Attacco orribile e vile a Manchester... Non solo i leader arabi, anche quelli europei dovrebbero ascoltare bene: Drive them out!
Anche a Manchester come a Parigi... I terroristi islamici che colpiscono nelle nostre città sono quasi sempre stra-noti ai servizi di sicurezza e schedati. Il problema, dunque, non è di intelligence, ma di decisioni e volontà politiche. L'attuale strategia di sicurezza che si sta seguendo in Europa mostra tutti i suoi limiti. Individuare i soggetti cosiddetti "radicalizzati" e tenerli d'occhio non sempre riesce, bisogna decidere cosa farci: Drive them out or lock them up ("cacciare o rinchiudere gli estremisti").
Delle reti terroristiche in Libia che arruolano e addestrano jihadisti "europei", come Abedi, che poi tornano per colpirci chi dobbiamo ringraziare se non Obama e la signora Hillary Clinton, che tutti volevano presidente?
In Italia, finora immune da attentati dell'Isis o di al Qaeda, il combinato disposto della legge da poco approvata sui minori stranieri non accompagnati e di quella ancora da approvare sulla cittadinanza, che introduce lo "ius soli", è la ricetta giusta, e la più rapida, per avere anche in Italia tanti Salman Abedi. Basta saperlo...
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Tuesday, May 23, 2017
Tuesday, March 22, 2016
Tre scomode verità che ci ostiniamo a non riconoscere
Prima o poi doveva accadere. Come nessuno dei precedenti attacchi, quelli di oggi all'aeroporto e alle stazioni centrali della metropolitana di Bruxelles (video subito dopo l'esplosione), cuore delle istituzioni europee, sono emblematici del fallimento e della totale inadeguatezza, sproporzione per difetto, delle nostre politiche di sicurezza, di intelligence, e di contrasto anche culturale del terrorismo islamico.
Tre sono le scomode verità che ci ostiniamo a non voler riconoscere ma che attacco dopo attacco appaiono sempre più evidenti.
La prima ha a che fare con quella che semplificando possiamo chiamare la "questione Guantanamo", ovvero la questione dello status giuridico dei terroristi islamici. Si tratta senz'altro di combattenti che compiono atti di guerra e crimini contro l'umanità, all'estero come nel cuore delle nostre città. Ma non appartengono all'esercito regolare di uno Stato che ci ha dichiarato guerra. Quindi non abbiamo una controparte con la quale organizzare uno scambio di prigionieri, né avremo mai una data ufficiale di fine del conflitto dopo la quale poterli liberare senza pericolo. I nostri nemici rapiscono e tagliano gole. Noi europei quando ne arrestiamo uno non siamo nemmeno in grado di farci dare informazioni sufficienti a sventare un attentato imminente. Se c'è una peculiarità degli attacchi di Bruxelles rispetto ai precedenti, infatti, è che sono avvenuti nonostante uno dei terroristi del gruppo, Salah Abdeslam, già organizzatore ed esecutore degli attacchi di Parigi solo quattro mesi prima, fosse già agli arresti, da venerdì scorso. Molto difficile credere che Salah non fosse a conoscenza dei piani di questa mattina. E infatti ci è stato detto che stava "collaborando" e che lunedì l'intelligence belga aveva allertato le autorità di Bruxelles su un attacco terroristico imminente, senza però saperne indicare con precisione il luogo, la data e le modalità (fonte: BFM TV). Quindi, c'è la possibilità più che concreta che le autorità belghe non siano riuscite a farsi dire da Salah tutto quello che avrebbero dovuto farsi dire... E può succedere, quando si pretende di combattere il terrorismo islamico come criminalità comune.
La sensazione, il sospetto più che fondato, è che possiamo trovarci di fronte ad un caso di scuola paventato da molti in questi anni: al terrorista non viene torto un capello, per carità, ma quello si prende gioco di tutti e non si riesce a impedire l'attentato. E magari ora si starà facendo grasse risate... Mi sembra di vederle le scene degli interrogatori di garanzia con il magistrato di turno e dei colloqui con l'avvocato d'ufficio, magari anche l'interrogatorio con l'intelligence in cui finge di collaborare omettendo l'essenziale. Ore e giorni preziosi persi... Possibile, accettabile, avere tra le mani per 72 ore uno dei terroristi, sapere con certezza che è uno di loro, e non riuscire a sventare l'attacco imminente?
Siamo, insomma, in un territorio completamente sconosciuto, per cui è necessario elaborare ex novo, dal nulla, uno status giuridico e degli standard di trattamento. Ma una cosa è certa: il terrorismo non si può combattere con le armi della giustizia ordinaria, con i tempi sia pure accelerati di tribunali, interrogatori di garanzia, colloqui con avvocati, richieste di estradizione. Gli Stati Uniti hanno faticosamente trovato un punto d'equilibrio, un compromesso, per quanto precario e coperto da un velo di ipocrisia. Noi europei non ci siamo ancora nemmeno posti il problema, lo scansiamo sdegnosamente.
La seconda verità scomoda è che i terroristi islamici godono di un ampio supporto da parte delle comunità musulmane europee. Supporto che va dall'omertà e dalla copertura alla vera e propria complicità attiva. Nonostante dopo gli attacchi di Parigi fossero braccati dai servizi di sicurezza di mezza Europa, non solo Salah Abdeslam e Najim Laachraoui sono riusciti a fuggire, a nascondersi per quattro mesi a Molenbeek, in un quartiere islamico alle porte di Bruxelles. Sono riusciti persino a pianificare altri attacchi e non possiamo escludere che persino l'arresto di Salah fosse parte del piano... Tutto questo è impossibile, inimmaginabile, senza la complicità sia passiva che attiva di centinaia, forse migliaia di appartenenti alle comunità musulmane francesi e belghe. Bisogna fare i conti con vere e proprie roccaforti di jihadismo all'interno delle nostre capitali, enclave rispetto alle quali parlare di islamizzazione dell'Europa non può essere liquidato come esagerazione populistica. Non ho la soluzione in tasca, ma è certo che aprire gli occhi, esserne consapevoli, smetterla di farsi intimidire dal politicamente corretto e dal timore di passare per razzisti, è solo il primo passo.
Terza scomoda verità: l'immigrazione c'entra eccome, anche se non nel senso banale che i terroristi si infiltrano tra gli immigrati e i rifugiati. Non si può escludere che avvenga, ma non è questo il punto. Nei confronti del fenomeno degli "homegrown terrorists", che si muovono con passaporti europei, parlano perfettamente francese o inglese, spesso sembrano "integrati" da generazioni, sono protetti dalle loro famiglie e nei loro quartieri, noi siamo più disarmati e loro logisticamente avvantaggiati. Paesi europei dove vivono milioni di musulmani naturalizzati in forza di una consolidata storia coloniale non possono farci niente, devono combattere il fenomeno per quello che già è. Ma in altri Paesi il fenomeno si può ancora arginare e temi quali l'immigrazione e la cittadinanza diventano il fronte, la prima linea. Bisogna affrontare questi temi con la consapevolezza che ad oggi l'islam, essendo non solo religione ma soprattutto politica, e ideologia totalitaria, è incompatibile con i valori fondamentali alla base della convivenza nei nostri Paesi. Ne deriva che milioni di immigrati sono culturalmente inintegrabili, ammesso che lo siano economicamente e socialmente... Più immigrati di cultura islamica entrano oggi nei nostri Paesi e vengono magari anche naturalizzati, più jihadisti ci saranno domani, forse non tra di loro ma di sicuro tra i loro figli: e saranno centinaia, forse migliaia. E' un fatto demografico e statistico ed è solo una questione di tempo, così come un fatto sarebbe l'arretramento del livello medio di cultura civile nella popolazione, passi indietro di decenni, per esempio, sulla libertà d'espressione e sul ruolo della donna.
Purtroppo temo che anche questa volta tutto finirà in nastrini di commemorazione, avatar di solidarietà su Facebook e retorica a buon mercato... e in più stringenti misure di sicurezza... Certo, possiamo schierare l'esercito nelle strade, spostare i metal detector all'entrata di aeroporti e stazioni, ma ci sarà sempre da qualche parte una fila in mezzo alla quale i terroristi potranno farsi esplodere. Di fronte a noi abbiamo un bivio: o accettare di assistere periodicamente, e con sempre maggiore frequenza, a giornate come questa, consolandoci di contare decine e non centinaia di morti; oppure riconoscere queste tre verità e agire di conseguenza, invece di scappare via in lacrime come la Mogherini.
Tre sono le scomode verità che ci ostiniamo a non voler riconoscere ma che attacco dopo attacco appaiono sempre più evidenti.
La prima ha a che fare con quella che semplificando possiamo chiamare la "questione Guantanamo", ovvero la questione dello status giuridico dei terroristi islamici. Si tratta senz'altro di combattenti che compiono atti di guerra e crimini contro l'umanità, all'estero come nel cuore delle nostre città. Ma non appartengono all'esercito regolare di uno Stato che ci ha dichiarato guerra. Quindi non abbiamo una controparte con la quale organizzare uno scambio di prigionieri, né avremo mai una data ufficiale di fine del conflitto dopo la quale poterli liberare senza pericolo. I nostri nemici rapiscono e tagliano gole. Noi europei quando ne arrestiamo uno non siamo nemmeno in grado di farci dare informazioni sufficienti a sventare un attentato imminente. Se c'è una peculiarità degli attacchi di Bruxelles rispetto ai precedenti, infatti, è che sono avvenuti nonostante uno dei terroristi del gruppo, Salah Abdeslam, già organizzatore ed esecutore degli attacchi di Parigi solo quattro mesi prima, fosse già agli arresti, da venerdì scorso. Molto difficile credere che Salah non fosse a conoscenza dei piani di questa mattina. E infatti ci è stato detto che stava "collaborando" e che lunedì l'intelligence belga aveva allertato le autorità di Bruxelles su un attacco terroristico imminente, senza però saperne indicare con precisione il luogo, la data e le modalità (fonte: BFM TV). Quindi, c'è la possibilità più che concreta che le autorità belghe non siano riuscite a farsi dire da Salah tutto quello che avrebbero dovuto farsi dire... E può succedere, quando si pretende di combattere il terrorismo islamico come criminalità comune.
La sensazione, il sospetto più che fondato, è che possiamo trovarci di fronte ad un caso di scuola paventato da molti in questi anni: al terrorista non viene torto un capello, per carità, ma quello si prende gioco di tutti e non si riesce a impedire l'attentato. E magari ora si starà facendo grasse risate... Mi sembra di vederle le scene degli interrogatori di garanzia con il magistrato di turno e dei colloqui con l'avvocato d'ufficio, magari anche l'interrogatorio con l'intelligence in cui finge di collaborare omettendo l'essenziale. Ore e giorni preziosi persi... Possibile, accettabile, avere tra le mani per 72 ore uno dei terroristi, sapere con certezza che è uno di loro, e non riuscire a sventare l'attacco imminente?
Siamo, insomma, in un territorio completamente sconosciuto, per cui è necessario elaborare ex novo, dal nulla, uno status giuridico e degli standard di trattamento. Ma una cosa è certa: il terrorismo non si può combattere con le armi della giustizia ordinaria, con i tempi sia pure accelerati di tribunali, interrogatori di garanzia, colloqui con avvocati, richieste di estradizione. Gli Stati Uniti hanno faticosamente trovato un punto d'equilibrio, un compromesso, per quanto precario e coperto da un velo di ipocrisia. Noi europei non ci siamo ancora nemmeno posti il problema, lo scansiamo sdegnosamente.
La seconda verità scomoda è che i terroristi islamici godono di un ampio supporto da parte delle comunità musulmane europee. Supporto che va dall'omertà e dalla copertura alla vera e propria complicità attiva. Nonostante dopo gli attacchi di Parigi fossero braccati dai servizi di sicurezza di mezza Europa, non solo Salah Abdeslam e Najim Laachraoui sono riusciti a fuggire, a nascondersi per quattro mesi a Molenbeek, in un quartiere islamico alle porte di Bruxelles. Sono riusciti persino a pianificare altri attacchi e non possiamo escludere che persino l'arresto di Salah fosse parte del piano... Tutto questo è impossibile, inimmaginabile, senza la complicità sia passiva che attiva di centinaia, forse migliaia di appartenenti alle comunità musulmane francesi e belghe. Bisogna fare i conti con vere e proprie roccaforti di jihadismo all'interno delle nostre capitali, enclave rispetto alle quali parlare di islamizzazione dell'Europa non può essere liquidato come esagerazione populistica. Non ho la soluzione in tasca, ma è certo che aprire gli occhi, esserne consapevoli, smetterla di farsi intimidire dal politicamente corretto e dal timore di passare per razzisti, è solo il primo passo.
Terza scomoda verità: l'immigrazione c'entra eccome, anche se non nel senso banale che i terroristi si infiltrano tra gli immigrati e i rifugiati. Non si può escludere che avvenga, ma non è questo il punto. Nei confronti del fenomeno degli "homegrown terrorists", che si muovono con passaporti europei, parlano perfettamente francese o inglese, spesso sembrano "integrati" da generazioni, sono protetti dalle loro famiglie e nei loro quartieri, noi siamo più disarmati e loro logisticamente avvantaggiati. Paesi europei dove vivono milioni di musulmani naturalizzati in forza di una consolidata storia coloniale non possono farci niente, devono combattere il fenomeno per quello che già è. Ma in altri Paesi il fenomeno si può ancora arginare e temi quali l'immigrazione e la cittadinanza diventano il fronte, la prima linea. Bisogna affrontare questi temi con la consapevolezza che ad oggi l'islam, essendo non solo religione ma soprattutto politica, e ideologia totalitaria, è incompatibile con i valori fondamentali alla base della convivenza nei nostri Paesi. Ne deriva che milioni di immigrati sono culturalmente inintegrabili, ammesso che lo siano economicamente e socialmente... Più immigrati di cultura islamica entrano oggi nei nostri Paesi e vengono magari anche naturalizzati, più jihadisti ci saranno domani, forse non tra di loro ma di sicuro tra i loro figli: e saranno centinaia, forse migliaia. E' un fatto demografico e statistico ed è solo una questione di tempo, così come un fatto sarebbe l'arretramento del livello medio di cultura civile nella popolazione, passi indietro di decenni, per esempio, sulla libertà d'espressione e sul ruolo della donna.
Purtroppo temo che anche questa volta tutto finirà in nastrini di commemorazione, avatar di solidarietà su Facebook e retorica a buon mercato... e in più stringenti misure di sicurezza... Certo, possiamo schierare l'esercito nelle strade, spostare i metal detector all'entrata di aeroporti e stazioni, ma ci sarà sempre da qualche parte una fila in mezzo alla quale i terroristi potranno farsi esplodere. Di fronte a noi abbiamo un bivio: o accettare di assistere periodicamente, e con sempre maggiore frequenza, a giornate come questa, consolandoci di contare decine e non centinaia di morti; oppure riconoscere queste tre verità e agire di conseguenza, invece di scappare via in lacrime come la Mogherini.
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Tuesday, March 27, 2012
L'insostenibile scandalo dei riscatti
L'avevo ipotizzato circa tre settimane fa (qui e qui), oggi ne scrive in prima pagina il SecoloXIX: il 3 marzo si era sparsa la voce che Rossella Urru fosse stata liberata, poi la doccia fredda. Ora qualche ipotesi su ciò che potrebbe essere accaduto trapela sulla stampa: il mediatore ha incassato i soldi del riscatto, li ha girati ai sequestratori ma si è tenuto Rossella o l'ha ceduta ad un altro gruppo. E la giostra continua, con i nostri servizi segreti che si fanno prendere per il naso.
Una giostra alimentata dal comportamento letteralmente criminale dei nostri governi - di destra, di sinistra, di centro, tecnici, tutti allo stesso modo. A forza di pagare riscatti ci stiamo facendo taglieggiare non solo da gruppi terroristici veri o presunti, ma anche da finti mediatori. L'Italia paga i riscatti, e lo fa senza discutere. Se ne sono accorti persino i maosti indiani. Non solo abbiamo alimentato il business dei sequestri all'estero, ora stiamo alimentando anche un mercato di finti mediatori. Una politica che funziona sempre meno nel riportare a casa in tempi ragionevoli i rapiti, e che ormai mette a rischio anche i semplici turisti, in tutte le parti del mondo.
I risultati disastrosi sono sotto gli occhi di tutti ma nemmeno se ne parla. E per di più, la beffa: una legge - che guarda caso si è rivelata efficace - proibisce in modo categorico alle famiglie dei sequestrati sul territorio nazionale di pagare riscatti, mentre lo Stato all'estero finanzia chiunque mettendo a rischio la pelle di tutti i cittadini. Un doppio standard immorale.
Una giostra alimentata dal comportamento letteralmente criminale dei nostri governi - di destra, di sinistra, di centro, tecnici, tutti allo stesso modo. A forza di pagare riscatti ci stiamo facendo taglieggiare non solo da gruppi terroristici veri o presunti, ma anche da finti mediatori. L'Italia paga i riscatti, e lo fa senza discutere. Se ne sono accorti persino i maosti indiani. Non solo abbiamo alimentato il business dei sequestri all'estero, ora stiamo alimentando anche un mercato di finti mediatori. Una politica che funziona sempre meno nel riportare a casa in tempi ragionevoli i rapiti, e che ormai mette a rischio anche i semplici turisti, in tutte le parti del mondo.
I risultati disastrosi sono sotto gli occhi di tutti ma nemmeno se ne parla. E per di più, la beffa: una legge - che guarda caso si è rivelata efficace - proibisce in modo categorico alle famiglie dei sequestrati sul territorio nazionale di pagare riscatti, mentre lo Stato all'estero finanzia chiunque mettendo a rischio la pelle di tutti i cittadini. Un doppio standard immorale.
Friday, March 23, 2012
Danni collaterali del multiculturalismo
Tre bambini e un genitore ebrei, uccisi davanti a una scuola elementare, e tre militari di origini maghrebine hanno pagato con la vita la sconcertante sottovalutazione da parte delle autorità francesi della jihad combattuta nel cuore dell'Europa. Il loro assassino, Mohamed Merah, si era addestrato nei campi di al Qaeda ai confini tra Pakistan e Afghanistan, dove si era recato anche l'anno scorso, facendo ritorno in Francia ad ottobre come se niente fosse, come se avesse trascorso le vacanze in una colonia estiva. Aveva scelto la jihad insomma, e i servizi segreti lo conoscevano. Era stato persino arrestato in Afghanistan - non chissà quanti anni fa, ma nel 2010 - e da quel momento era stato inserito nella no fly list americana. Eppure, i servizi francesi non hanno dato peso a tutto questo. Il premier Fillon si è giustificato dicendo che «non c'era alcun elemento» per fermarlo prima che entrasse in azione: «Non abbiamo il diritto in un Paese come il nostro di sorvegliare in modo permanente, senza una decisione giudiziaria, qualcuno che non ha commesso un delitto. Viviamo in uno stato di diritto».
Giusto e sacrosanto, ma dopo i tre omicidi di Mountauban non c'erano tutti gli elementi per sospettare di Merah e impedire la strage di Tolosa? E siamo proprio sicuri che un elemento come Merah non sia il tipico affare da servizi segreti? A che servono, se non ad occuparsi di minacce alla sicurezza extra-giudiziali, cioè che non possono essere affrontate con i normali mezzi investigativi e giudiziari? E siamo proprio sicuri che andarsi ad addestrare nei campi di al Qaeda non sia da considerarsi un reato per le nostre leggi?
Le 7 vittime innocenti di Mountauban e Tolosa sono i danni collaterali della superficialità delle autorità francesi e del politically correct multiculturale. Precisiamo che qui non s'intende mettere in discussione il modello aperto e tollerante delle società occidentali, quel modello grazie al quale persone di razze, culture, religioni e idee diverse possono convivere in modo pacifico e civile. Per multiculturalismo intendiamo quell'ideologia buonista che ci impedisce di riconoscere minacce terroristiche che covano nel seno delle nostre società; per cui culture diverse possono tranquillamente convivere fianco a fianco anche senza integrarsi, senza condividere nemmeno alcuni valori basilari; che vede nell'"Altro", nel diverso culturalmente, sempre e inevitabilmente qualcuno da cui imparare, qualcuno migliore di noi, e mai, in nessun caso, qualcuno che ci odia, che ci considera nemici da massacrare. C'è una cultura diffusa che rifiuta a priori persino di ipotizzare che nell'"Altro" possa annidarsi una minaccia, salvo puntualmente venire smentita dai fatti. Ma guai a pensare il contrario, guai, si finisce per essere tacciati di razzismo.
Quella di Merah «non è una storia di degrado e povertà, il suo non era odio sociale ma ideologico, intriso di propaganda qaedista. Si era addestrato in campi all'estero, aveva scelto la strada della jihad». Parole dell'ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, intervistato dal Corriere. Cercavano il nazista, e il nazista era Merah, un ragazzo maghrebino, nero, di religione islamica.
Giusto e sacrosanto, ma dopo i tre omicidi di Mountauban non c'erano tutti gli elementi per sospettare di Merah e impedire la strage di Tolosa? E siamo proprio sicuri che un elemento come Merah non sia il tipico affare da servizi segreti? A che servono, se non ad occuparsi di minacce alla sicurezza extra-giudiziali, cioè che non possono essere affrontate con i normali mezzi investigativi e giudiziari? E siamo proprio sicuri che andarsi ad addestrare nei campi di al Qaeda non sia da considerarsi un reato per le nostre leggi?
Le 7 vittime innocenti di Mountauban e Tolosa sono i danni collaterali della superficialità delle autorità francesi e del politically correct multiculturale. Precisiamo che qui non s'intende mettere in discussione il modello aperto e tollerante delle società occidentali, quel modello grazie al quale persone di razze, culture, religioni e idee diverse possono convivere in modo pacifico e civile. Per multiculturalismo intendiamo quell'ideologia buonista che ci impedisce di riconoscere minacce terroristiche che covano nel seno delle nostre società; per cui culture diverse possono tranquillamente convivere fianco a fianco anche senza integrarsi, senza condividere nemmeno alcuni valori basilari; che vede nell'"Altro", nel diverso culturalmente, sempre e inevitabilmente qualcuno da cui imparare, qualcuno migliore di noi, e mai, in nessun caso, qualcuno che ci odia, che ci considera nemici da massacrare. C'è una cultura diffusa che rifiuta a priori persino di ipotizzare che nell'"Altro" possa annidarsi una minaccia, salvo puntualmente venire smentita dai fatti. Ma guai a pensare il contrario, guai, si finisce per essere tacciati di razzismo.
Quella di Merah «non è una storia di degrado e povertà, il suo non era odio sociale ma ideologico, intriso di propaganda qaedista. Si era addestrato in campi all'estero, aveva scelto la strada della jihad». Parole dell'ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, intervistato dal Corriere. Cercavano il nazista, e il nazista era Merah, un ragazzo maghrebino, nero, di religione islamica.
Friday, March 09, 2012
Subalterni per scelta
La morte di Franco Lamolinara è ben più tragica della situazione in cui si trovano i nostri due marò prigionieri in India, richiederebbe altrettanto riserbo, ma in questo caso le autorità italiane non hanno rinunciato ad alzare i toni della polemica con Londra, nonostante nella vicenda gli inglesi non fossero controparte ma alleati. Persino il capo dello Stato Napolitano è intervenuto severamente, bollando come «inspiegabile il comportamento del governo inglese». Ma sono giustificate le rimostranze italiane? E soprattutto, sono opportune? Sì e no. Innanzitutto, le due versioni non sono poi così contrastanti. Il ministro degli Esteri britannico Hague ha ammesso che Roma è stata avvertita «ad operazione in corso», perché la situazione venutasi a creare sul terreno imponeva una decisione in tempi troppo ristretti per poter illustrare i dettagli e aspettare il via libera italiano. Una giustificazione che si può presupporre fondata, veritiera, dal momento che è stato addirittura deciso di condurre il blitz in pieno giorno, quando è noto che in condizioni di normale pianificazione queste operazioni si conducono di notte.
Se l'Italia non è stata avvertita dell'avvio del blitz, è però ragionevole presumere - in assenza di lamentele sulla comunicazione tra i due Paesi nei giorni e mesi precedenti - che fosse al corrente degli ultimi sviluppi (l'individuazione del luogo della prigionia e il rischio di "vendita" o uccisione degli ostaggi) e, quindi, del fatto che l'esito della vicenda, a giorni, se non ad ore, sarebbe stato proprio quello del blitz, a maggior ragione considerando la politica britannica in questi casi, in generale più incline all'azione di forza che al compromesso con i terroristi. Da quanto sta emergendo da varie fonti, l'accelerazione sarebbe stata causata dall'arresto, lunedì scorso, di un capo locale e di altri quattro membri di Boko Haram, la setta terroristica islamista responsabile del sequestro, che ha sì permesso di individuare l'edificio dove erano rinchiusi gli ostaggi ma che ha inevitabilmente messo in allarme i rapitori.
Ma la polemica innescata da Roma rischia di trasformarsi in un boomerang per l'Italia. Se davvero gli inglesi hanno condiviso le informazioni fino all'ultimo da maggio scorso, cioè dall'inizio del sequestro, il ritardo di pochi minuti nella comunicazione di un blitz sul quale comunque il nostro governo non avrebbe potuto opporre alcun veto, perché uno degli ostaggi era cittadino britannico, a maggior ragione se verrà confermata la massima urgenza imposta dalla situazione, poteva tranquillamente essere sdrammatizzato. Anche per non sottolineare che la nostra posizione nella vicenda - in termini militari, di intelligence e diplomatici - è stata del tutto secondaria, se non passiva. Quali iniziative, e con quale esito, hanno intrapreso i nostri servizi per la positiva risoluzione del sequestro?
Il governo, probabilmente scottato dal caso dei marò, stavolta ha subito fatto la voce grossa, ma alla prova dei fatti la reazione potrebbe dimostrarsi sproporzionata (ancor di più se paragonata all'acquiescenza con gli indiani). A sottolineare l'irrilevanza italiana, infatti, non è tanto il ritardo con il quale ci è stato comunicato il blitz, ma il fatto che non eravamo al centro dell'azione, e che non ci saremmo stati in ogni caso, blitz o non blitz. Solo pochi giorni fa i mainstream media avevano trionfalmente celebrato il ritorno dell'Italia, per merito del governo Monti, tra i Paesi che contano. La tragica sorte di Lamolinara e quella dei due marò (per non parlare del caso Urru, dove probabilmente ci stiamo facendo taglieggiare da finti mediatori) mostrano entrambe, sia pure per aspetti molto diversi, che non è così facile. L'amara realtà è che il nostro status di media potenza, di serie B se non C, dipende non solo da fattori economici, militari e geopolitici, ma anche da una serie di scelte, di comportamenti e approcci radicatissimi e bipartisan, al dunque condivisi anche dall'opinione pubblica.
Nel primo caso, è la nostra politica sui rapimenti all'estero, che praticamente esclude il ricorso all'uso della forza ed è invece incline al pagamento del riscatto, o a qualsiasi altro tipo di compromesso con terroristi o banditi vari, a metterci in una posizione di subalternità, se non del tutto fuori gioco, soprattutto quando tra gli ostaggi c'è un cittadino americano o britannico. Dovremmo chiederci come mai nei casi di sequestro in Italia c'è una legge specifica che vieta ai famigliari di pagare il riscatto, e mi pare che abbia ben funzionato, mentre all'estero siamo pronti a presentarci valigetta in mano. E' fuor di dubbio che pagando i riscatti, o cedendo alle richieste dei terroristi, si alimenta il "business" dei rapimenti. Si salvano - forse - le vite in pericolo in quel momento, ma se ne mettono in pericolo altre centinaia.
Nel secondo caso, invece, paghiamo lo scotto di un corpaccione diplomatico annoiato, addormentato, che chiamato improvvisamente all'opera si dimostra impreparato: si attiva tardivamente e commette errori imperdonabili. La figuraccia con l'India l'abbiamo già fatta quando qualcuno ha assunto, o avallato, la decisione di consegnare i marò, assumendosi il rischio di una rinuncia di fatto alla nostra giurisdizione sul caso. Fatta la frittata, avremmo potuto rimediare, appena constatata la malafede indiana, con una missione di salvataggio, ma non l'abbiamo nemmeno preso in considerazione. E ora la nostra sovranità, e dignità, è nelle mani di un giudice a Kollam. Ma siamo vittime innanzitutto di noi stessi.
Se l'Italia non è stata avvertita dell'avvio del blitz, è però ragionevole presumere - in assenza di lamentele sulla comunicazione tra i due Paesi nei giorni e mesi precedenti - che fosse al corrente degli ultimi sviluppi (l'individuazione del luogo della prigionia e il rischio di "vendita" o uccisione degli ostaggi) e, quindi, del fatto che l'esito della vicenda, a giorni, se non ad ore, sarebbe stato proprio quello del blitz, a maggior ragione considerando la politica britannica in questi casi, in generale più incline all'azione di forza che al compromesso con i terroristi. Da quanto sta emergendo da varie fonti, l'accelerazione sarebbe stata causata dall'arresto, lunedì scorso, di un capo locale e di altri quattro membri di Boko Haram, la setta terroristica islamista responsabile del sequestro, che ha sì permesso di individuare l'edificio dove erano rinchiusi gli ostaggi ma che ha inevitabilmente messo in allarme i rapitori.
Ma la polemica innescata da Roma rischia di trasformarsi in un boomerang per l'Italia. Se davvero gli inglesi hanno condiviso le informazioni fino all'ultimo da maggio scorso, cioè dall'inizio del sequestro, il ritardo di pochi minuti nella comunicazione di un blitz sul quale comunque il nostro governo non avrebbe potuto opporre alcun veto, perché uno degli ostaggi era cittadino britannico, a maggior ragione se verrà confermata la massima urgenza imposta dalla situazione, poteva tranquillamente essere sdrammatizzato. Anche per non sottolineare che la nostra posizione nella vicenda - in termini militari, di intelligence e diplomatici - è stata del tutto secondaria, se non passiva. Quali iniziative, e con quale esito, hanno intrapreso i nostri servizi per la positiva risoluzione del sequestro?
Il governo, probabilmente scottato dal caso dei marò, stavolta ha subito fatto la voce grossa, ma alla prova dei fatti la reazione potrebbe dimostrarsi sproporzionata (ancor di più se paragonata all'acquiescenza con gli indiani). A sottolineare l'irrilevanza italiana, infatti, non è tanto il ritardo con il quale ci è stato comunicato il blitz, ma il fatto che non eravamo al centro dell'azione, e che non ci saremmo stati in ogni caso, blitz o non blitz. Solo pochi giorni fa i mainstream media avevano trionfalmente celebrato il ritorno dell'Italia, per merito del governo Monti, tra i Paesi che contano. La tragica sorte di Lamolinara e quella dei due marò (per non parlare del caso Urru, dove probabilmente ci stiamo facendo taglieggiare da finti mediatori) mostrano entrambe, sia pure per aspetti molto diversi, che non è così facile. L'amara realtà è che il nostro status di media potenza, di serie B se non C, dipende non solo da fattori economici, militari e geopolitici, ma anche da una serie di scelte, di comportamenti e approcci radicatissimi e bipartisan, al dunque condivisi anche dall'opinione pubblica.
Nel primo caso, è la nostra politica sui rapimenti all'estero, che praticamente esclude il ricorso all'uso della forza ed è invece incline al pagamento del riscatto, o a qualsiasi altro tipo di compromesso con terroristi o banditi vari, a metterci in una posizione di subalternità, se non del tutto fuori gioco, soprattutto quando tra gli ostaggi c'è un cittadino americano o britannico. Dovremmo chiederci come mai nei casi di sequestro in Italia c'è una legge specifica che vieta ai famigliari di pagare il riscatto, e mi pare che abbia ben funzionato, mentre all'estero siamo pronti a presentarci valigetta in mano. E' fuor di dubbio che pagando i riscatti, o cedendo alle richieste dei terroristi, si alimenta il "business" dei rapimenti. Si salvano - forse - le vite in pericolo in quel momento, ma se ne mettono in pericolo altre centinaia.
Nel secondo caso, invece, paghiamo lo scotto di un corpaccione diplomatico annoiato, addormentato, che chiamato improvvisamente all'opera si dimostra impreparato: si attiva tardivamente e commette errori imperdonabili. La figuraccia con l'India l'abbiamo già fatta quando qualcuno ha assunto, o avallato, la decisione di consegnare i marò, assumendosi il rischio di una rinuncia di fatto alla nostra giurisdizione sul caso. Fatta la frittata, avremmo potuto rimediare, appena constatata la malafede indiana, con una missione di salvataggio, ma non l'abbiamo nemmeno preso in considerazione. E ora la nostra sovranità, e dignità, è nelle mani di un giudice a Kollam. Ma siamo vittime innanzitutto di noi stessi.
Wednesday, May 04, 2011
Foto o non foto
E' ormai un caso dei nostri tempi: i mainstream media (soprattutto italiani) che danno credito alle più strampalate tesi complottiste sulle versioni ufficiali dei governi americani (di qualsiasi colore politico) e che invece si bevono e rilanciano sui loro siti e sulle prime pagine la propaganda utile agli islamisti dei più oscuri e inaffidabili servizi segreti.
Dopo le due foto da fonti pachistane - evidentemente false, eppure schiaffate in prima pagina - di Bin Laden morto, l'ultimo esempio questa mattina. La figlia: "Preso vivo, poi assassinato", si legge su tutti i siti, come se fosse stata interpellata direttamente. Ma quanti lettori andranno a leggersi che in realtà è la tv satellitare araba Al Arabiya a riportare che una fonte anonima dei servizi di sicurezza pakistani (gli stessi che per anni hanno chiuso entrambi gli occhi sul nascondiglio di Bin Laden) ha riferito che la figlia dodicenne di Bin Laden sostiene che... eccetera eccetera?
I migliori servizi si leggono su La Stampa, come questo di Molinari (ma anche di Mastrolilli), per il resto tranne le solite eccezioni di nicchia ci sarebbe da piangere (gli editoriali in prima del Corriere sono ancor più raccapriccianti di qualsiasi foto di Osama).
In realtà, per avere la conferma che sia stato davvero ucciso, non serve l'immagine truculenta del corpo di Bin Laden, che tanto non fermerebbe le speculazioni e le teorie della cospirazione, anzi ne solleverebbe di nuove. Come prova potrebbe persino bastare questa splendida foto che per la prima volta ritrae il presidente degli Stati Uniti e il suo staff mentre chiusi nella Situation Room della Casa Bianca assistono in diretta tv ad una missione segreta. Parlano gli sguardi tesi di Obama, di Hillary Clinton, dei generali e dei funzionari. Ma non si tratta di "credere" e "affidarsi", bensì di usare semplicemente le informazioni che abbiamo e la pura logica, senza pregiudizi.
Pubblicare o meno una foto di Bin Laden trucidato non è questione di poco conto, non è una decisione che può essere presa alla leggera, anche se ai più sembrerà banale. Di certo nulla può avere a che fare con l'esigenza di "provare" che Bin Laden sia stato davvero ucciso. Se non fosse così il leader di Al Qaeda potrebbe facilmente smentire Obama e segnare un clamoroso punto a suo favore. Il problema, delicatissimo, è quello degli effetti di breve e lungo termine che può provocare la pubblicazione di immagini. Potrebbero fomentare il desiderio di vendetta dei terroristi, ma anche offendere la sensibilità di larghi strati di popolazioni islamiche nient'affatto estremiste. Invece che una prova definitiva che metta un freno alle dietrologie, potrebbe rivelarsi uno strumento di propaganda in mano ai nemici dell'America e dell'Occidente. E nel caso di un video c'è persino il rischio di rivelare importanti dettagli del modo in cui operano le forze speciali. Tutte cose che attengono alla sicurezza non solo degli americani, ma dell'intero mondo occidentale.
«A me piacerebbe vedere la foto di Bin Laden che si nasconde dietro una donna, usandola come scudo - osserva per esempio Edward Luttwack, intervistato da Mastrolilli su La Stampa - invece preferirei evitare un'immagine del suo corpo tipo quella del cadavere di Che Guevara, che diventò un'arma nelle mani della propaganda antiamericana». Per l'ex segretario di Stato Lawrence Eagleburger, «la decenza è una delle differenze principali tra noi e i terroristi che siamo costretti a combattere: non ci serve usare le immagini di un grande successo, per fare altra propaganda». Al contrario delle teste mozzate che Al Qaeda ci ha imposto di vedere negli ultimi anni.
Prima o poi le immagini arriveranno, ma non c'è alcuna fretta. L'amministrazione Usa non deve provare nulla ai cospirazionisti di professione. Il successo della missione è dalla sua parte. Al momento opportuno, quando gli animi si saranno calmati, ci sarà spazio anche per le prove documentali. Una soluzione per adesso sarebbe farle visionare ai deputati e ai senatori Usa, ai rappresentanti del popolo americano.
Dopo le due foto da fonti pachistane - evidentemente false, eppure schiaffate in prima pagina - di Bin Laden morto, l'ultimo esempio questa mattina. La figlia: "Preso vivo, poi assassinato", si legge su tutti i siti, come se fosse stata interpellata direttamente. Ma quanti lettori andranno a leggersi che in realtà è la tv satellitare araba Al Arabiya a riportare che una fonte anonima dei servizi di sicurezza pakistani (gli stessi che per anni hanno chiuso entrambi gli occhi sul nascondiglio di Bin Laden) ha riferito che la figlia dodicenne di Bin Laden sostiene che... eccetera eccetera?
I migliori servizi si leggono su La Stampa, come questo di Molinari (ma anche di Mastrolilli), per il resto tranne le solite eccezioni di nicchia ci sarebbe da piangere (gli editoriali in prima del Corriere sono ancor più raccapriccianti di qualsiasi foto di Osama).
In realtà, per avere la conferma che sia stato davvero ucciso, non serve l'immagine truculenta del corpo di Bin Laden, che tanto non fermerebbe le speculazioni e le teorie della cospirazione, anzi ne solleverebbe di nuove. Come prova potrebbe persino bastare questa splendida foto che per la prima volta ritrae il presidente degli Stati Uniti e il suo staff mentre chiusi nella Situation Room della Casa Bianca assistono in diretta tv ad una missione segreta. Parlano gli sguardi tesi di Obama, di Hillary Clinton, dei generali e dei funzionari. Ma non si tratta di "credere" e "affidarsi", bensì di usare semplicemente le informazioni che abbiamo e la pura logica, senza pregiudizi.
Pubblicare o meno una foto di Bin Laden trucidato non è questione di poco conto, non è una decisione che può essere presa alla leggera, anche se ai più sembrerà banale. Di certo nulla può avere a che fare con l'esigenza di "provare" che Bin Laden sia stato davvero ucciso. Se non fosse così il leader di Al Qaeda potrebbe facilmente smentire Obama e segnare un clamoroso punto a suo favore. Il problema, delicatissimo, è quello degli effetti di breve e lungo termine che può provocare la pubblicazione di immagini. Potrebbero fomentare il desiderio di vendetta dei terroristi, ma anche offendere la sensibilità di larghi strati di popolazioni islamiche nient'affatto estremiste. Invece che una prova definitiva che metta un freno alle dietrologie, potrebbe rivelarsi uno strumento di propaganda in mano ai nemici dell'America e dell'Occidente. E nel caso di un video c'è persino il rischio di rivelare importanti dettagli del modo in cui operano le forze speciali. Tutte cose che attengono alla sicurezza non solo degli americani, ma dell'intero mondo occidentale.
«A me piacerebbe vedere la foto di Bin Laden che si nasconde dietro una donna, usandola come scudo - osserva per esempio Edward Luttwack, intervistato da Mastrolilli su La Stampa - invece preferirei evitare un'immagine del suo corpo tipo quella del cadavere di Che Guevara, che diventò un'arma nelle mani della propaganda antiamericana». Per l'ex segretario di Stato Lawrence Eagleburger, «la decenza è una delle differenze principali tra noi e i terroristi che siamo costretti a combattere: non ci serve usare le immagini di un grande successo, per fare altra propaganda». Al contrario delle teste mozzate che Al Qaeda ci ha imposto di vedere negli ultimi anni.
Prima o poi le immagini arriveranno, ma non c'è alcuna fretta. L'amministrazione Usa non deve provare nulla ai cospirazionisti di professione. Il successo della missione è dalla sua parte. Al momento opportuno, quando gli animi si saranno calmati, ci sarà spazio anche per le prove documentali. Una soluzione per adesso sarebbe farle visionare ai deputati e ai senatori Usa, ai rappresentanti del popolo americano.
Monday, March 21, 2011
Se siamo costretti a inseguire la colpa è solo nostra
La spiacevole sensazione di trovarci trascinati obtorto collo in un conflitto che la nostra diplomazia aveva scommesso non ci sarebbe stato, e che avremmo volentieri evitato, è comprensibile, ma della nostra condizione dobbiamo incolpare solo noi stessi. Se oggi, come si legge sul Corriere della Sera, il premier si trova «nell'indesiderata e paradossale posizione di dover sperare nel successo pieno, sino alla destituzione di Gheddafi, di un'operazione che vive anche nel ruolo di vittima», è comodo ma miope prendersela con il cinico Sarkozy. Piuttosto, Berlusconi se la prenda con le "distrazioni" giudiziarie di cui è suo malgrado oggetto e con una Farnesina poco reattiva e malamente informata. Ricordiamo bene i giorni delle rivolte in Tunisia e in Egitto, quando i nostri servizi segreti, quelli che avrebbero dovuto saperne di più al mondo sulla situazione in Libia, assicuravano che il regime del Colonnello era saldo. Se non capiamo questo in fretta, sbaglieremo anche le prossime mosse. Come osserva Panebianco sul Corriere della Sera, stiamo facendo «la cosa giusta, l'unica possibile», partecipando con tutti i nostri mezzi a questa azione internazionale. Non potevamo tirarci indietro. Il classico "buon viso a cattivo gioco", insomma, con la differenza che il cattivo gioco se l'è autoinflitto l'Italia da sola, non comprendendo per tempo ciò che stava accadendo e che inevitabilmente sarebbe accaduto. Consapevoli di non avere la forza di impedire agli altri di "giocare" nel cortile davanti casa nostra, sarebbe stato più intelligente uscire di casa col pallone sotto braccio e organizzare noi per primi la partita.
Era del tutto evidente, infatti, fin dai primissimi giorni della rivolta in Libia e anche ad umilissimi blogger come il sottoscritto, che Gheddafi non sarebbe rimasto al potere se non ad un prezzo inaccettabile di vite umane, rendendo quindi impossibile un ritorno al "business as usual" e probabilmente inevitabile un intervento militare per cacciarlo, soprattutto dopo le impegnative parole di Obama e di Sarkozy. Insomma, il nostro comodo e privilegiato "posto al sole" in Libia era comunque perduto, tanto valeva prepararsi il prima possibile a rioccuparlo nella nuova Libia. Avremmo dovuto giocare d'anticipo e porci noi, dall'inizio, alla testa dei Paesi interventisti, invece abbiamo tentennato e ora ci troviamo costretti ad inseguire, ma sempre titubanti, il protagonismo altrui. Capisco che è un boccone amarissimo, ma dobbiamo mandarlo giù in fretta. L'esclusione della Nato è anch'essa un altro piccolo grande successo di Sarkozy, permesso dalla debolezza americana e italiana. Si potrebbe iniziare da qui per arginare il protagonismo francese.
Non sorprende che la Lega, per sua natura non pacifista ma isolazionista, sia refrattaria all'intervento. Sorprende che lo siano i principali giornali di centrodestra, con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi, che in tempi non sospetti aveva colto tutti gli aspetti di ciò che stava montando. Questa guerra porterà solo altri immigrati sulle nostre coste e ci toglierà il petrolio e il gas libici, come temono i leghisti ed ampi settori del Pdl? Avrei capito le perplessità nei confronti del nostro intervento se ci fosse stato davvero uno status quo da difendere, ma al contrario ciò che ci ha fatto rimanere indietro rispetto ai nostri alleati è esattamente non aver compreso che tutto ciò che ci interessa in Libia - le nostre "piattaforme" energetiche e commerciali, il contenimento dell'immigrazione clandestina e dell'estremismo islamico, non avere alle nostre porte uno Stato fallito - per noi era già perduto in partenza, con l'innescarsi della crisi, e questa guerra, semmai, ci offre l'occasione di tentare di riprenderci in futuro ciò che altrimenti non avremmo avuto più. In ogni caso. Perché se Gheddafi fosse rimasto al potere, certo non sarebbe stato possibile tornare al "business as usual" e il raìs, ce lo ha brutalmente chiarito lui stesso alcuni giorni fa, ci avrebbe fatto pagare salatissimo il nostro mancato appoggio, avremmo dovuto ritrattare tutto; se invece la nuova Libia nascesse con un aiuto esterno ma senza il contributo italiano, perderemmo ogni possibilità d'influenza. Dunque, per uscire dal vicolo cieco occorreva fare esattamente ciò che sta facendo Sarkozy, solo prima che lo facesse lui. Adesso è tardi, non possiamo far altro che accodarci e riguadagnare pazientemente le posizioni perdute. Siamo in grado di farlo, perché trattiamo con i libici da quarant'anni e non abbiamo l'arroganza dei francesi.
In questi ultimi due decenni abbiamo preso parte a costose missioni estere in cui il nostro interesse a partecipare era solo indiretto: contribuire alla lotta contro il terrorismo islamico e accrescere il nostro status sulla scena internazionale. Paradossalmente è proprio nella crisi libica che non abbiamo saputo cogliere l'occasione più unica che rara di un intervento nelle cui ragioni confluivano la nobile causa della difesa delle popolazioni civili da una brutale dittatura, l'interesse strategico ad accrescere il nostro status guidando una coalizione internazionale nel Mediterraneo (almeno formalmente sarebbe stato possibile vista la refrattarietà degli Usa di Obama) e - per una volta - la tutela di interessi concretissimi (energetici e commerciali) nell'unico Paese che si trova, se così possiamo definirla, nella nostra "sfera d'influenza". Sarkozy invece - con l'arroganza tipica dei francesi e un pizzico di avventurismo (la scommessa su una campagna breve, dal minimo sforzo e trionfale è comunque un azzardo) - ha colto al volo l'occasione di riempire questo vuoto lasciato dalle incertezze di Washington e dall'imbarazzo italiano. Per la Francia l'occasione di sostituirsi a noi come primo partner energetico e commerciale della nuova Libia e di lanciarsi così alla conquista del nostro "spazio naturale": il Mediterraneo. Per Sarkozy, accusato in patria di aver subito in modo troppo passivo le crisi in Tunisia ed Egitto, anche una ghiottissima occasione per riaffermare la "grandeur" francese e risollevare così le sue sorti personali. Per gli Stati Uniti non solo la difesa della propria influenza in Medio Oriente, e l'interesse strategico a sintonizzarsi con le masse arabe che si sono rivoltate contro i loro oppressori imprimendo alla storia della regione un nuovo corso, ma anche un modo per penetrare in Africa (dopo il tragico fallimento in Somalia) e contrastare le ambizioni imperialiste della Cina (come abbiamo visto presente in forze nella Libia di Gheddafi).
E' «la guerra di Sarkozy», come osserva Lucio Caracciolo su la Repubblica, o non dobbiamo farci ingannare dalle apparenze ed è «tutta americana», come sostiene Lucia Annunziata su La Stampa? In effetti, quello francese potrebbe rivelarsi un colpo di coda della "grandeur" perduta, mentre dietro l'intervento "umanitario" per gli Stati Uniti si concretizza la possibilità di segnare un punto a favore nella serrata competizione che li vede in svantaggio rispetto alla Cina per l'influenza in Africa.
L'azione in corso presenta non pochi rischi, è vero. L'obiettivo dichiarato è far cadere Gheddafi. Questo nella risoluzione dell'Onu che autorizza gli attacchi non c'è scritto, ma tutti lo sanno. Ebbene, uno dei rischi di quest'azione, poiché tardiva e priva fino ad ora di una leadership forte, è che salvi gli insorti dalla controffensiva del raìs, ma che non riesca a rianimare le loro capacità militari e quindi a provocare in tempi ragionevoli la caduta del dittatore. All'inizio c'è stato un momento, durante l'avanzata dei ribelli, durato circa una settimana, in cui sembrava che una no-fly zone, alcuni bombardamenti mirati, potessero assestare l'ultima spallata a Gheddafi. Oggi è tutto molto più problematico, perché i raid sono iniziati quando al Colonnello mancava solo Bengasi per riprendersi il controllo del Paese intero. Il rischio quindi è una situazione di stallo: la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo. Purtroppo sull'efficacia dell'intervento pesa anche l'irresolutezza e la mancanza di leadership degli Stati Uniti. Molti vi hanno visto l'intenzione di lasciare per una volta all'Europa la guida politica di una crisi alle porte del vecchio continente. Purtroppo, bisogna riconoscere che le oscillazioni della Casa Bianca sono dipese solo dalle incertezze di Obama, a loro volta dovute in parte all'inesperienza ma soprattutto alla totale mancanza di visione politica del presidente Usa.
Non si capisce, poi, se Obama si nasconda spudoratamente o sia un totale idiota, quando sottolinea che l'intervento punta a «proteggere civili» e non a «rovesciare un regime» (se così fosse, sarebbe un irresponsabile), e che gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano» (non credo gli americani siano contenti di sapere che le loro forze armate sono sotto il comando di Sarkozy). Per altro, anche la «solida legittimazione internazionale» fornita dalla risoluzione dell'Onu mostra le prime crepe, con le prese di distanza di Russia e Lega araba, mettendo a nudo un lavoro diplomatico non proprio perfetto come si vorrebbe far credere.
Era del tutto evidente, infatti, fin dai primissimi giorni della rivolta in Libia e anche ad umilissimi blogger come il sottoscritto, che Gheddafi non sarebbe rimasto al potere se non ad un prezzo inaccettabile di vite umane, rendendo quindi impossibile un ritorno al "business as usual" e probabilmente inevitabile un intervento militare per cacciarlo, soprattutto dopo le impegnative parole di Obama e di Sarkozy. Insomma, il nostro comodo e privilegiato "posto al sole" in Libia era comunque perduto, tanto valeva prepararsi il prima possibile a rioccuparlo nella nuova Libia. Avremmo dovuto giocare d'anticipo e porci noi, dall'inizio, alla testa dei Paesi interventisti, invece abbiamo tentennato e ora ci troviamo costretti ad inseguire, ma sempre titubanti, il protagonismo altrui. Capisco che è un boccone amarissimo, ma dobbiamo mandarlo giù in fretta. L'esclusione della Nato è anch'essa un altro piccolo grande successo di Sarkozy, permesso dalla debolezza americana e italiana. Si potrebbe iniziare da qui per arginare il protagonismo francese.
Non sorprende che la Lega, per sua natura non pacifista ma isolazionista, sia refrattaria all'intervento. Sorprende che lo siano i principali giornali di centrodestra, con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi, che in tempi non sospetti aveva colto tutti gli aspetti di ciò che stava montando. Questa guerra porterà solo altri immigrati sulle nostre coste e ci toglierà il petrolio e il gas libici, come temono i leghisti ed ampi settori del Pdl? Avrei capito le perplessità nei confronti del nostro intervento se ci fosse stato davvero uno status quo da difendere, ma al contrario ciò che ci ha fatto rimanere indietro rispetto ai nostri alleati è esattamente non aver compreso che tutto ciò che ci interessa in Libia - le nostre "piattaforme" energetiche e commerciali, il contenimento dell'immigrazione clandestina e dell'estremismo islamico, non avere alle nostre porte uno Stato fallito - per noi era già perduto in partenza, con l'innescarsi della crisi, e questa guerra, semmai, ci offre l'occasione di tentare di riprenderci in futuro ciò che altrimenti non avremmo avuto più. In ogni caso. Perché se Gheddafi fosse rimasto al potere, certo non sarebbe stato possibile tornare al "business as usual" e il raìs, ce lo ha brutalmente chiarito lui stesso alcuni giorni fa, ci avrebbe fatto pagare salatissimo il nostro mancato appoggio, avremmo dovuto ritrattare tutto; se invece la nuova Libia nascesse con un aiuto esterno ma senza il contributo italiano, perderemmo ogni possibilità d'influenza. Dunque, per uscire dal vicolo cieco occorreva fare esattamente ciò che sta facendo Sarkozy, solo prima che lo facesse lui. Adesso è tardi, non possiamo far altro che accodarci e riguadagnare pazientemente le posizioni perdute. Siamo in grado di farlo, perché trattiamo con i libici da quarant'anni e non abbiamo l'arroganza dei francesi.
In questi ultimi due decenni abbiamo preso parte a costose missioni estere in cui il nostro interesse a partecipare era solo indiretto: contribuire alla lotta contro il terrorismo islamico e accrescere il nostro status sulla scena internazionale. Paradossalmente è proprio nella crisi libica che non abbiamo saputo cogliere l'occasione più unica che rara di un intervento nelle cui ragioni confluivano la nobile causa della difesa delle popolazioni civili da una brutale dittatura, l'interesse strategico ad accrescere il nostro status guidando una coalizione internazionale nel Mediterraneo (almeno formalmente sarebbe stato possibile vista la refrattarietà degli Usa di Obama) e - per una volta - la tutela di interessi concretissimi (energetici e commerciali) nell'unico Paese che si trova, se così possiamo definirla, nella nostra "sfera d'influenza". Sarkozy invece - con l'arroganza tipica dei francesi e un pizzico di avventurismo (la scommessa su una campagna breve, dal minimo sforzo e trionfale è comunque un azzardo) - ha colto al volo l'occasione di riempire questo vuoto lasciato dalle incertezze di Washington e dall'imbarazzo italiano. Per la Francia l'occasione di sostituirsi a noi come primo partner energetico e commerciale della nuova Libia e di lanciarsi così alla conquista del nostro "spazio naturale": il Mediterraneo. Per Sarkozy, accusato in patria di aver subito in modo troppo passivo le crisi in Tunisia ed Egitto, anche una ghiottissima occasione per riaffermare la "grandeur" francese e risollevare così le sue sorti personali. Per gli Stati Uniti non solo la difesa della propria influenza in Medio Oriente, e l'interesse strategico a sintonizzarsi con le masse arabe che si sono rivoltate contro i loro oppressori imprimendo alla storia della regione un nuovo corso, ma anche un modo per penetrare in Africa (dopo il tragico fallimento in Somalia) e contrastare le ambizioni imperialiste della Cina (come abbiamo visto presente in forze nella Libia di Gheddafi).
E' «la guerra di Sarkozy», come osserva Lucio Caracciolo su la Repubblica, o non dobbiamo farci ingannare dalle apparenze ed è «tutta americana», come sostiene Lucia Annunziata su La Stampa? In effetti, quello francese potrebbe rivelarsi un colpo di coda della "grandeur" perduta, mentre dietro l'intervento "umanitario" per gli Stati Uniti si concretizza la possibilità di segnare un punto a favore nella serrata competizione che li vede in svantaggio rispetto alla Cina per l'influenza in Africa.
L'azione in corso presenta non pochi rischi, è vero. L'obiettivo dichiarato è far cadere Gheddafi. Questo nella risoluzione dell'Onu che autorizza gli attacchi non c'è scritto, ma tutti lo sanno. Ebbene, uno dei rischi di quest'azione, poiché tardiva e priva fino ad ora di una leadership forte, è che salvi gli insorti dalla controffensiva del raìs, ma che non riesca a rianimare le loro capacità militari e quindi a provocare in tempi ragionevoli la caduta del dittatore. All'inizio c'è stato un momento, durante l'avanzata dei ribelli, durato circa una settimana, in cui sembrava che una no-fly zone, alcuni bombardamenti mirati, potessero assestare l'ultima spallata a Gheddafi. Oggi è tutto molto più problematico, perché i raid sono iniziati quando al Colonnello mancava solo Bengasi per riprendersi il controllo del Paese intero. Il rischio quindi è una situazione di stallo: la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo. Purtroppo sull'efficacia dell'intervento pesa anche l'irresolutezza e la mancanza di leadership degli Stati Uniti. Molti vi hanno visto l'intenzione di lasciare per una volta all'Europa la guida politica di una crisi alle porte del vecchio continente. Purtroppo, bisogna riconoscere che le oscillazioni della Casa Bianca sono dipese solo dalle incertezze di Obama, a loro volta dovute in parte all'inesperienza ma soprattutto alla totale mancanza di visione politica del presidente Usa.
Non si capisce, poi, se Obama si nasconda spudoratamente o sia un totale idiota, quando sottolinea che l'intervento punta a «proteggere civili» e non a «rovesciare un regime» (se così fosse, sarebbe un irresponsabile), e che gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano» (non credo gli americani siano contenti di sapere che le loro forze armate sono sotto il comando di Sarkozy). Per altro, anche la «solida legittimazione internazionale» fornita dalla risoluzione dell'Onu mostra le prime crepe, con le prese di distanza di Russia e Lega araba, mettendo a nudo un lavoro diplomatico non proprio perfetto come si vorrebbe far credere.
Friday, February 25, 2011
Libia, l'ora di agire
Da taccuinopolitico.it
Nonostante la tragedia del popolo libico e il rischio caos, le opportunità che rischiamo di non vedere
La Libia rischia di diventare nelle prossime ore e nei prossimi giorni una nuova Bosnia, alle porte – questa volta meridionali – dell’Europa: per la crudeltà e l’efferatezza con cui la dittatura si accanisce contro la sua stessa popolazione; per la guerra civile e la frantumazione del proprio territorio cui rischia di andare incontro; e per la nostra ignavia di occidentali. Nonostante tutti i nostri apparati di sicurezza e di intelligence, e le nostre elefantiache burocrazie, ci facciamo trovare sempre un passo, se non due passi, indietro agli eventi. E così, mentre massacro dopo massacro in Libia si avvicina la fine del regime, e quindi dovrebbe essere per noi l’ora delle decisioni e dell’azione, prendendo almeno in considerazione l’uso della forza, invece a Washington e a Bruxelles si esprimono altisonanti condanne e si minacciano inutili sanzioni. Parole e sanzioni non basteranno a salvare vite umane dalla carneficina di Gheddafi.
Nonostante gli orrori, e il fondato timore di un’ondata migratoria epocale e di derive islamiste, proprio alla luce degli enormi interessi in gioco dovremmo intravedere in questo critico momento di instabilità anche straordinarie opportunità: quella di coniugare stabilità e democrazia nella regione; e in particolare per noi italiani in Libia la prospettiva, attesa invano per oltre 40 anni, di trattare i nostri affari e i nostri interessi energetici con interlocutori più affidabili e rispettabili di Gheddafi. Sembra mancare, invece, la consapevolezza delle possibilità che si sono aperte e, di conseguenza, la determinazione necessaria per cercare di concretizzarle. Ed è un deficit di comprensione che non riguarda solo l’Italia, ma anche l’Europa e l’amministrazione Obama. Il sostegno occidentale alle dittature arabe “moderate” ha alimentato quei sentimenti antiamericani e antieuropei che con quel nostro sostegno ci illudevamo di contenere. E così oggi non solo continuiamo ad essere malvisti dagli integralisti islamici, ma gli egiziani rimproverano all’America l’amicizia con Mubarak, i tunisini ai francesi quella con Ben Alì e i libici a noi italiani quella con Gheddafi. Molti avevano previsto diversi anni fa che la fine dei regimi dittatoriali del Medio Oriente – e non la questione israelo-palestinese – era la chiave di volta della regione. Ma anche per i ritardatari quanto avvenuto prima in Tunisia poi in Egitto dovrebbe far suonare la sveglia.
Ci sono volute ore, se non giorni, per comprendere ciò che alla maggior parte degli osservatori, ma a ben vedere a chiunque fosse minimamente informato e dotato di buon senso, direi in contatto con la realtà, appariva ormai chiaro, e cioè che la sorte di Gheddafi era ormai segnata ma che, conoscendolo, non avrebbe esitato a versare tutto il sangue necessario per restare aggrappato al suo potere. Ci si poteva chiedere “se” il virus delle rivolte che in queste settimane si è diffuso in tutto il mondo arabo avrebbe contagiato o meno anche la Libia. Ma una volta contagiata, chi poteva davvero illudersi che Gheddafi avrebbe retto all’urto laddove persino l’autocrate più solido della regione, e anche il più “moderato”, Hosni Mubarak, aveva dovuto abbandonare?
E invece abbiamo parlato di «non ingerenza» e di «riconciliazione», mentre la repressione già si manifestava in tutta la sua disumanità, e troppo tardi abbiamo condannato le violenze ed espresso «vicinanza al popolo libico». Il governo italiano ha dato l’impressione di credere che Gheddafi avesse, o potesse comunque riprendere, il controllo della situazione, e sottovalutato la possibilità che reagisse con una brutalità tale da rendere insostenibile qualsiasi velleità non-interventista. Un doppio errore di valutazione che solleva interrogativi inquietanti sull’operatività dei nostri servizi segreti e sulle comunicazioni tra questi e chi deve prendere le decisioni, cioè il governo. Eppure, non sono così tanti i Paesi in cui abbiamo interessi economici e strategici di tale portata. Possibile che nessuno abbia informato il ministro Frattini e il presidente Berlusconi che la situazione in Libia (soprattutto alla luce di quanto già avvenuto in Tunisia e in Egitto) era sul punto di esplodere? Che nessuno fosse consapevole delle numerose e autorevoli defezioni che ci sarebbero state nell’esercito e tra i ministri di Gheddafi – il presupposto per la riuscita di qualsiasi rivoluzione? E possibile che nessuno avesse saputo dell’intenzione del raìs di non badare al sangue versato? Un deficit di lettura degli eventi e intuito politico da rimproverare non solo al governo, ma a tutta la politica nazionale. Si continua a polemizzare sui baciamani, su chi si è fatto fotografare con chi, ma nessun contributo concreto, di analisi e sul “che fare”, né tanto meno alcuno spirito bipartisan, è giunto dalle opposizioni.
Per l’Italia un’occasione sciupata sotto molteplici aspetti: avremmo potuto contribuire attivamente (anche solo proteggendo la vita dei civili dalle rappresaglie aeree del regime) alla caduta di Gheddafi, dimostrando così al popolo libico che all’Italia interessa “la Libia”, a prescindere da chi è al potere; e giocare un ruolo di leadership in Europa come mai forse nella storia recente. Invece di farci paralizzare dalle paure, avremmo potuto essere noi italiani a dire agli altri, Stati Uniti compresi, cosa fare per gestire la crisi. L’Italia avrebbe potuto, e dovuto, porsi alla testa dei Paesi occidentali nel chiedere un intervento rapido e concreto. Una no-fly zone poteva essere decisa lunedì sera ed è essere già operativa oggi. Far alzare in volo i nostri caccia per impedire a quelli del Colonnello di bombardare la popolazione; colpire obiettivi strategici per assestare l’ultima spallata al regime; né sarebbe assurdo prepararci ad un intervento di terra, che vada dall’aiuto umanitario e dalla protezione delle risorse energetiche al peace-enforcing. Non sarebbero affatto visti dai libici come atti di neocolonialismo. Potremmo invece scrollarci di dosso la nostra cattiva reputazione di “amici” del loro aguzzino.
Pur essendo fondata la preoccupazione per l’integrità della Libia, così come il timore per possibili derive islamiste e un esodo epocale verso le nostre coste, non agire, consentire a Gheddafi di fare “tabula rasa”, accrescerebbe tali rischi. Bisogna capire con urgenza che a questo punto il Colonnello va fatto cadere. E non solo per sintonizzarci al più presto con la nuova realtà che sta emergendo in Libia, ma per scongiurare concretamente la pur minima possibilità che resti al potere. E’ improbabile che vi riesca, ma se così fosse correremmo il rischio di danni permanenti al flusso di petrolio e gas dalla Libia, sia da parte del regime come forma di ricatto, sia da parte dei rivoltosi come atti di sabotaggio. Non abbiamo compreso subito cosa stava accadendo, per anni siamo rimasti schierati dalla “parte sbagliata della Storia”, ma siamo ancora in tempo per saltare sul carro dei vincitori – se non altro per “opportunismo”. Bisogna agire in fretta. Purtroppo, però, adesso che se ne comincia appena a parlare, e che a Washington, a Parigi e a Londra pare non si escluda nemmeno un intervento militare, l’Italia rischia di restare ai margini nel proprio “cortile di casa”.
Nonostante la tragedia del popolo libico e il rischio caos, le opportunità che rischiamo di non vedere
La Libia rischia di diventare nelle prossime ore e nei prossimi giorni una nuova Bosnia, alle porte – questa volta meridionali – dell’Europa: per la crudeltà e l’efferatezza con cui la dittatura si accanisce contro la sua stessa popolazione; per la guerra civile e la frantumazione del proprio territorio cui rischia di andare incontro; e per la nostra ignavia di occidentali. Nonostante tutti i nostri apparati di sicurezza e di intelligence, e le nostre elefantiache burocrazie, ci facciamo trovare sempre un passo, se non due passi, indietro agli eventi. E così, mentre massacro dopo massacro in Libia si avvicina la fine del regime, e quindi dovrebbe essere per noi l’ora delle decisioni e dell’azione, prendendo almeno in considerazione l’uso della forza, invece a Washington e a Bruxelles si esprimono altisonanti condanne e si minacciano inutili sanzioni. Parole e sanzioni non basteranno a salvare vite umane dalla carneficina di Gheddafi.
Nonostante gli orrori, e il fondato timore di un’ondata migratoria epocale e di derive islamiste, proprio alla luce degli enormi interessi in gioco dovremmo intravedere in questo critico momento di instabilità anche straordinarie opportunità: quella di coniugare stabilità e democrazia nella regione; e in particolare per noi italiani in Libia la prospettiva, attesa invano per oltre 40 anni, di trattare i nostri affari e i nostri interessi energetici con interlocutori più affidabili e rispettabili di Gheddafi. Sembra mancare, invece, la consapevolezza delle possibilità che si sono aperte e, di conseguenza, la determinazione necessaria per cercare di concretizzarle. Ed è un deficit di comprensione che non riguarda solo l’Italia, ma anche l’Europa e l’amministrazione Obama. Il sostegno occidentale alle dittature arabe “moderate” ha alimentato quei sentimenti antiamericani e antieuropei che con quel nostro sostegno ci illudevamo di contenere. E così oggi non solo continuiamo ad essere malvisti dagli integralisti islamici, ma gli egiziani rimproverano all’America l’amicizia con Mubarak, i tunisini ai francesi quella con Ben Alì e i libici a noi italiani quella con Gheddafi. Molti avevano previsto diversi anni fa che la fine dei regimi dittatoriali del Medio Oriente – e non la questione israelo-palestinese – era la chiave di volta della regione. Ma anche per i ritardatari quanto avvenuto prima in Tunisia poi in Egitto dovrebbe far suonare la sveglia.
Ci sono volute ore, se non giorni, per comprendere ciò che alla maggior parte degli osservatori, ma a ben vedere a chiunque fosse minimamente informato e dotato di buon senso, direi in contatto con la realtà, appariva ormai chiaro, e cioè che la sorte di Gheddafi era ormai segnata ma che, conoscendolo, non avrebbe esitato a versare tutto il sangue necessario per restare aggrappato al suo potere. Ci si poteva chiedere “se” il virus delle rivolte che in queste settimane si è diffuso in tutto il mondo arabo avrebbe contagiato o meno anche la Libia. Ma una volta contagiata, chi poteva davvero illudersi che Gheddafi avrebbe retto all’urto laddove persino l’autocrate più solido della regione, e anche il più “moderato”, Hosni Mubarak, aveva dovuto abbandonare?
E invece abbiamo parlato di «non ingerenza» e di «riconciliazione», mentre la repressione già si manifestava in tutta la sua disumanità, e troppo tardi abbiamo condannato le violenze ed espresso «vicinanza al popolo libico». Il governo italiano ha dato l’impressione di credere che Gheddafi avesse, o potesse comunque riprendere, il controllo della situazione, e sottovalutato la possibilità che reagisse con una brutalità tale da rendere insostenibile qualsiasi velleità non-interventista. Un doppio errore di valutazione che solleva interrogativi inquietanti sull’operatività dei nostri servizi segreti e sulle comunicazioni tra questi e chi deve prendere le decisioni, cioè il governo. Eppure, non sono così tanti i Paesi in cui abbiamo interessi economici e strategici di tale portata. Possibile che nessuno abbia informato il ministro Frattini e il presidente Berlusconi che la situazione in Libia (soprattutto alla luce di quanto già avvenuto in Tunisia e in Egitto) era sul punto di esplodere? Che nessuno fosse consapevole delle numerose e autorevoli defezioni che ci sarebbero state nell’esercito e tra i ministri di Gheddafi – il presupposto per la riuscita di qualsiasi rivoluzione? E possibile che nessuno avesse saputo dell’intenzione del raìs di non badare al sangue versato? Un deficit di lettura degli eventi e intuito politico da rimproverare non solo al governo, ma a tutta la politica nazionale. Si continua a polemizzare sui baciamani, su chi si è fatto fotografare con chi, ma nessun contributo concreto, di analisi e sul “che fare”, né tanto meno alcuno spirito bipartisan, è giunto dalle opposizioni.
Per l’Italia un’occasione sciupata sotto molteplici aspetti: avremmo potuto contribuire attivamente (anche solo proteggendo la vita dei civili dalle rappresaglie aeree del regime) alla caduta di Gheddafi, dimostrando così al popolo libico che all’Italia interessa “la Libia”, a prescindere da chi è al potere; e giocare un ruolo di leadership in Europa come mai forse nella storia recente. Invece di farci paralizzare dalle paure, avremmo potuto essere noi italiani a dire agli altri, Stati Uniti compresi, cosa fare per gestire la crisi. L’Italia avrebbe potuto, e dovuto, porsi alla testa dei Paesi occidentali nel chiedere un intervento rapido e concreto. Una no-fly zone poteva essere decisa lunedì sera ed è essere già operativa oggi. Far alzare in volo i nostri caccia per impedire a quelli del Colonnello di bombardare la popolazione; colpire obiettivi strategici per assestare l’ultima spallata al regime; né sarebbe assurdo prepararci ad un intervento di terra, che vada dall’aiuto umanitario e dalla protezione delle risorse energetiche al peace-enforcing. Non sarebbero affatto visti dai libici come atti di neocolonialismo. Potremmo invece scrollarci di dosso la nostra cattiva reputazione di “amici” del loro aguzzino.
Pur essendo fondata la preoccupazione per l’integrità della Libia, così come il timore per possibili derive islamiste e un esodo epocale verso le nostre coste, non agire, consentire a Gheddafi di fare “tabula rasa”, accrescerebbe tali rischi. Bisogna capire con urgenza che a questo punto il Colonnello va fatto cadere. E non solo per sintonizzarci al più presto con la nuova realtà che sta emergendo in Libia, ma per scongiurare concretamente la pur minima possibilità che resti al potere. E’ improbabile che vi riesca, ma se così fosse correremmo il rischio di danni permanenti al flusso di petrolio e gas dalla Libia, sia da parte del regime come forma di ricatto, sia da parte dei rivoltosi come atti di sabotaggio. Non abbiamo compreso subito cosa stava accadendo, per anni siamo rimasti schierati dalla “parte sbagliata della Storia”, ma siamo ancora in tempo per saltare sul carro dei vincitori – se non altro per “opportunismo”. Bisogna agire in fretta. Purtroppo, però, adesso che se ne comincia appena a parlare, e che a Washington, a Parigi e a Londra pare non si escluda nemmeno un intervento militare, l’Italia rischia di restare ai margini nel proprio “cortile di casa”.
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