Bisogna dare atto al premier Mario Monti di non essersi nascosto dietro un dito: «In parte le nostre decisioni hanno contribuito ad aggravare» la crisi. Quale capo di governo, quale politico, avrebbe avuto l'onestà intellettuale di una simile ammissione? Negare, negare anche l'evidenza, è la parola d'ordine dei politici (e non solo). Monti ha dunque parlato con il linguaggio della verità, e va apprezzato per questo, ma la sua autostima gli ha impedito di evitare di giustificarsi dicendo che si è trattato di scelte inevitabili.
«Solo uno stolto può pensare di incidere su elementi strutturali che pesano da decenni senza provocare almeno nel breve periodo un rallentamento dovuto al calo della domanda». Vero anche questo. Il rapido aggiustamento fiscale che la situazione richiedeva avrebbe portato comunque ad un calo della domanda, e quindi ad una recessione. Cure indolori non ce n'erano e non ce ne sono. Tuttavia, c'è recessione e recessione. Tagli alla spesa pubblica piuttosto che aumenti di tasse causano di solito recessioni più brevi e meno acute, perché nel primo caso si tratta di trovarsi un altro cliente, nel secondo produttori e consumatori devono far fronte tutti ad una diminuzione di capacità d'acquisto e di investimento.
E' vero che in un Paese come l'Italia, dove ormai oltre metà dell'economia dipende direttamente o indirettamente dalla spesa pubblica (abbiamo forse superato il punto di non ritorno?), lo shock sarebbe stato comunque forte, ma d'altra parte anche la pressione fiscale era già a livelli insopportabili. Ma come ha ricordato anche il governatore Draghi, nell'inevitabilità e nell'urgenza dell'aggiustamento fiscale il governo un paio di opzioni le aveva di fronte a sé: agire più sul lato della spesa o più sul lato delle tasse. Ha scelto la seconda, la peggiore. Ma la correzione era inevitabile, non la strada per conseguirla.
Possiamo anche riconoscere che a novembre, appena entrato in carica, non c'era forse altro modo che aumentare le tasse. Ma da gennaio ad oggi il governo ha avuto 9 mesi per invertire il trend, invece ha perso tempo e quando finalmente sono arrivati i primi tagli alla spesa ha partorito un topolino.
Emblematico dei risultati deludenti e autolesionistici di questa politica, anche sul piano del bilancio, è il gettito della tassa sulle barche di lusso: 23 milioni di euro rispetto ai 155 attesi. E questo a fronte di una riduzione dei consumi nei porti e nelle località marittime, anche a causa del clima da caccia all'evasore, stimata in 700 milioni. Quindi ulteriore gettito perso.
Nell'intervista rilasciata da Monti a Cnbc e pubblicata da MilanoFinanza il premier pone solo al terzo posto le riforme strutturali come «volano della crescita»: al primo il calo dei rendimenti dei titoli di Stato, al secondo la ripresa dell'economia internazionale. Ebbene, ma come la mettiamo se gli investitori aspettano di vedere riforme e segnali di ripresa prima di tornare a comprare i nostri titoli? Rischia di essere un cane che si morde la coda: Monti in pratica si affida a loro per la crescita, ma quelli non investono in attesa di riforme e crescita.
Infine, l'aumento di produttività, che per Monti sembra possa arrivare solo dalle parti sociali. Tradotto: lavorare di più all'incirca allo stesso salario. Bene incalzare imprese e sindacati sulla contrattazione aziendale, ma perché invece di tagliare di fatto le retribuzioni non tagliare il pizzo esorbitante, criminale, che si prende lo Stato sul lavoro? Il governo deve fare la sua parte: deve agire per legge sulla contrattazione, se Confindustria e sindacati si dimostrano inconcludenti, e deve abbattere il cuneo fiscale. Si possono reperire le risorse tagliando i sussidi alle imprese, rivedendo le esenzioni fiscali, per non parlare della spesa pubblica.
No comments:
Post a Comment