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Thursday, September 13, 2012

Basta scuse, su la testa

L'amministrazione Obama sta davvero scadendo nel grottesco. Il segretario di Stato Hillary Clinton continua a dissociarsi da un video amatoriale che nessuno ha visto, nessuno è davvero in grado di dire chi lo abbia prodotto e di che nazionalità sia (il mistero è fitto), né se la traduzione in arabo nel trailer è corretta. Insomma, c'è puzza di montatura lontano un miglio, tanto che il video sarebbe comparso su internet a luglio ma guarda caso solo alla vigilia dell'11 settembre qualcuno s'è preso la briga di tagliare un trailer e tradurlo in arabo.

Ebbene, la Clinton continua a condannare questo ridicolo video amatoriale, quando ormai è appurato che l'attacco al consolato di Bengasi non c'entra nulla (si è trattato di un assalto militare pianificato da tempo come rappresaglia alle operazioni Usa contro gli estremisti in Libia), mentre dovrebbe rivendicare la piena libertà d'espressione garantita in America (si brucia la bandiera nazionale, non si può girare un video su Maometto?) e piuttosto chiedere conto dei cristiani quotidianamente trucidati e perseguitati nei Paesi musulmani.

A leggere l'analisi di Maurizio Molinari sulla «pista che porta ad al Qaeda», su La Stampa, e la ricostruzione di Daniele Raineri, su Il Foglio, sembra emergere una grave sottovalutazione da parte delle autorità americane della possibilità di attacchi, soprattutto in Libia. Da maggio-giugno i droni americani stanno bombardando gli estremisti islamici nell'area di Bengasi. Da uno di questi attacchi, nel giugno scorso, è stato ucciso Abu Yahia al Libi, influente capo di al Qaeda. Sempre a giugno un primo attacco al consolato americano e un attentato con lanciarazzi all'ambasciatore britannico. Insomma, i rischi di ritorsione, di rappresaglia, erano elevatissimi (in particolare in concomitanza con l'anniversario dell'11 settembre), eppure uno degli obiettivi più sensibili era praticamente indifeso. Per tentare di salvare i funzionari del consolato sono dovuti partire in aereo da Tripoli, dopo l'attacco, 8 militari, i quali senza l'aiuto dei poliziotti libici avrebbero potuto ben poco e i morti ora sarebbero 25.

Liz Cheney, oggi sul Wall Street Journal, indica con precisione chirurgica il problema di fondo: con la politica estera di Obama in troppe parti del mondo gli Stati Uniti non sono più sufficientemente affidabili per gli alleati, né sufficientemente temibili per i nemici. Ed elenca tutti i messaggi sbagliati partiti dalla Casa Bianca e gli atti che hanno indebolito l'America:
«Apologizing for America, appeasing our enemies, abandoning our allies and slashing our military are the hallmarks of Mr. Obama's foreign policy».
Certo, tra un mese e mezzo ci sono le presidenziali, ora un colpo Obama è costretto a spararlo per non mostrarsi debole. Ma dove? Verso chi?

E questo film ridicolo, che potrebbe anche essere tutta una montatura, lo continuiamo ad offrire come pretesto agli integralisti islamici, in una rincorsa folle e senza fine alle loro paranoie e alla loro malafede. Non solo l'America, tutto l'Occidente ha un grosso problema di mancanza di autostima, roba da psicoanalisi di massa.

Wednesday, September 12, 2012

Il 12 settembre di Obama: la resa ideologica

Ciò che è accaduto ieri al Cairo e a Bengasi, e stamattina a Washington, è emblematico. Nulla avrebbe potuto spiegare meglio il significato del mio post di ieri sulla sensazione di un disarmo ideologico dell'Occidente di fronte alla minaccia terrorista islamica.

In mattinata viene diffusa dalle tv arabe la notizia (e subito dopo le drammatiche immagini) dell'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, di un altro funzionario e due marine, nell'attacco della notte al consolato Usa di Bengasi. Già ieri l'ambasciata Usa al Cairo era stata oggetto di una violenta manifestazione di protesta a causa di un film anti-islamico amatoriale, prodotto da cristiani copti espatriati in America. Bandiera strappata, violazione dell'ambasciata, qualche colpo in aria. Ma a Bengasi si è trattato di qualcosa di diverso dalla sassaiola di una folla spontanea: un assalto militare in piena regola, con armi pesanti, evidentemente pianificato (forse in coincidenza con l'11 settembre). Il consolato è dato alle fiamme, c'è almeno una vittima.

Poi si verrà a sapere che le vittime sono quattro, incluso l'ambasciatore. Ciò che più sconcerta - oltre alla sensazione che l'attacco sia stato sottovalutato e il consolato letteralmente abbandonato al suo destino da parte di Washington - è la reazione timida, cerchiobottista, di vera e propria sudditanza e resa ideologica da parte dell'amministrazione Obama.

Innanzitutto, il delirante comunicato e i tweet in cui l'ambasciata al Cairo chiede praticamente scusa per il film anti-islamico. Che sia stato diffuso prima o dopo i fatti di Bengasi poco importa a questo punto, conta il contenuto: si condannano «i continui sforzi da parte di individui fuorviati di ferire i sentimenti religiosi dei musulmani» e si rigettano «con forza gli abusi del diritto universale alla libertà d'espressione per offendere il credo religioso altrui». In pratica ci si scusa per i propri principi, e per un'offesa di cui gli Stati Uniti non hanno colpa, e che in ogni caso non avrebbe mai potuto giustificare la violenza. Un comunicato da cui solo sei ore più tardi la Casa Bianca si sarebbe dissociata («non l'abbiamo approvato»).

Poi nella notte viene ammazzato un ambasciatore statunitense e per ore la Casa Bianca tace. Sembra di rivedere lo sketch di Clint Eastwood che alla convention repubblicana parla con una sedia vuota dove dovrebbe essere seduto Obama. Un presidente assente, o dormiente. Arriverà presto un comunicato di scuse per il disagio causato ai musulmani?

Inizia a serpeggiare l'idea che Bengasi 2012 possa trasformarsi per Obama in ciò che rappresentò Teheran 1979 per Carter. Qualcuno comincia a rimpiangere Gheddafi e Mubarak. No, qui bisogna rimpiangere l'America, quella che non sapeva nemmeno cosa volesse dire abdicare ai suoi principi.

Finalmente, dopo ore, arriva una nota scritta del presidente Obama, nella quale «condanna fermamente l'ignobile attacco», ma in cui di nuovo traspare questa preoccupazione di scusarsi con i musulmani per le offese del film. Hanno appena ucciso un suo ambasciatore, ma Obama riesce a ricordare che gli Usa «respingono i tentativi di denigrare le religioni altrui», nella stessa frase in cui dichiara di «opporsi inequivocabilmente alla violenza senza senso». Il link è fatto, in qualche modo i due eventi - film offensivo e attacco - vengono accostati. Una condanna con "ma anche": Obama si oppone alla «violenza senza senso» dell'attacco, ma anche ai «tentativi di denigrare le religioni altrui».

Più convincente e presidenziale nel tono la dichiarazione successiva di Hillary Clinton rispetto a quella di Obama il patetico. Tanto che si rende necessaria una comparsata del presidente (con Hillary al suo fianco) per rafforzare il fiacco e cerchiobottista comunicato scritto qualche ora prima. Una dichiarazione di cinque minuti ben più tosta nella quale, senza rispondere a domande, il presidente ripete più volte che non può esservi alcuna giustificazione alla violenza, e promette che «sarà fatta giustizia», che «le autorità americane e quelle libiche lavoreranno per individuare e assicurare alla giustizia gli assassini».

Quello che più ripugna di questa triste storia è che molti, anche ai vertici dell'amministrazione Usa, si bevono ancora la cazzata che queste cose nascono da un film o da qualche vignetta offensiva. Certo, qualche fanatico che riesce ad aizzare una folla di suoi simili può esserci. Ma a Bengasi è accaduto qualcosa di diverso: un attacco militare, non una protesta. Secondo quanto riporta su twitter Daniele Raineri, inviato del Foglio, «c'è stata un'operazione militare di 'rescue' andata male, un aereo americano è arrivato ieri notte a Bengasi per salvare lo staff. Gli americani si erano rifugiati in una 'safe house' segreta, ma gli aggressori sapevano dov'era. E' seguito un conflitto a fuoco: due americani sono morti in questo secondo scontro, dopo la morte dell'ambasciatore». Una versione confermata da fonti Usa alla Cnn. Dunque, «un'operazione di 'rescue' andata male, spiega il ritardo nelle notizie e forse cambia anche il significato politico della storia».

Già, lo aggrava per Obama, diventa più simile a Teheran 1979: e se si è trattato di un puro e semplice attentato, e la protesta per il film amatoriale su Maometto era solo un diversivo, perché parlare ancora dei «tentativi di denigrare le religioni altrui»? Non è un problema di libertà d'espressione che ferisce i sentimenti dei musulmani, ma di terrorismo da una parte e mancanza di leadership dall'altra.

Il governo Usa conta come il due di picche al Cairo e a Tripoli (il presidente egiziano non ha ancora espresso una condanna per la violazione dell'ambasciata americana). Obama non ha affatto «guidato da dietro le quinte» le transizioni della primavera araba, le ha subite da sotto il tavolo. Leading from behind è stato solo uno slogan efficace per nascondere i suoi ritardi nella comprensione degli eventi e il suo vacillare nelle decisioni strategiche. In Libia è intervenuto per fare bella figura, perché si trattava di cacciare col minimo sforzo un pagliaccio, geopoliticamente ormai innocuo e indifeso, mentre con Assad, che ha dietro Iran e Russia, se la fa sotto, assiste immobile ad un massacro anche peggiore e al riarmo iraniano.

Friday, May 29, 2009

Tra Usa e Russia, l'Italia rischia la spaccata/2

L'ipotesi di un «complotto internazionale» contro Berlusconi, evocata oggi su Libero da Fausto Carioti, riprendendo il solito confuso editoriale di Lucia Annunziata, a me pare ridicola, per usare un eufemismo. Se ne parlerà pure tra i «fedelissimi» del premier, ma ai miei occhi resta tale. Un «complotto» che nascerebbe negli Usa, e comunque nel mondo anglosassone in generale.

Che alcune nostre politiche, e alcune recenti mosse avventate, infastidiscano i nostri alleati americani è fuor di dubbio. La ricostruzione di Carioti sul fastidio che a Washington provocano le intese tra Eni e Gazprom, l'ultima sul gasdotto South Stream, è ineccepibile. Tuttavia, mi chiedo: la politica dell'Eni sarebbe diversa senza Berlusconi al governo, o addirittura con un governo di centrosinistra? Era forse diversa durante il governo Prodi? A quanto mi risulta, che «l'intesa con la Russia non fosse solo economica, ma - per ammissione dei protagonisti - politica», era evidente anche con il governo di centrosinistra, quando altri «protagonisti», Prodi e D'Alema, parlavano esplicitamente di «partnership strategica» con Mosca.

Non inganni l'ostentata amicizia tra Berlusconi e Putin. E' reale, ma dietro di essa ci sono politiche rigorosamente bipartisan. Non è "l'Eni di Berlusconi" ad accordarsi con Gazprom, ma è "l'Eni italiana" punto. Nei confronti della Russia (come della Cina), al di là del "feeling" tra Berlusconi e Putin esiste una continuità sufficientemente bipartisan della politica italiana da non giustificare da parte di Washington complotti contro Berlusconi.

Sarà anche vero che a livello europeo si voleva tenere in gioco l'Ucraina e che, almeno a parole, si punta sul gasdotto Nabucco che esclude i russi, ma poi mi pare che tranne Gran Bretagna e Francia (meno dipendenti degli altri dal gas russo), gli altri paesi europei trattino con Mosca come fa l'Italia, ciascuno avendo a cuore il proprio particolare.

Mi sembra inoltre esagerato parlare di «appoggio dato da Berlusconi all'operazione militare russa in Georgia». E' vero che nelle prime ore la reazione del governo italiano apparve fin troppo comprensiva nei confronti di Mosca, ma subito dopo il tiro fu corretto. In questo genere di crisi, e in generale quando si creano tensioni tra Washington e Mosca, Berlusconi è sempre andato alla ricerca di visiblità internazionale, vantando un ruolo di mediazione forse sopravvalutato, forse velleitario, ma appunto di mediazione. Durante la crisi georgiana la nostra posizione inizialmente troppo filorussa e la nostra iniziativa di mediazione furono sfumate e riassorbite nell'alveo di un'iniziativa a livello europeo a guida francese.

Infine, sull'Iran, esclusi dal 5+1, vedo nelle mosse italiane maldestri tentativi per recuperare un posto in prima fila nei negoziati, più che una tentazione "doppiogiochista". Nei confronti dell'Iran, di Hezbollah e su tutta la politica mediorientale, il governo Prodi-D'Alema si è mosso in modo molto più ambiguo e tale da suscitare, quello sì, l'irritazione della Casa Bianca.

Vedremo ora quale sarà l'atteggiamento italiano nei confronti del trasferimento di detenuti di Guantanamo in Europa, un altro tema spinoso. Insomma, c'è senz'altro più d'un motivo di tensione e di freddezza nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, ma non vedo aria di «complotti». Tra l'altro, è poco verosimile che a Washington si siano mossi per rimuovere "l'ostacolo Berlusconi" senza prima individuare una valida e praticabile alternativa, cioè un altro leader politico italiano - di centrodestra o di centrosinistra - in grado sia di ottenere il consenso degli italiani sia di ribaltare la politica dell'Eni. E' difficile in Italia trovare un politico fino a tal punto filo-americano. Fini? Tremonti? D'Alema? Non ne vedo.

Sarei invece più portato a pensare che nei rapporti freddi con la nuova amministrazione Usa Berlusconi paghi semmai l'amicizia con George W. Bush, altrettanto solida e ostentata di quella con Putin. E' più verosimile, a mio avviso, che l'amicizia tra Berlusconi e Bush, cementata dalla posizione italiana durante la crisi irachena, abbia supplito in questi anni alla scarsa rilevanza internazionale di fondo del nostro paese, illudendoci di essere alleati preziosi per Washington, addirittura necessari, mentre oggi, con Obama, siamo tornati a contare poco o nulla, è tornata l'Italia «che più di tanto non ha da dare agli Stati Uniti».

Un'analisi perfetta è quella di Daniele Raineri oggi su Il Foglio. I rapporti tra Usa e Russia stanno peggiorando su tutti i fronti (nonostante il bottone di reset offerto da Obama e H. Clinton ai russi): su tutti Iran (i russi si stanno impegnando a minare la credibilità della deterrenza di un raid aereo contro gli impianti nucleari di Teheran, neanche un succoso do-ut-des li ha indotti a desistere) e Afghanistan (Mosca sogna la disfatta Usa e Nato per recuperare influenza sulla regione). Quindi, con Usa e Russia che si allontanano, come ebbi modo di scrivere mesi fa, l'Italia rischia la spaccata: «Il nostro tradizionale ruolo di cerniera, il Cav. con lo Stetson da cowboy e il Cav. con il colbacco in testa, non è più possibile. O da questa o da quella parte. In attesa di capire che cosa faremo, la Casa Bianca non si fa sentire», conclude Raineri.

Ma purtroppo Berlusconi è sentimentalmente legato allo spirito del vertice Nato-Russia di Pratica di Mare, un'era politica ormai lontana anni luce. L'errore di Berlusconi (e di Frattini) è stato non comprenderlo mesi fa, quando cambiare linea gli sarebbe valso qualche bella figura sulla democrazia e i diritti umani e qualche punto "simpatia" con qualsiasi amministrazione Usa, sia che avesse vinto Obama che avesse vinto McCain. Invece, mi sembra che tuttora il Cav. non si sia accorto che tra Washington e Mosca è cambiata aria.

In tutto questo, però, i complotti lasciamoli ai no global e occupiamoci di politica.