Ciò che è accaduto ieri al Cairo e a Bengasi, e stamattina a Washington, è emblematico. Nulla avrebbe potuto spiegare meglio il significato del mio post di ieri sulla sensazione di un disarmo ideologico dell'Occidente di fronte alla minaccia terrorista islamica.
In mattinata viene diffusa dalle tv arabe la notizia (e subito dopo le drammatiche immagini) dell'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, di un altro funzionario e due marine, nell'attacco della notte al consolato Usa di Bengasi. Già ieri l'ambasciata Usa al Cairo era stata oggetto di una violenta manifestazione di protesta a causa di un film anti-islamico amatoriale, prodotto da cristiani copti espatriati in America. Bandiera strappata, violazione dell'ambasciata, qualche colpo in aria. Ma a Bengasi si è trattato di qualcosa di diverso dalla sassaiola di una folla spontanea: un assalto militare in piena regola, con armi pesanti, evidentemente pianificato (forse in coincidenza con l'11 settembre). Il consolato è dato alle fiamme, c'è almeno una vittima.
Poi si verrà a sapere che le vittime sono quattro, incluso l'ambasciatore. Ciò che più sconcerta - oltre alla sensazione che l'attacco sia stato sottovalutato e il consolato letteralmente abbandonato al suo destino da parte di Washington - è la reazione timida, cerchiobottista, di vera e propria sudditanza e resa ideologica da parte dell'amministrazione Obama.
Innanzitutto, il delirante comunicato e i tweet in cui l'ambasciata al Cairo chiede praticamente scusa per il film anti-islamico. Che sia stato diffuso prima o dopo i fatti di Bengasi poco importa a questo punto, conta il contenuto: si condannano «i continui sforzi da parte di individui fuorviati di ferire i sentimenti religiosi dei musulmani» e si rigettano «con forza gli abusi del diritto universale alla libertà d'espressione per offendere il credo religioso altrui». In pratica ci si scusa per i propri principi, e per un'offesa di cui gli Stati Uniti non hanno colpa, e che in ogni caso non avrebbe mai potuto giustificare la violenza. Un comunicato da cui solo sei ore più tardi la Casa Bianca si sarebbe dissociata («non l'abbiamo approvato»).
Poi nella notte viene ammazzato un ambasciatore statunitense e per ore la Casa Bianca tace. Sembra di rivedere lo sketch di Clint Eastwood che alla convention repubblicana parla con una sedia vuota dove dovrebbe essere seduto Obama. Un presidente assente, o dormiente. Arriverà presto un comunicato di scuse per il disagio causato ai musulmani?
Inizia a serpeggiare l'idea che Bengasi 2012 possa trasformarsi per Obama in ciò che rappresentò Teheran 1979 per Carter. Qualcuno comincia a rimpiangere Gheddafi e Mubarak. No, qui bisogna rimpiangere l'America, quella che non sapeva nemmeno cosa volesse dire abdicare ai suoi principi.
Finalmente, dopo ore, arriva una nota scritta del presidente Obama, nella quale «condanna fermamente l'ignobile attacco», ma in cui di nuovo traspare questa preoccupazione di scusarsi con i musulmani per le offese del film. Hanno appena ucciso un suo ambasciatore, ma Obama riesce a ricordare che gli Usa «respingono i tentativi di denigrare le religioni altrui», nella stessa frase in cui dichiara di «opporsi inequivocabilmente alla violenza senza senso». Il link è fatto, in qualche modo i due eventi - film offensivo e attacco - vengono accostati. Una condanna con "ma anche": Obama si oppone alla «violenza senza senso» dell'attacco, ma anche ai «tentativi di denigrare le religioni altrui».
Più convincente e presidenziale nel tono la dichiarazione successiva di Hillary Clinton rispetto a quella di Obama il patetico. Tanto che si rende necessaria una comparsata del presidente (con Hillary al suo fianco) per rafforzare il fiacco e cerchiobottista comunicato scritto qualche ora prima. Una dichiarazione di cinque minuti ben più tosta nella quale, senza rispondere a domande, il presidente ripete più volte che non può esservi alcuna giustificazione alla violenza, e promette che «sarà fatta giustizia», che «le autorità americane e quelle libiche lavoreranno per individuare e assicurare alla giustizia gli assassini».
Quello che più ripugna di questa triste storia è che molti, anche ai vertici dell'amministrazione Usa, si bevono ancora la cazzata che queste cose nascono da un film o da qualche vignetta offensiva. Certo, qualche fanatico che riesce ad aizzare una folla di suoi simili può esserci. Ma a Bengasi è accaduto qualcosa di diverso: un attacco militare, non una protesta. Secondo quanto riporta su twitter Daniele Raineri, inviato del Foglio, «c'è stata un'operazione militare di 'rescue' andata male, un aereo americano è arrivato ieri notte a Bengasi per salvare lo staff. Gli americani si erano rifugiati in una 'safe house' segreta, ma gli aggressori sapevano dov'era. E' seguito un conflitto a fuoco: due americani sono morti in questo secondo scontro, dopo la morte dell'ambasciatore». Una versione confermata da fonti Usa alla Cnn. Dunque, «un'operazione di 'rescue' andata male, spiega il ritardo nelle notizie e forse cambia anche il significato politico della storia».
Già, lo aggrava per Obama, diventa più simile a Teheran 1979: e se si è trattato di un puro e semplice attentato, e la protesta per il film amatoriale su Maometto era solo un diversivo, perché parlare ancora dei «tentativi di denigrare le religioni altrui»? Non è un problema di libertà d'espressione che ferisce i sentimenti dei musulmani, ma di terrorismo da una parte e mancanza di leadership dall'altra.
Il governo Usa conta come il due di picche al Cairo e a Tripoli (il presidente egiziano non ha ancora espresso una condanna per la violazione dell'ambasciata americana). Obama non ha affatto «guidato da dietro le quinte» le transizioni della primavera araba, le ha subite da sotto il tavolo. Leading from behind è stato solo uno slogan efficace per nascondere i suoi ritardi nella comprensione degli eventi e il suo vacillare nelle decisioni strategiche. In Libia è intervenuto per fare bella figura, perché si trattava di cacciare col minimo sforzo un pagliaccio, geopoliticamente ormai innocuo e indifeso, mentre con Assad, che ha dietro Iran e Russia, se la fa sotto, assiste immobile ad un massacro anche peggiore e al riarmo iraniano.
2 comments:
Questo blog è un po' neocon.
Niente di male. E' legittimo.
Anche se, alla prova dei fatti, non hanno funzionato un granché quelle teorie un po'... ideologiche ed imperialiste.
Ogni tanto, per un sano dubbio liberale, dovrebbe dare un'occhiata anche a ciò che scrivono GaryNorth e RonPaul.
Saluti e, comunque, complimenti.
Grazie per i complimenti e il "niente di male". Si sa che tra teoria e prassi c'è di mezzo la realtà. Le teorie a cui si riferisce hanno funzionato, dove applicate davvero e non per finta, per spot elettorale, ovviamente con gli errori e le imperfezioni dei vari casi.
Credo però che l'isolazionismo semplicemente non sia un'opzione; che ha smesso di esserlo per gli Usa all'incirca da un paio di secoli, mentre per noi non lo è stata mai, dai tempi di Cartagine.
Peccato perché i libertari sarebbero ottimi presidenti, se fossero meno ideologici nel loro isolazionismo in politica estera.
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