Bengasi per salvare lo staff. Gli americani si erano rifugiati in una 'safe house' segreta, ma gli aggressori sapevano dov'era. E' seguito un conflitto a fuoco: due americani sono morti in questo secondo scontro, dopo la morte dell'ambasciatore». Una versione confermata da fonti Usa alla Cnn. Dunque, «un'operazione di 'rescue' andata male, spiega il ritardo nelle notizie e forse cambia anche il significato politico della storia».
Già, lo aggrava per Obama, diventa più simile a Teheran 1979: e se si è trattato di un puro e semplice attentato, e la protesta per il film amatoriale su Maometto era solo un diversivo, perché parlare ancora dei «tentativi di denigrare le religioni altrui»? Non è un problema di libertà d'espressione che ferisce i sentimenti dei musulmani, ma di terrorismo da una parte e mancanza di leadership dall'altra.
Il governo Usa conta come il due di picche al Cairo e a Tripoli (il presidente egiziano non ha ancora espresso una condanna per la violazione dell'ambasciata americana). Obama non ha affatto «guidato da dietro le quinte» le transizioni della primavera araba, le ha subite da sotto il tavolo. Leading from behind è stato solo uno slogan efficace per nascondere i suoi ritardi nella comprensione degli eventi e il suo vacillare nelle decisioni strategiche. In Libia è intervenuto per fare bella figura, perché si trattava di cacciare col minimo sforzo un pagliaccio, geopoliticamente ormai innocuo e indifeso, mentre con Assad, che ha dietro Iran e Russia, se la fa sotto, assiste immobile ad un massacro anche peggiore e al riarmo iraniano.
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