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Thursday, November 04, 2010

Statalisti sorpresi in contropiede

Scontata l'autocritica, l'umiltà, la disponibilità a collaborare di Obama nel giorno della sconfitta, solo i primi mesi del 2011 ci diranno se il presidente ha davvero deciso di cambiare rotta. Intanto qui da noi, come previsto, si leggono le solite fesserie sui Tea Party. Rozza, patetica, imbarazzante è soprattutto l'analisi di Giuliano Amato (che tra l'altro passa per essere uno che di States ci capisce), una summa dei pregiudizi e del complesso di superiorità che rendono la sinistra così lontana dai cittadini.

Innanzitutto no, non stiamo parlando della solita sconfitta di mid-term subìta da quasi tutti gli ultimi presidenti Usa, non è un semplice bilanciamento di potere. Non lo è innanzitutto dal punto di vista numerico, per l'enorme quantità di seggi conquistati dai repubblicani; ma anche dal punto di vista politico, perché nelle urne gli americani hanno espresso un profondo e radicale rigetto delle politiche stataliste e keynesiane di Obama e del Congresso a guida democratica. Non è un voto d'inerzia, che dopo due anni tende a riequilibrare i rapporti di forza a Washington, ma insieme ragionato e di pancia.

Non ci risulta che la O'Donnell fosse candidata «in Nebraska», come afferma Amato, ma è senz'altro un piccolo abbaglio. Il fatto è che i Tea Party non sono liquidabili come un movimento rozzo e populistico, accostandoli addirittura a Beppe Grillo in Italia. L'analisi di Amato è inficiata dai soliti pregiudizi, per cui le campagne mediatiche degli avversari sono bollate come «inquinamento dei meccanismi democratici», mentre quelle proprie si presumono essere inchieste obiettive e coraggiose battaglie civili; quelle degli avversari politici, tanto più se parte di un movimento che nasce dal basso, non sono vere opinioni, di quelle «prodotte dal cervello sulla base di argomentazioni», ma solo atteggiamenti irrazionali; quelle diffuse contro Obama e la sua riforma sanitaria sono solo «grossolane menzogne», ma ci si è scordati delle menzogne diffuse per anni dal populismo di sinistra contro Bush; noi di sinistra, sembra dire Amato, siamo quelli della «ragione», i Tea Party quelli dell'«emozione».

E' innegabile, e inevitabile, che essendo un movimento che nasce dal basso i Tea Party contengano al loro interno manifestazioni folcloristiche e pulsioni populistiche. Ma al di là della retorica, degli eccessi e di certe derive estremiste (respinte dall'elettorato), la protesta origina da fatti reali e non da un odio cieco e razzista nei confronti di Obama; e si basa su un principio, condivisibile o meno ma non indegno; semplice e intuitivo, ma non per questo fallace: il governo migliore è quello che "governa" meno. Ed è il messaggio più autentico dei Tea Party (meno Stato, meno spesa, meno tasse) che è passato, che è stato premiato dagli elettori, non gli orpelli integralisti. Sulla base di queste elezioni di midterm oggi possiamo finalmente scommettere sulla maturazione del movimento e sulla marginalizzazione dei suoi elementi più retrivi.

Non va dimenticato che i Tea Party nascono non solo contro Obama e i democratici, ma contro tutto l'establishment di Washington che ha reagito alla crisi spendendo il denaro dei contribuenti nei salvataggi bancari e nel big government, ossia "premiando" i colpevoli della crisi: il mondo della finanza che ha male operato sul mercato e le autorità pubbliche che hanno male governato l'economia. E la loro protesta non poteva non riguardare anche il Gop, che da tempo sotto Bush aveva abbracciato il big government. Certo, il malcontento verso lo statalismo che covava da tempo è esploso con la crisi e con le ricette ulteriormente stataliste e keynesiane di Obama. E' comprensibile che molti americani, vedendo il loro Paese procedere a passi spediti verso un modello assistenzialista di tipo europeo, senza che i repubblicani sembrassero in grado di opporsi efficacemente, abbiano reagito con le loro forze.

Bisognerebbe, invece, prendere atto di un fenomeno per molti sconcertante, per altri insperato: mentre i politici hanno approfittato della crisi per sostenere il fallimento del mercato e la rivincita dello statalismo, e quindi per espandere di nuovo il ruolo dello Stato nell'economia, i cittadini - almeno nei Paesi anglosassoni come Gran Bretagna e Stati Uniti (ma in misura minore anche nel Vecchio Continente) - invece di farsi prendere dal panico hanno continuato a diffidare dello Stato, se la stanno prendendo con la classe politica e vorrebbero i politici più distanti possibile dalle loro tasche. Non ve l'aspettavate, vero?

Wednesday, November 03, 2010

Sberla a Obama, vince il volto migliore dei Tea Party

Valanga, uragano, tsunami... Chiamatela come volete, ma la sberla che gli americani hanno assestato a Obama e ai democratici è davvero sonora. I repubblicani assumono il controllo della House, ma il numero di seggi conquistati è davvero impressionante, oltre ogni più rosea aspettativa: passano da 178 a 243 seggi, ossia +63, credo il margine più ampio del dopoguerra, superiore anche alla leggendaria vittoria del 1994 (+54). Sarebbe sbagliato non chiamarlo trionfo solo perché non sono riusciti, per un pelo, a conquistare la maggioranza anche al Senato. Hanno comunque strappato sei seggi senatoriali agli avversari, tra cui il seggio dell'Illinois che fu di Obama, e sono ancora in corsa per strapparne altri due, Colorado e Washington, dove i contendenti sono testa a testa. Potrebbe finire 51 a 49, dunque, o i repubblicani potrebbero fermarsi a 47, ma è una vittoria netta che cambia notevolmente i rapporti di forza al Senato. Vittoria ampia dei repubblicani anche nell'elezione di 37 governatori su 50. Strappano dieci Stati ai democratici e ne perdono uno, la California (un democratico succede infatti a Schwarzenegger). L'amica di Fini, Nancy Pelosi, non sarà più la Speaker della Camera, mentre Harry Reid evita per un soffio una clamorosa sconfitta e resta leader del Senato, ma dovrà cambiare musica.

Abbiamo assistito nel complesso ad un processo elettorale entusiasmante, cui da lontano non possiamo che guardare con invidia. Perché come spesso capita negli Usa i movimenti dal basso, come i Tea Party, hanno condizionato le scelte (sia di candidati che di agenda) dei vertici dei partiti, con esiti - com'è giusto che sia - alterni; e perché l'uninominale si conferma un sistema ad alto tasso di rinnovamento della classe politica.

TEA PARTY - Molto si scriverà, e molto di caricaturale temo, sui Tea Party. In fin dei conti, imponendo spesso al Gop i loro candidati, l'hanno avvantaggiato o piuttosto danneggiato? Si dirà che per colpa dei Tea Party i repubblicani non hanno conquistato il Senato. La realtà è molto semplice, persino ovvia: i candidati dei Tea Party hanno vinto, o hanno sfiorato la vittoria, laddove hanno saputo mantenere il loro focus sulla protesta antistatalista al tempo stesso risultando affidabili agli occhi degli elettori indipendenti; hanno perso, sonoramente e giustamente, laddove erano semplicemente impresentabili. E' vero, quindi, che perdendo in Delaware con la O'Donnell e in Connecticut con la McMahon, è svanito il sogno della maggioranza anche al Senato, ma in quante altre sfide alla Camera e al Senato la spinta del movimento è stata decisiva? Non scordiamoci che il Gop fino a qualche mese fa era allo sbando, in una grave crisi di credibilità presso i suoi stessi elettori, e l'impressione è che il contributo dei Tea Party l'abbia in qualche modo rivitalizzato, portandolo ad una vittoria altrimenti impensabile, almeno in queste proporzioni. Certi estremismi, che molti temono, sono stati spazzati via dagli elettori, un segnale inequivocabile anche per Sarah Palin. Sconfitte salutari, che depurano i Tea Party dagli orpelli integralisti - presi troppo spesso a pretesto dai media per screditare il movimento - e rinvigoriscono il loro messaggio più genuino, semplice e vincente (meno Stato, meno spesa, meno tasse), che arriva autorevolmente a Washington sulle gambe di senatori come Rand Paul (Kentucky) e Marco Rubio (Florida), ma anche del democratico Joe Manchin (West Virginia).

OBAMA - Con il voto di ieri gli americani hanno inequivocabilmente bocciato le politiche stataliste e keynesiane dell'amministrazione Obama ma soprattutto l'operato del Congresso a guida democratica. Sembra tornare di moda l'idea semplice e intuitiva che non è lo Stato a creare veri posti di lavoro. Il presidente è stato abbandonato da quei settori dell'elettorato che avevano creduto in lui nel 2008 portandolo alla Casa Bianca. Ha deluso sia quelli che si aspettavano un change radicale, sia quegli elettori moderati che si aspettavano una politica post-partisan, in grado, come aveva promesso, di superare gli steccati ideologici tra i partiti e di unire il Paese. E' vero che ha incontrato da parte repubblicana e nel Paese una tenace opposizione, ma il suo approccio è sembrato subito quello che non sarebbe dovuto essere: ideologico.

Ma non sono d'accordo con quanti sostengono che Obama debba dire addio alla rielezione nel 2012. Abbiamo avuto molte prove di quanto in due soli anni la politica americana possa mutare radicalmente. Il presidente ha tutto il tempo per tornare a scaldare i cuori dei suoi vecchi sostenitori, o per trovarne di nuovi (anche perché per la Casa Bianca i repubblicani hanno un serio problema di leadership). Molto dipenderà da come deciderà di affrontare le nuove maggioranze alla Camera e al Senato e quindi i nuovi rapporti di forza con i repubblicani. Può scendere in trincea, difendere con le unghie e con i denti le riforme fin qui realizzate, accettando di non combinare gran ché nei prossimi due anni ma tornando a scaldare i cuori più radicali tra i suoi elettori delusi, e quindi provare a vincere nel 2012 da sinistra, accusando il Congresso repubblicano per il mancato change; oppure, può scegliere la strada verso il centro percorsa brillantemente da Clinton dopo la sconfitta di midterm nel 1994, abbandonando le posizioni più radicali e l'immagine quasi salvifica, messianica, legata al suo personaggio, e magari concentrandosi sulla politica estera.

Nel primo caso sarebbe un azzardo, scommetterebbe su un cambiamento profondo delle coordinate culturali e sociali dell'America, che queste elezioni però sembrano smentire; nel secondo, smentirebbe i connotati stessi della sua elezione del 2008 e dovrebbe reinterpretare in termini più pragmatici e in senso più unitario, davvero post-partisan, le speranze di cambiamento degli americani. Dovrebbe riuscire a incarnare un change molto diverso da quello del 2008. Una sterzata di 180° che difficilmente passerebbe inosservata e che metterebbe comunque a dura prova la sua credibilità.