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Tre scandali ciascuno dei quali, preso singolarmente, somiglia terribilmente ad un Watergate per il presidente Obama. A differenza di Nixon, manca (ancora) la "pistola fumante" che lo collega personalmente ai misfatti della sua amministrazione, ma politicamente ne è comunque responsabile: il "cover up" (l'insabbiamento) dell'attentato al consolato americano di Bengasi; la condotta persecutoria dell'Irs (l'agenzia delle entrate Usa) nei confronti dei suoi avversari politici; lo spionaggio ai danni dell'agenzia di stampa Ap. Ma le polemiche infuocate che oltreoceano si stanno abbattendo su Obama in Italia vengono relegate nelle ultime pagine dei giornali, o in fondo alle homepage dei siti internet, e solo accennate nei notiziari tv e radio, mentre si è letto di tutto, e viene discusso ogni singolo aspetto, della decisione di Angelina Jolie di farsi asportare i seni per "prevenire" il tumore. L'effetto è quello di una gigantesca operazione di distrazione di massa, che non sarebbe riuscita così bene se fosse stata orchestrata, mentre è solo il frutto del conformismo dei mainstream media.
SPIONAGGIO AP - Per due mesi (aprile-maggio 2012) il Dipartimento di Giustizia ha tenuto sotto controllo 20 utenze telefoniche dell'Associated Press, intercettando a loro insaputa le conversazioni di un centinaio di giornalisti, a caccia della talpa che dall'interno dell'amministrazione passava informazioni riservate all'agenzia di stampa. Un'azione così prolungata e invasiva, per altro non autorizzata dal procuratore generale in persona, Eric Holder, come da regolamento, ma dal suo vice Jim Cole, è senza precedenti. Che funzionari del governo abbiano messo sotto controllo un centinaio fra reporter, caporedattori e direzione, in pratica l'intera redazione centrale della maggiore agenzia di stampa Usa, ha il sapore del Watergate.
Se Hunt e Liddy erano i cosiddetti "plumbers" del presidente Nixon, un team ristretto incaricato di dare la caccia alle talpe interne all'amministrazione, Obama ha usato a questo scopo il Dipartimento di Giustizia, deputato a questo tipo di indagini. Peccato però che abbia fatto ricorso a metodi sporchi, a rischio di incostituzionalità, tanto da suscitare la vibrante indignazione anche del leggendario reporter del caso Watergate Carl Bernstein: «E' vergognoso, pericoloso, non ci sono scuse». Un «evento nucleare», l'ha definito Bernstein, secondo cui il vero scopo dell'indagine era intimidire chi parla con i giornalisti. Ed è irrilevante che la Casa Bianca non ne fosse al corrente, dal momento che scovare e punire le talpe è una politica centrale della presidenza Obama: ne ha perseguite penalmente già sei, più di tutti i predecessori messi insieme. Stavolta anche la stampa amica del presidente, dal Washington Post al New York Times, non ha potuto far altro che esprimere forti preoccupazioni e biasimare i metodi dell'amministrazione, che rischia di trovarsi in violazione del I emendamento (che tutela la libertà di stampa) e del IV (che garantisce i cittadini contro indebite violazioni della sfera personale). Niente di lontanamente paragonabile al caso dell'agente Valerie Plame per cui fu messo in croce Bush.
CASO IRS - E sa di Watergate anche il caso dell'Irs, l'agenzia delle entrate Usa, che ha preso intenzionalmente di mira, trattandole come sospetti evasori, associazioni di destra, del movimento anti-tasse o che proclamano di voler difendere la Costituzione, ossia i più acerrimi nemici dell'amministrazione Obama, per la sola presenza di parole come "tea party" o "patriot" nel loro nome. Le loro pratiche per l'esenzione dal pagamento delle tasse hanno subito un deliberato ostruzionismo da parte dell'Irs (ritardi e controlli non necessari). Per oltre 18 mesi dal 2010, afferma un rapporto del Dipartimento del Tesoro citato dalla Cnn, l'Irs ha sviluppato e applicato una politica scorretta per determinare se i richiedenti fossero o meno coinvolti in attività politiche.
Condotta «inappropriata», ha ammesso il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. «No, usare per il piatto principale la forchetta per l'insalata è inappropriato. Usare l'Irs per scopi politici è un reato», ha osservato l'editorialista del WaPost George Will, che parla di «echi di Watergate». Ecco quanto si legge, infatti, tra gli articoli per l'impeachment contro Nixon, adottati nel 1974 dalla Commissione giudiziaria della Camera. «He (Nixon, ndr) has, acting personally and through his subordinates and agents, endeavored to... cause, in violation of the constitutional rights of citizens, income tax audits or other income tax investigations to be initiated or conducted in a discriminatory manner».
BUGIE SU BENGASI - Amministrazione Obama sotto accusa anche per la gestione dell'attentato al consolato di Bengasi dell'11 settembre scorso. Dalle audizioni del Congresso sta emergendo che non solo c'è stata una vera e propria operazione di insabbiamento della natura dell'attacco e della ricostruzione degli eventi, ma che si poteva fare molto di più per salvare la vita dell'ambasciatore e delle altre tre vittime americane. La testimonianza dell'ex vice ambasciatore Gregory Hicks, secondo cui le forze speciali americane sarebbero potute intervenire ma avrebbero ricevuto l'ordine di non muoversi, contraddice quanto detto in precedenza dall'amministrazione, e in particolare dall'ex segretario di Stato Hillary Clinton. La matrice terrorista dell'attacco al consolato, inoltre, fu chiara fin dai primi momenti e a Washington ne erano perfettamente al corrente, ma giorni dopo ancora si sosteneva la versione delle proteste per un video amatoriale su Maometto.
Le e-mail scambiate durante e dopo la crisi fra Dipartimento di Stato, Cia, direttore dell'intelligente e Casa Bianca, e consegnate al Congresso, avvalorano la tesi di Hicks. L'ufficio sicurezza del Dipartimento comprese subito, ad assalto in corso, che si trattava di jihadisti. Il primo rapporto della Cia parlava di «estremisti di Al Qaeda», alcuni «legati ad Ansar al Sharia», ma queste frasi vennero fatte sparire nelle versioni successive su richiesta di una portavoce del segretario di Stato Clinton. Nell'ultima, al posto di «attacco» si parla di «violente dimostrazioni», e ogni riferimento ad Al Qaeda è sostituito da un generico «estremisti». Non solo, dunque, un insabbiamento mediatico nei giorni immediatamente successivi all'attacco e - ricordiamo - vicinissimi al voto per le presidenziali, ma anche un insabbiamento, dinanzi al Congresso, degli errori commessi dall'amministrazione.
Nessun altro presidente americano, probabilmente, ha beneficiato come Obama di una narrazione, e di conseguenza di una copertura mediatica, così positiva. Si può dire che sia addirittura diventato presidente grazie a quella narrazione così carica di passione e speranza. Ora però pesantissimi dubbi si stanno addensando sui metodi con cui Obama e la sua amministrazione "curano" la narrazione degli eventi e si occupano degli avversari politici: manipolazione, intimidazione e violazione dei diritti costituzionali.
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Wednesday, May 15, 2013
Thursday, November 04, 2010
Statalisti sorpresi in contropiede
Scontata l'autocritica, l'umiltà, la disponibilità a collaborare di Obama nel giorno della sconfitta, solo i primi mesi del 2011 ci diranno se il presidente ha davvero deciso di cambiare rotta. Intanto qui da noi, come previsto, si leggono le solite fesserie sui Tea Party. Rozza, patetica, imbarazzante è soprattutto l'analisi di Giuliano Amato (che tra l'altro passa per essere uno che di States ci capisce), una summa dei pregiudizi e del complesso di superiorità che rendono la sinistra così lontana dai cittadini.
Innanzitutto no, non stiamo parlando della solita sconfitta di mid-term subìta da quasi tutti gli ultimi presidenti Usa, non è un semplice bilanciamento di potere. Non lo è innanzitutto dal punto di vista numerico, per l'enorme quantità di seggi conquistati dai repubblicani; ma anche dal punto di vista politico, perché nelle urne gli americani hanno espresso un profondo e radicale rigetto delle politiche stataliste e keynesiane di Obama e del Congresso a guida democratica. Non è un voto d'inerzia, che dopo due anni tende a riequilibrare i rapporti di forza a Washington, ma insieme ragionato e di pancia.
Non ci risulta che la O'Donnell fosse candidata «in Nebraska», come afferma Amato, ma è senz'altro un piccolo abbaglio. Il fatto è che i Tea Party non sono liquidabili come un movimento rozzo e populistico, accostandoli addirittura a Beppe Grillo in Italia. L'analisi di Amato è inficiata dai soliti pregiudizi, per cui le campagne mediatiche degli avversari sono bollate come «inquinamento dei meccanismi democratici», mentre quelle proprie si presumono essere inchieste obiettive e coraggiose battaglie civili; quelle degli avversari politici, tanto più se parte di un movimento che nasce dal basso, non sono vere opinioni, di quelle «prodotte dal cervello sulla base di argomentazioni», ma solo atteggiamenti irrazionali; quelle diffuse contro Obama e la sua riforma sanitaria sono solo «grossolane menzogne», ma ci si è scordati delle menzogne diffuse per anni dal populismo di sinistra contro Bush; noi di sinistra, sembra dire Amato, siamo quelli della «ragione», i Tea Party quelli dell'«emozione».
E' innegabile, e inevitabile, che essendo un movimento che nasce dal basso i Tea Party contengano al loro interno manifestazioni folcloristiche e pulsioni populistiche. Ma al di là della retorica, degli eccessi e di certe derive estremiste (respinte dall'elettorato), la protesta origina da fatti reali e non da un odio cieco e razzista nei confronti di Obama; e si basa su un principio, condivisibile o meno ma non indegno; semplice e intuitivo, ma non per questo fallace: il governo migliore è quello che "governa" meno. Ed è il messaggio più autentico dei Tea Party (meno Stato, meno spesa, meno tasse) che è passato, che è stato premiato dagli elettori, non gli orpelli integralisti. Sulla base di queste elezioni di midterm oggi possiamo finalmente scommettere sulla maturazione del movimento e sulla marginalizzazione dei suoi elementi più retrivi.
Non va dimenticato che i Tea Party nascono non solo contro Obama e i democratici, ma contro tutto l'establishment di Washington che ha reagito alla crisi spendendo il denaro dei contribuenti nei salvataggi bancari e nel big government, ossia "premiando" i colpevoli della crisi: il mondo della finanza che ha male operato sul mercato e le autorità pubbliche che hanno male governato l'economia. E la loro protesta non poteva non riguardare anche il Gop, che da tempo sotto Bush aveva abbracciato il big government. Certo, il malcontento verso lo statalismo che covava da tempo è esploso con la crisi e con le ricette ulteriormente stataliste e keynesiane di Obama. E' comprensibile che molti americani, vedendo il loro Paese procedere a passi spediti verso un modello assistenzialista di tipo europeo, senza che i repubblicani sembrassero in grado di opporsi efficacemente, abbiano reagito con le loro forze.
Bisognerebbe, invece, prendere atto di un fenomeno per molti sconcertante, per altri insperato: mentre i politici hanno approfittato della crisi per sostenere il fallimento del mercato e la rivincita dello statalismo, e quindi per espandere di nuovo il ruolo dello Stato nell'economia, i cittadini - almeno nei Paesi anglosassoni come Gran Bretagna e Stati Uniti (ma in misura minore anche nel Vecchio Continente) - invece di farsi prendere dal panico hanno continuato a diffidare dello Stato, se la stanno prendendo con la classe politica e vorrebbero i politici più distanti possibile dalle loro tasche. Non ve l'aspettavate, vero?
Innanzitutto no, non stiamo parlando della solita sconfitta di mid-term subìta da quasi tutti gli ultimi presidenti Usa, non è un semplice bilanciamento di potere. Non lo è innanzitutto dal punto di vista numerico, per l'enorme quantità di seggi conquistati dai repubblicani; ma anche dal punto di vista politico, perché nelle urne gli americani hanno espresso un profondo e radicale rigetto delle politiche stataliste e keynesiane di Obama e del Congresso a guida democratica. Non è un voto d'inerzia, che dopo due anni tende a riequilibrare i rapporti di forza a Washington, ma insieme ragionato e di pancia.
Non ci risulta che la O'Donnell fosse candidata «in Nebraska», come afferma Amato, ma è senz'altro un piccolo abbaglio. Il fatto è che i Tea Party non sono liquidabili come un movimento rozzo e populistico, accostandoli addirittura a Beppe Grillo in Italia. L'analisi di Amato è inficiata dai soliti pregiudizi, per cui le campagne mediatiche degli avversari sono bollate come «inquinamento dei meccanismi democratici», mentre quelle proprie si presumono essere inchieste obiettive e coraggiose battaglie civili; quelle degli avversari politici, tanto più se parte di un movimento che nasce dal basso, non sono vere opinioni, di quelle «prodotte dal cervello sulla base di argomentazioni», ma solo atteggiamenti irrazionali; quelle diffuse contro Obama e la sua riforma sanitaria sono solo «grossolane menzogne», ma ci si è scordati delle menzogne diffuse per anni dal populismo di sinistra contro Bush; noi di sinistra, sembra dire Amato, siamo quelli della «ragione», i Tea Party quelli dell'«emozione».
E' innegabile, e inevitabile, che essendo un movimento che nasce dal basso i Tea Party contengano al loro interno manifestazioni folcloristiche e pulsioni populistiche. Ma al di là della retorica, degli eccessi e di certe derive estremiste (respinte dall'elettorato), la protesta origina da fatti reali e non da un odio cieco e razzista nei confronti di Obama; e si basa su un principio, condivisibile o meno ma non indegno; semplice e intuitivo, ma non per questo fallace: il governo migliore è quello che "governa" meno. Ed è il messaggio più autentico dei Tea Party (meno Stato, meno spesa, meno tasse) che è passato, che è stato premiato dagli elettori, non gli orpelli integralisti. Sulla base di queste elezioni di midterm oggi possiamo finalmente scommettere sulla maturazione del movimento e sulla marginalizzazione dei suoi elementi più retrivi.
Non va dimenticato che i Tea Party nascono non solo contro Obama e i democratici, ma contro tutto l'establishment di Washington che ha reagito alla crisi spendendo il denaro dei contribuenti nei salvataggi bancari e nel big government, ossia "premiando" i colpevoli della crisi: il mondo della finanza che ha male operato sul mercato e le autorità pubbliche che hanno male governato l'economia. E la loro protesta non poteva non riguardare anche il Gop, che da tempo sotto Bush aveva abbracciato il big government. Certo, il malcontento verso lo statalismo che covava da tempo è esploso con la crisi e con le ricette ulteriormente stataliste e keynesiane di Obama. E' comprensibile che molti americani, vedendo il loro Paese procedere a passi spediti verso un modello assistenzialista di tipo europeo, senza che i repubblicani sembrassero in grado di opporsi efficacemente, abbiano reagito con le loro forze.
Bisognerebbe, invece, prendere atto di un fenomeno per molti sconcertante, per altri insperato: mentre i politici hanno approfittato della crisi per sostenere il fallimento del mercato e la rivincita dello statalismo, e quindi per espandere di nuovo il ruolo dello Stato nell'economia, i cittadini - almeno nei Paesi anglosassoni come Gran Bretagna e Stati Uniti (ma in misura minore anche nel Vecchio Continente) - invece di farsi prendere dal panico hanno continuato a diffidare dello Stato, se la stanno prendendo con la classe politica e vorrebbero i politici più distanti possibile dalle loro tasche. Non ve l'aspettavate, vero?
Wednesday, November 03, 2010
Sberla a Obama, vince il volto migliore dei Tea Party
Valanga, uragano, tsunami... Chiamatela come volete, ma la sberla che gli americani hanno assestato a Obama e ai democratici è davvero sonora. I repubblicani assumono il controllo della House, ma il numero di seggi conquistati è davvero impressionante, oltre ogni più rosea aspettativa: passano da 178 a 243 seggi, ossia +63, credo il margine più ampio del dopoguerra, superiore anche alla leggendaria vittoria del 1994 (+54). Sarebbe sbagliato non chiamarlo trionfo solo perché non sono riusciti, per un pelo, a conquistare la maggioranza anche al Senato. Hanno comunque strappato sei seggi senatoriali agli avversari, tra cui il seggio dell'Illinois che fu di Obama, e sono ancora in corsa per strapparne altri due, Colorado e Washington, dove i contendenti sono testa a testa. Potrebbe finire 51 a 49, dunque, o i repubblicani potrebbero fermarsi a 47, ma è una vittoria netta che cambia notevolmente i rapporti di forza al Senato. Vittoria ampia dei repubblicani anche nell'elezione di 37 governatori su 50. Strappano dieci Stati ai democratici e ne perdono uno, la California (un democratico succede infatti a Schwarzenegger). L'amica di Fini, Nancy Pelosi, non sarà più la Speaker della Camera, mentre Harry Reid evita per un soffio una clamorosa sconfitta e resta leader del Senato, ma dovrà cambiare musica.
Abbiamo assistito nel complesso ad un processo elettorale entusiasmante, cui da lontano non possiamo che guardare con invidia. Perché come spesso capita negli Usa i movimenti dal basso, come i Tea Party, hanno condizionato le scelte (sia di candidati che di agenda) dei vertici dei partiti, con esiti - com'è giusto che sia - alterni; e perché l'uninominale si conferma un sistema ad alto tasso di rinnovamento della classe politica.
TEA PARTY - Molto si scriverà, e molto di caricaturale temo, sui Tea Party. In fin dei conti, imponendo spesso al Gop i loro candidati, l'hanno avvantaggiato o piuttosto danneggiato? Si dirà che per colpa dei Tea Party i repubblicani non hanno conquistato il Senato. La realtà è molto semplice, persino ovvia: i candidati dei Tea Party hanno vinto, o hanno sfiorato la vittoria, laddove hanno saputo mantenere il loro focus sulla protesta antistatalista al tempo stesso risultando affidabili agli occhi degli elettori indipendenti; hanno perso, sonoramente e giustamente, laddove erano semplicemente impresentabili. E' vero, quindi, che perdendo in Delaware con la O'Donnell e in Connecticut con la McMahon, è svanito il sogno della maggioranza anche al Senato, ma in quante altre sfide alla Camera e al Senato la spinta del movimento è stata decisiva? Non scordiamoci che il Gop fino a qualche mese fa era allo sbando, in una grave crisi di credibilità presso i suoi stessi elettori, e l'impressione è che il contributo dei Tea Party l'abbia in qualche modo rivitalizzato, portandolo ad una vittoria altrimenti impensabile, almeno in queste proporzioni. Certi estremismi, che molti temono, sono stati spazzati via dagli elettori, un segnale inequivocabile anche per Sarah Palin. Sconfitte salutari, che depurano i Tea Party dagli orpelli integralisti - presi troppo spesso a pretesto dai media per screditare il movimento - e rinvigoriscono il loro messaggio più genuino, semplice e vincente (meno Stato, meno spesa, meno tasse), che arriva autorevolmente a Washington sulle gambe di senatori come Rand Paul (Kentucky) e Marco Rubio (Florida), ma anche del democratico Joe Manchin (West Virginia).
OBAMA - Con il voto di ieri gli americani hanno inequivocabilmente bocciato le politiche stataliste e keynesiane dell'amministrazione Obama ma soprattutto l'operato del Congresso a guida democratica. Sembra tornare di moda l'idea semplice e intuitiva che non è lo Stato a creare veri posti di lavoro. Il presidente è stato abbandonato da quei settori dell'elettorato che avevano creduto in lui nel 2008 portandolo alla Casa Bianca. Ha deluso sia quelli che si aspettavano un change radicale, sia quegli elettori moderati che si aspettavano una politica post-partisan, in grado, come aveva promesso, di superare gli steccati ideologici tra i partiti e di unire il Paese. E' vero che ha incontrato da parte repubblicana e nel Paese una tenace opposizione, ma il suo approccio è sembrato subito quello che non sarebbe dovuto essere: ideologico.
Ma non sono d'accordo con quanti sostengono che Obama debba dire addio alla rielezione nel 2012. Abbiamo avuto molte prove di quanto in due soli anni la politica americana possa mutare radicalmente. Il presidente ha tutto il tempo per tornare a scaldare i cuori dei suoi vecchi sostenitori, o per trovarne di nuovi (anche perché per la Casa Bianca i repubblicani hanno un serio problema di leadership). Molto dipenderà da come deciderà di affrontare le nuove maggioranze alla Camera e al Senato e quindi i nuovi rapporti di forza con i repubblicani. Può scendere in trincea, difendere con le unghie e con i denti le riforme fin qui realizzate, accettando di non combinare gran ché nei prossimi due anni ma tornando a scaldare i cuori più radicali tra i suoi elettori delusi, e quindi provare a vincere nel 2012 da sinistra, accusando il Congresso repubblicano per il mancato change; oppure, può scegliere la strada verso il centro percorsa brillantemente da Clinton dopo la sconfitta di midterm nel 1994, abbandonando le posizioni più radicali e l'immagine quasi salvifica, messianica, legata al suo personaggio, e magari concentrandosi sulla politica estera.
Nel primo caso sarebbe un azzardo, scommetterebbe su un cambiamento profondo delle coordinate culturali e sociali dell'America, che queste elezioni però sembrano smentire; nel secondo, smentirebbe i connotati stessi della sua elezione del 2008 e dovrebbe reinterpretare in termini più pragmatici e in senso più unitario, davvero post-partisan, le speranze di cambiamento degli americani. Dovrebbe riuscire a incarnare un change molto diverso da quello del 2008. Una sterzata di 180° che difficilmente passerebbe inosservata e che metterebbe comunque a dura prova la sua credibilità.
Abbiamo assistito nel complesso ad un processo elettorale entusiasmante, cui da lontano non possiamo che guardare con invidia. Perché come spesso capita negli Usa i movimenti dal basso, come i Tea Party, hanno condizionato le scelte (sia di candidati che di agenda) dei vertici dei partiti, con esiti - com'è giusto che sia - alterni; e perché l'uninominale si conferma un sistema ad alto tasso di rinnovamento della classe politica.
TEA PARTY - Molto si scriverà, e molto di caricaturale temo, sui Tea Party. In fin dei conti, imponendo spesso al Gop i loro candidati, l'hanno avvantaggiato o piuttosto danneggiato? Si dirà che per colpa dei Tea Party i repubblicani non hanno conquistato il Senato. La realtà è molto semplice, persino ovvia: i candidati dei Tea Party hanno vinto, o hanno sfiorato la vittoria, laddove hanno saputo mantenere il loro focus sulla protesta antistatalista al tempo stesso risultando affidabili agli occhi degli elettori indipendenti; hanno perso, sonoramente e giustamente, laddove erano semplicemente impresentabili. E' vero, quindi, che perdendo in Delaware con la O'Donnell e in Connecticut con la McMahon, è svanito il sogno della maggioranza anche al Senato, ma in quante altre sfide alla Camera e al Senato la spinta del movimento è stata decisiva? Non scordiamoci che il Gop fino a qualche mese fa era allo sbando, in una grave crisi di credibilità presso i suoi stessi elettori, e l'impressione è che il contributo dei Tea Party l'abbia in qualche modo rivitalizzato, portandolo ad una vittoria altrimenti impensabile, almeno in queste proporzioni. Certi estremismi, che molti temono, sono stati spazzati via dagli elettori, un segnale inequivocabile anche per Sarah Palin. Sconfitte salutari, che depurano i Tea Party dagli orpelli integralisti - presi troppo spesso a pretesto dai media per screditare il movimento - e rinvigoriscono il loro messaggio più genuino, semplice e vincente (meno Stato, meno spesa, meno tasse), che arriva autorevolmente a Washington sulle gambe di senatori come Rand Paul (Kentucky) e Marco Rubio (Florida), ma anche del democratico Joe Manchin (West Virginia).
OBAMA - Con il voto di ieri gli americani hanno inequivocabilmente bocciato le politiche stataliste e keynesiane dell'amministrazione Obama ma soprattutto l'operato del Congresso a guida democratica. Sembra tornare di moda l'idea semplice e intuitiva che non è lo Stato a creare veri posti di lavoro. Il presidente è stato abbandonato da quei settori dell'elettorato che avevano creduto in lui nel 2008 portandolo alla Casa Bianca. Ha deluso sia quelli che si aspettavano un change radicale, sia quegli elettori moderati che si aspettavano una politica post-partisan, in grado, come aveva promesso, di superare gli steccati ideologici tra i partiti e di unire il Paese. E' vero che ha incontrato da parte repubblicana e nel Paese una tenace opposizione, ma il suo approccio è sembrato subito quello che non sarebbe dovuto essere: ideologico.
Ma non sono d'accordo con quanti sostengono che Obama debba dire addio alla rielezione nel 2012. Abbiamo avuto molte prove di quanto in due soli anni la politica americana possa mutare radicalmente. Il presidente ha tutto il tempo per tornare a scaldare i cuori dei suoi vecchi sostenitori, o per trovarne di nuovi (anche perché per la Casa Bianca i repubblicani hanno un serio problema di leadership). Molto dipenderà da come deciderà di affrontare le nuove maggioranze alla Camera e al Senato e quindi i nuovi rapporti di forza con i repubblicani. Può scendere in trincea, difendere con le unghie e con i denti le riforme fin qui realizzate, accettando di non combinare gran ché nei prossimi due anni ma tornando a scaldare i cuori più radicali tra i suoi elettori delusi, e quindi provare a vincere nel 2012 da sinistra, accusando il Congresso repubblicano per il mancato change; oppure, può scegliere la strada verso il centro percorsa brillantemente da Clinton dopo la sconfitta di midterm nel 1994, abbandonando le posizioni più radicali e l'immagine quasi salvifica, messianica, legata al suo personaggio, e magari concentrandosi sulla politica estera.
Nel primo caso sarebbe un azzardo, scommetterebbe su un cambiamento profondo delle coordinate culturali e sociali dell'America, che queste elezioni però sembrano smentire; nel secondo, smentirebbe i connotati stessi della sua elezione del 2008 e dovrebbe reinterpretare in termini più pragmatici e in senso più unitario, davvero post-partisan, le speranze di cambiamento degli americani. Dovrebbe riuscire a incarnare un change molto diverso da quello del 2008. Una sterzata di 180° che difficilmente passerebbe inosservata e che metterebbe comunque a dura prova la sua credibilità.
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