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Si può capire molto della malattia che affligge l'Italia dai rapporti decennali tra la Fiat e le nostre classi dirigenti: sono lo specchio del declino italiano. Oggi il governo, le forze politiche e sociali, i media delle elite economiche e finanziarie del paese, pendono tutti dalle labbra di Marchionne: ci dica che piani ha per l'Italia, ce lo deve. Non una richiesta, ma una pretesa, un'intimazione: il governo convochi i vertici e li obblighi a "cantare". Il tutto alludendo ad una sorta di complotto anti-italiano di Marchionne, che fin dall'inizio avrebbe avuto in mente la grande fuga delle attività produttive del gruppo torinese dal nostro paese. Ora che il progetto "Fabbrica Italia" cade sotto i colpi della crisi, si riapre lo psicodramma del "tradimento": la Fiat che così tanto deve all'Italia, ci tradisce per l'odiata Amerika.
La malattia italiana che fa fuggire la Fiat, e tanti altri, sta nella risposta al quesito posto da Penati su la Repubblica: «Perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia?». Nell'odio per Marchionne l'establishment italiano rivela tutta la propria viscerale avversione al capitalismo di mercato. Che Romiti, emblema della Fiat sussidiata degli anni '70-'80, si scagli contro di lui solidarizzando con la Fiom, che si è opposta fino alla via giudiziaria ai tentativi di rilancio della produttività nelle fabbriche, ne è la dimostrazione lampante. Si parla tanto di crescita, ma il paese sembra rigettare le uniche politiche capaci di rilanciarla. Dunque, quando dall'estero vedono l'establishment che marcia diviso per colpire unito su Marchionne, vedono un paese che in realtà non vuole crescere. E in un paese simile non si investe.
L'ad di Fiat ha fatto ciò che un manager deve fare in una economia di mercato: creare valore per i propri azionisti. In una certa misura c'è riuscito e s'è arricchito anche personalmente. Ma per la nostra cultura, intrisa di catto-comunismo fino al midollo, il successo nell'impresa e nella finanza è una colpa imperdonabile, perché deriva per forza di cose da un intollerabile e meschino sfruttamento dei più deboli. Tollerabile, invece, se deriva dal sussidio pubblico e dalle buone relazioni con i mondi consociativi della politica e della finanza. Persino un imprenditore ben inserito come Della Valle accusa i vertici Fiat di aver assunto «le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del paese». Eppure proprio di questo dovrebbero occuparsi imprenditori e manager, mentre «degli interessi e delle necessità del paese» dovrebbero curarsi i governi e i politici. Auguriamo a Mister Tod's, che lancia l'epiteto di «furbetti cosmopoliti», di non dover un giorno dare conto di sue eventuali "furbate cosmopolite", magari in Romania o in Cina.
La Fiat, ampiamente sussidiata da tutti i governi della I e II Repubblica, ha cominciato ad essere invisa da quando è arrivato Marchionne, che ha iniziato a snobbare la politica e i suoi riti, a rivolgersi al paese parlando di produttività e non di incentivi a fondo perduto. Il piano industriale battezzato col nome di "Fabbrica Italia" non è stato negoziato né con i governi né con le parti sociali. Poneva degli obiettivi e le condizioni per raggiungerli: non assegni in bianco, ma un contesto di relazioni industriali e forme contrattuali che rilanciassero la produttività. Tra il prendere atto dell'eccesso di capacità produttiva (in Europa, non solo in Italia), e dunque chiudere subito le fabbriche, e scommettere su un paese ancora capace di essere competitivo, Marchionne ha scelto questa seconda strada, convinto che la ripresa fosse vicina. Fin dall'inizio era ben consapevole, certo, che il disimpegno dall'Italia restava un'opzione più che probabile, di fronte a condizioni avverse, ma diverso è presumere che fosse il suo obiettivo.
I fatti dicono che da quando Fiat ha annunciato il progetto "Fabbrica Italia", nell'aprile 2010, le condizioni sono «profondamente cambiate». Sia perché il mercato dell'auto nel frattempo è crollato (-40% rispetto al 2007; -20% solo nei primi 8 mesi del 2012), sia perché a 5 anni dall'inizio della crisi l'Italia non ha ancora adottato le riforme strutturali necessarie per far recuperare competitività al nostro sistema produttivo. Se c'è una colpa di Marchionne, è non aver previsto la crisi dell'eurodebito, che avrebbe innescato una recessione ben più strutturale di quella del 2009. Il colpo di grazia, poi, è stato assestato dalle politiche di risanamento a base di tasse e demagogia. Tra tassa sul lusso per far pagare i "ricchi", aumenti dell'Iva e patrimoniale immobiliare, la prima vittima della compressione dei redditi medio-alti è stato il mercato dell'auto. Sicuri che il gettito della tassa sul lusso sia superiore al mancato gettito Iva delle auto di grossa cilindrata non acquistate? E delle tasse sulla benzina che quelle auto non acquistate non hanno mai consumato per camminare?
Se è «impossibile» fare riferimento al progetto "Fabbrica Italia" non è solo per la crisi, ma come dimostrano altri drammatici casi, anche a causa delle nostre resistenze ai cambiamenti necessari per rendere produttivo investire in Italia. I costi dell'energia sono i più alti d'Europa, ma diciamo no a nucleare e rigassificatori. Per ciascun occupato si versa in tasse e contributi il 64% del pil pro capite, ma non vogliamo ridurre la spesa in pensioni e sanità. Il nostro mercato del lavoro è il più rigido d'Europa, ma guai a toccare l'articolo 18 e a parlare di contrattazione aziendale. "Marchionne risponda, non possiamo aspettare", sono le parole attribuite al ministro Fornero? Marchionne e gli investitori stranieri hanno in mente l'esatto opposto: "L'Italia risponda, non possiamo aspettare". In Italia ci sforziamo di tenere in vita con sussidi e incentivi settori e aziende non più produttivi, non di creare le condizioni economiche e legali più favorevoli agli investimenti. Non dovremmo chiamare a rapporto Marchionne, ma i nostri politici e tecnici, le nostre classi dirigenti: che piani avete voi per l'Italia? È da quelli che dipendono gli investimenti, non il contrario. Certo che un paese come il nostro deve avere un'industria automobilistica, ma non l'avrà per grazia ricevuta: se la vuole davvero deve creare le condizioni per renderla produttiva. Che si tratti di convincere Fiat a restare, o di attirare case automobilistiche straniere, le cose da fare sono le stesse.
4 comments:
Mentre da noi, come in gran parte del continente europeo si chiede allo stato, al governo di fare di più....
finalmente, nella deprimente campagna elettorale USA, il candidato Romney ha detto (fuori onda?) la cosa più polticamente scorretta che si potesse dire, ma la più vera che si possa immaginare: libertà e responsabilità sono sinonimi!
Se vuoi sempre più stato vuol dire che vuoi sempre meno responsabilità e non te ne frega niente della libertà (questa reliquia barbarica, come l'oro)!
Che Marchionne rappresenti il capitalismo di mercato è la barzelletta dell'anno.
Fin quando i liberali Italiani all'amatriciana andranno dietro a magliari come Marchionne i sindacati come la Fiom avranno vita lunga.
Tra l'articolo di Federico, ampio, sensato e argomentato come sempre, e l'intervento di tal Frank77, qui sopra, non c'è alcun dubbio su chi abbia la bocca sporca di amatriciana nemmeno digerita.
Woody se di economia non ne capisci faresti meglio a starti zitto.
L'imprenditore come lo fa Marchionne raccontando balle,tenendo l'Alfa Romeo al minimo sindacale e non avendo voluto venderla a Wolkswagen,che invece avrebbe saputo come rilanciarla; e andando ad investire nei paesi che ti danno aiuti di stato lo saprei fare pure io,mica ci vuole la laurea.
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