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Monday, July 25, 2016

Il Califfato di Erdogan con l'aiuto dell'Europa

Pubblicato su The Fielder

Il capo dell'Isis al-Baghdadi starà provando un pizzico di invidia per il presidente turco Erdogan, che sta riuscendo, lui sì, a metter su un vero Califfato, dentro la Nato e con un piede nell'Ue. Una battuta, ma non troppo... Considerando la rapidità con cui Erdogan, appena scampato al golpe, ha dato il via all'epurazione di massa cui assistiamo da giorni, è probabile che avesse pronte da tempo le liste di nomi da epurare e che i golpisti abbiano agito mossi dalla fretta e dalla disperazione, giocando il tutto per tutto nel tentativo di anticipare una purga comunque imminente.

A giochi fatti, e a denti stretti, il presidente Obama e i leader europei hanno espresso il loro sostegno al governo "democraticamente eletto", nonostante la deriva autoritaria e islamista nella Turchia di Erdogan fosse ormai chiara da anni. Si sono trincerati dietro un mero formalismo (dal momento che la democrazia non si esaurisce certo nel voto popolare), ma è stata la loro stessa incauta realpolitik a costringerli a tenersi buono (per l'accordo sui migranti e la guerra all'Isis) un partner imbarazzante e inaffidabile. La Turchia è altro, e guarda altrove, rispetto al Paese che nel dicembre 1999 il Consiglio europeo accettò come candidato all'adesione. La Turchia laica, kemalista, quasi democratica è morta e sepolta in poco più di dieci anni e proprio sotto lo sguardo benevolo dell'Europa.

Molti non se ne sono ancora accorti, o fingono di non accorgersene. La tesi continua a essere che in fondo è colpa nostra. Perché non abbiamo aperto le porte alla Turchia quando avremmo dovuto, li abbiamo "respinti", abbiamo fatto "i difficili" sui numerosi capitoli dei negoziati. Sarebbe quindi venuto meno un importante incentivo per proseguire sulla strada della democrazia e dello stato di diritto e ora rischiamo che la Turchia, delusa, rivolga altrove la propria attenzione geopolitica, alla Russia o all'Iran.

Dobbiamo smetterla con questa visione eurocentrica per cui "gli altri", Putin e adesso Erdogan, agiscono solo in reazione alla frustrazione delle loro presunte aspettative su di noi, e non secondo loro ambizioni geopolitiche. Giuste o sbagliate, agiscono indipendentemente da cosa fa e dice l'Europa.

E' questo purtroppo uno dei frutti avvelenati dell'ideologia europeista. La convinzione che l'Unione europea fosse un progetto inevitabilmente destinato a magnifiche sorti e progressive ha alimentato, a cavallo degli anni 2000, un vero e proprio delirio di onnipotenza. C'è stato, in effetti, un momento in cui il progetto europeo emanava un "soft power" tale da attrarre e indurre miglioramenti nei Paesi candidati all'adesione o all'associazione. Ma quel periodo, in cui l'Ue sembrava potesse trasformare in oro qualsiasi cosa toccasse, è ampiamente alle nostre spalle. Se rientrava nella "mission" europea l'adesione dei Paesi dell'Europa orientale appena liberatisi dal giogo sovietico, per una vera riunificazione del continente, fu un clamoroso abbaglio pensare che si potesse includere anche la Turchia, sulla base dei suoi stretti legami con l'Occidente e la natura laica delle sue istituzioni.

L'ancoraggio di Ankara all'Occidente, attraverso la sua appartenenza alla Nato, si deve principalmente alle circostanze della Guerra Fredda e alla modernizzazione kemalista. Ma crollata l'Unione sovietica, venuti meno i vincoli della Guerra Fredda, era logico aspettarsi che rivolgesse altrove la sua attenzione geopolitica, non appena avesse avuto forza e consapevolezza. E in nemmeno due decenni anche la laicizzazione forzata di Ataturk si è sciolta come neve al sole, rivelandosi effimera e superficiale rispetto alla più profonda identità religiosa e culturale islamica del Paese, che ha attraversato il kemalismo come un fiume carsico per poi riemergere prepotentemente.

Dopo il crollo sovietico, come ha spiegato il prof. Alessandro Grossato, orientalista della Facoltà teologica del Triveneto, in un saggio apparso nel 2010 sulla "Rivista di Politica", l'Islam ha ripreso a manifestarsi e a diffondersi dai Balcani alla Turchia, dal Caucaso all'Asia centrale, fino alla comunità uigura nello Xinjang cinese, grazie all'opera di confraternite sufi come la Naqshbandiyya. Molto attiva in Turchia dai tempi di Ataturk, questa confraternita, praticando l'arte della dissimulazione, in arabo taqîya, ovvero tenere nascosta la propria identità islamica, ha giocato un ruolo centrale nella sopravvivenza dell'islam turco, ponendo le basi per la sua rinascita anche politica quando le circostanze lo hanno permesso. Attraverso movimenti culturali e fondazioni caritatevoli, la Naqshbandiyya ha coltivato la futura base elettorale di quelle che saranno, di lì a qualche decennio, le prime formazioni politiche dichiaratamente islamiche, nonché la classe dirigente, riuscendo persino a infiltrare, grazie alla perfetta applicazione dell'arte della dissimulazione, alcuni dei propri affiliati ai vertici dello Stato (come il due volte primo ministro ed ex presidente Turgut Özal).

Nel 1995, Necmettin Erbakan, conduce per la prima volta alla vittoria, in regolari elezioni, un partito dichiaratamente islamico, il "Partito del Benessere". Ma dimenticando le regole della taqîya Erbakan manifesta fin da subito le sue intenzioni di liquidare il kemalismo, spingendo le forze armate al golpe "morbido" del 1997. Ma ormai il processo si era messo in moto. Nel novembre del 2002, complici le cattive condizioni di salute dell'anziano primo ministro Ecevit e la grave crisi politica e sociale del Paese, i militari non possono impedire al partito di Erdogan, l'Akp, solo apparentemente più moderato del precedente di Erbakan, di partecipare alle elezioni. Le vittorie del 2002 e del 2007 sono tali da rendere impraticabile un golpe "morbido".

E qui veniamo al rapporto strumentale di Erdogan con l'Unione europea (e con la democrazia) e al secondo, drammatico sbaglio delle élite europee. Erdogan (e prima di lui Turgut Özal, che nel 1987 inoltrò la domanda formale di adesione alla Ue) ha capito che il processo di integrazione nell'Ue poteva rappresentare un mezzo per scardinare il sistema kemalista e favorire la rinascita dell'islam turco, sia sul piano religioso che su quello politico. Proprio le riforme fortemente richieste dall'Ue quale condizione preliminare per avviare il processo di adesione - libertà d'espressione, apertura democratica, fine dell'ingerenza delle forze armate nella politica - erano la migliore garanzia per i partiti e i movimenti culturali islamici contro la spada di Damocle che le forze armate e la magistratura avrebbero potuto ancora calare sulle loro teste per salvare il sistema kemalista. Sempre in un'ottica eurocentrica, agli occhi degli europei era il ruolo dei militari, non l'islam politico, ad essere incompatibile con una Turchia democratica. Che svista!

Diversa la sorte del governo islamista di Morsi in Egitto, anch'esso democraticamente eletto ma fatto fuori dal golpe del generale Al-Sisi. L'errore di Morsi è stato quello di gettare subito la maschera, procedere a un'islamizzazione a tappe forzate, tra l'altro dimostrando una totale imperizia economica. Erdogan è stato molto più abile: si è presentato come moderato (salutavamo il suo Akp come il corrispettivo islamico della democrazia cristiana, ricordate?), ha dissimulato, ha garantito anni di crescita economica sostenuta e senza precedenti. E quando il golpe è arrivato, era ormai troppo tardi perché potesse riuscire. Ci ha messo un decennio, ma ora può permettersi di abbandonare almeno in parte la pratica della dissimulazione e raccoglierne i frutti.

Erdogan si è servito della democrazia (e dell'Europa) come un tram: "Quando arrivi alla tua fermata, scendi", ebbe a dire lui stesso durante il suo mandato da sindaco di Istanbul dal 1994 al 1997. Una volta sdoganato l'islam politico, rafforzato il suo potere, liquidato il kemalismo, ora che il processo di islamizzazione delle istituzioni è compiuto non ne ha più bisogno. E anche dall'Ue ha ottenuto tutto ciò che gli serviva. Non c'è motivo per cui ora debba temere la minaccia di un "no" a un'adesione che non ha mai voluto e che rischierebbe anzi di inquinare l'identità islamica della nuova Turchia e di legargli le mani rispetto alle nuove ambizioni geopolitiche.

Sciagurato anche il recente accordo sui migranti che l'Ue, Berlino in testa, ha negoziato con Ankara, di fatto appaltando a Erdogan la sicurezza dei confini dell'Europa. Nelle sue mani il rubinetto del flusso di profughi che dalla Siria tentano di raggiungere l'Europa attraverso l'Egeo e la rotta balcanica può trasformarsi in una potente arma di ricatto.

Ma dove vuole arrivare Erdogan? All'interno, dunque, la rinascita islamica. Sul piano internazionale, un radicale riposizionamento geopolitico. Grazie all'indulgenza americana ed europea, finora l'appartenenza alla Nato e il negoziato per l'ingresso nell'Ue non hanno impedito a Erdogan di proiettare sempre più l'influenza della Turchia in tutt'altre direzioni, ma è chiaro che il nuovo ruolo di Ankara nel mondo passa per la progressiva emancipazione dall'Occidente. Il primo segnale già nel 2003, quando Erdogan rifiutò il passaggio attraverso il territorio turco della Quarta divisione di fanteria americana verso il fronte settentrionale iracheno.

L'importanza strategica della Turchia deriva dalla sua particolare collocazione geografica, crocevia tra Europa e Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale, ma anche dalle sue identità culturali (quella islamica e quella turcofona) e dall'eredità ottomana. Tutti elementi che fino ad ora Erdogan è riuscito a combinare con un equilibrismo quasi perfetto.

Innanzitutto, l'appartenenza islamica, quindi i vicini Paesi arabi, in particolare Siria, Iraq e palestinesi, ma anche i lontani Qatar e Arabia Saudita, e persino l'Iran sciita. Il punto è che tutte le sue abili e spesso contraddittorie manovre si spiegano con l'intenzione di sfruttare qualsiasi opportunità - e la cosiddetta "primavera araba" ne ha offerte molte - per far emergere la Turchia come Paese guida e modello per il mondo sunnita al posto dei declinanti Egitto e Arabia Saudita.

La gestione della crisi siriana è emblematica delle sue doti di equilibrismo, del saper tirare al massimo la corda senza spezzarla. Fin tanto che la priorità dell'Occidente sembrava essere quella di sbarazzarsi del regime di Assad, ha permesso agli aerei russi di raggiungere la base siriana di Tartous, senza che la Nato potesse far nulla. Fino all'estate scorsa ha negato l'utilizzo della base Nato di Incirlik per bombardare l'Isis. Poi l'abbattimento del jet russo e le accuse di Mosca sul suo flirt con l'Isis in funzione anti-Assad e anti-curda. Ha ostacolato il processo politico di Ginevra, cercando di escludere i curdi e di includere gruppi islamisti. Infine, proprio nei mesi precedenti il tentato golpe, e quando Usa e Russia hanno finalmente iniziato a collaborare in funzione anti-Isis, rischiando di finire isolato si è riallineato. Un prezzo l'ha pagato: l'Isis ha punito la sua ambiguità con l'attentato all'aeroporto Ataturk di Istanbul.

Il protagonismo turco nella crisi siriana ha l'obiettivo di mostrarsi al mondo sunnita come potenza regionale in grado di contenere, e se possibile respingere l'influenza iraniana, in ascesa in tutta l'area dall'Iraq alla Siria e al Libano, e di giocare alla pari con Usa e Russia (nonché ovviamente di debellare la minaccia curda). Né va dimenticato il tentativo di giocare un ruolo sul futuro della martoriata Libia. E già da anni, l'appoggio senza precedenti di Ankara alla causa palestinese, e soprattutto a quella di Gaza (e, quindi, di Hamas), con le conseguenti tensioni con Israele, aveva garantito di per sé una forte legittimazione da parte di tutte le masse arabe.

Ma Erdogan ha saputo allo stesso tempo instaurare rapporti di buon vicinato, e di relativa collaborazione, anche con Teheran. Il presidente iraniano Rouhani ha salutato la sconfitta del golpe molto più calorosamente di Obama e dei leader europei. E oltre ai rapporti economici, nonostante si trovino su fronti contrapposti nella crisi siriana, i due Paesi collaborano su singole questioni come quella curda e sul nucleare. Ricordiamo le operazioni militari congiunte turco-iraniane contro la guerriglia curda lungo il confine tra i due Paesi. E il sostegno di Ankara a una soluzione diplomatica sul nucleare iraniano, riconoscendo a Teheran il diritto a dotarsi del nucleare civile. Chissà, un giorno potrebbe servire che Teheran ricambi il favore...

Ora Stati Uniti ed Europa non devono commettere l'ennesimo errore, non devono farsi prendere dall'ansia di corteggiare Erdogan, rafforzandolo, per paura di spingerlo nelle braccia russe o iraniane. Erdogan non vuole affatto finirci. Gioca alternativamente la carta Nato e la prospettiva europea nei confronti della Russia, e la carta Putin per dimostrare a Stati Uniti e Ue che ha un'alternativa rispetto all'alleanza occidentale. L'importante è mettersi in mezzo, sempre, giocando da imprevedibile guastatore o indispensabile alleato. Ma in realtà non vuole legarsi a nessuno. Prende ciò che può da entrambi i forni per rafforzarsi internamente e per scalare posizioni sul piano internazionale. Non vede la sua Turchia come membro dell'Ue, ma neppure dell'Unione eurasiatica (l'unione economica tra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia). Entrambe le membership sarebbero incompatibili con il ruolo di potenza egemone che intende esercitare in Medio Oriente e nel nuovo spazio eurasiatico, perché dovrebbe rispondere delle sue azioni in un caso a Bruxelles, nell'altro a Mosca.

Il riavvicinamento alla Russia non significa quindi che Erdogan voglia sposarsi a Putin, né d'altra parte Putin intende accoglierlo a braccia aperte. Primo, perché il livello di fiducia è ancora troppo basso: Putin non si fida. Non scordiamoci che Mosca ha accusato esplicitamente Ankara di fornire appoggio all'Isis, ha denunciato l'estrema permeabilità del confine turco per i terroristi, nonché gli strani commerci di petrolio che dalla Siria attraversavano tutta la Turchia fino al Mediterraneo. Per la Russia sarebbe già positivo e utile se la Turchia si emancipasse dall'Occidente, restando un elemento separato. Ma questo non significa che il Cremlino si fiderà di Ankara. Anche perché sulla questione siriana nel frattempo si è ammorbidita la posizione americana ed è partito un vero dialogo tra Washington e Mosca. Inoltre, le ambizioni di Erdogan vanno oltre il Medio Oriente, si estendono a tutta la vasta area turcofona dell'Asia centrale. Il che confligge con la sfera di influenza russa. Proprio nell'area eurasiatica i due sono destinati a confliggere molto più che incontrarsi (il che non esclude progetti comuni se e quando convengano a entrambi).

Insomma, dal mondo sunnita del Medio Oriente (dalla Libia al Golfo persico) a quello turcofono fino al Mar Caspio e al rapporto dialogico con l'Europa (non da Paese candidato all'adesione ma da pari a pari), l'area verso la quale la Turchia di Erdogan sta tentando di proiettare la sua influenza ricorda sempre più quella compresa e integrata nel Califfato ottomano.

Già nell'estate del 2011, su Newsweek lo storico Niall Ferguson segnalava tra le ambizioni di Erdogan quella di far "rivivere l'Impero ottomano", intravedendo "buone ragioni" per sospettare che sognasse di "trasformare la Turchia in modi che Solimano il Magnifico avrebbe apprezzato", cioè in un "nuovo impero musulmano in Medio Oriente". E ricordava come nel 1998 Erdogan fu imprigionato per aver recitato i versi di un poeta panturco di inizio secolo: "Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati". Emblematiche anche le sue parole dopo la vittoria alle elezioni del 2011: "Sarajevo ha vinto oggi quanto Istanbul; Beirut quanto Izmir; Damasco quanto Ankara; Ramallah, Nablus, Jenin, la Cisgiordania, Gerusalemme hanno vinto quanto Diyarbakir". "La sua ambizione, sembra chiaro - scriveva Ferguson - è tornare all'era pre-Ataturk, quando la Turchia era non solo musulmana militante, ma anche una superpotenza regionale".

Dunque, si pone eccome il tema dell'espulsione, o quanto meno della sospensione della Turchia dalla Nato e degli accordi con l'Unione europea: è in gioco la condivisione dei sistemi di difesa della Nato con un governo islamista il cui sistema di alleanze è quanto meno troppo variabile e spregiudicato. E l'Europa? Si può permettere una potenza islamista alle proprie porte? La Turchia di Erdogan, e in generale l'islam politico, è incompatibile con i valori e gli interessi occidentali? Urgono risposte coraggiose.

Tuesday, March 22, 2016

Tre scomode verità che ci ostiniamo a non riconoscere

Prima o poi doveva accadere. Come nessuno dei precedenti attacchi, quelli di oggi all'aeroporto e alle stazioni centrali della metropolitana di Bruxelles (video subito dopo l'esplosione), cuore delle istituzioni europee, sono emblematici del fallimento e della totale inadeguatezza, sproporzione per difetto, delle nostre politiche di sicurezza, di intelligence, e di contrasto anche culturale del terrorismo islamico.

Tre sono le scomode verità che ci ostiniamo a non voler riconoscere ma che attacco dopo attacco appaiono sempre più evidenti.

La prima ha a che fare con quella che semplificando possiamo chiamare la "questione Guantanamo", ovvero la questione dello status giuridico dei terroristi islamici. Si tratta senz'altro di combattenti che compiono atti di guerra e crimini contro l'umanità, all'estero come nel cuore delle nostre città. Ma non appartengono all'esercito regolare di uno Stato che ci ha dichiarato guerra. Quindi non abbiamo una controparte con la quale organizzare uno scambio di prigionieri, né avremo mai una data ufficiale di fine del conflitto dopo la quale poterli liberare senza pericolo. I nostri nemici rapiscono e tagliano gole. Noi europei quando ne arrestiamo uno non siamo nemmeno in grado di farci dare informazioni sufficienti a sventare un attentato imminente. Se c'è una peculiarità degli attacchi di Bruxelles rispetto ai precedenti, infatti, è che sono avvenuti nonostante uno dei terroristi del gruppo, Salah Abdeslam, già organizzatore ed esecutore degli attacchi di Parigi solo quattro mesi prima, fosse già agli arresti, da venerdì scorso. Molto difficile credere che Salah non fosse a conoscenza dei piani di questa mattina. E infatti ci è stato detto che stava "collaborando" e che lunedì l'intelligence belga aveva allertato le autorità di Bruxelles su un attacco terroristico imminente, senza però saperne indicare con precisione il luogo, la data e le modalità (fonte: BFM TV). Quindi, c'è la possibilità più che concreta che le autorità belghe non siano riuscite a farsi dire da Salah tutto quello che avrebbero dovuto farsi dire... E può succedere, quando si pretende di combattere il terrorismo islamico come criminalità comune.

La sensazione, il sospetto più che fondato, è che possiamo trovarci di fronte ad un caso di scuola paventato da molti in questi anni: al terrorista non viene torto un capello, per carità, ma quello si prende gioco di tutti e non si riesce a impedire l'attentato. E magari ora si starà facendo grasse risate... Mi sembra di vederle le scene degli interrogatori di garanzia con il magistrato di turno e dei colloqui con l'avvocato d'ufficio, magari anche l'interrogatorio con l'intelligence in cui finge di collaborare omettendo l'essenziale. Ore e giorni preziosi persi... Possibile, accettabile, avere tra le mani per 72 ore uno dei terroristi, sapere con certezza che è uno di loro, e non riuscire a sventare l'attacco imminente?

Siamo, insomma, in un territorio completamente sconosciuto, per cui è necessario elaborare ex novo, dal nulla, uno status giuridico e degli standard di trattamento. Ma una cosa è certa: il terrorismo non si può combattere con le armi della giustizia ordinaria, con i tempi sia pure accelerati di tribunali, interrogatori di garanzia, colloqui con avvocati, richieste di estradizione. Gli Stati Uniti hanno faticosamente trovato un punto d'equilibrio, un compromesso, per quanto precario e coperto da un velo di ipocrisia. Noi europei non ci siamo ancora nemmeno posti il problema, lo scansiamo sdegnosamente.

La seconda verità scomoda è che i terroristi islamici godono di un ampio supporto da parte delle comunità musulmane europee. Supporto che va dall'omertà e dalla copertura alla vera e propria complicità attiva. Nonostante dopo gli attacchi di Parigi fossero braccati dai servizi di sicurezza di mezza Europa, non solo Salah Abdeslam e Najim Laachraoui sono riusciti a fuggire, a nascondersi per quattro mesi a Molenbeek, in un quartiere islamico alle porte di Bruxelles. Sono riusciti persino a pianificare altri attacchi e non possiamo escludere che persino l'arresto di Salah fosse parte del piano... Tutto questo è impossibile, inimmaginabile, senza la complicità sia passiva che attiva di centinaia, forse migliaia di appartenenti alle comunità musulmane francesi e belghe. Bisogna fare i conti con vere e proprie roccaforti di jihadismo all'interno delle nostre capitali, enclave rispetto alle quali parlare di islamizzazione dell'Europa non può essere liquidato come esagerazione populistica. Non ho la soluzione in tasca, ma è certo che aprire gli occhi, esserne consapevoli, smetterla di farsi intimidire dal politicamente corretto e dal timore di passare per razzisti, è solo il primo passo.

Terza scomoda verità: l'immigrazione c'entra eccome, anche se non nel senso banale che i terroristi si infiltrano tra gli immigrati e i rifugiati. Non si può escludere che avvenga, ma non è questo il punto. Nei confronti del fenomeno degli "homegrown terrorists", che si muovono con passaporti europei, parlano perfettamente francese o inglese, spesso sembrano "integrati" da generazioni, sono protetti dalle loro famiglie e nei loro quartieri, noi siamo più disarmati e loro logisticamente avvantaggiati. Paesi europei dove vivono milioni di musulmani naturalizzati in forza di una consolidata storia coloniale non possono farci niente, devono combattere il fenomeno per quello che già è. Ma in altri Paesi il fenomeno si può ancora arginare e temi quali l'immigrazione e la cittadinanza diventano il fronte, la prima linea. Bisogna affrontare questi temi con la consapevolezza che ad oggi l'islam, essendo non solo religione ma soprattutto politica, e ideologia totalitaria, è incompatibile con i valori fondamentali alla base della convivenza nei nostri Paesi. Ne deriva che milioni di immigrati sono culturalmente inintegrabili, ammesso che lo siano economicamente e socialmente... Più immigrati di cultura islamica entrano oggi nei nostri Paesi e vengono magari anche naturalizzati, più jihadisti ci saranno domani, forse non tra di loro ma di sicuro tra i loro figli: e saranno centinaia, forse migliaia. E' un fatto demografico e statistico ed è solo una questione di tempo, così come un fatto sarebbe l'arretramento del livello medio di cultura civile nella popolazione, passi indietro di decenni, per esempio, sulla libertà d'espressione e sul ruolo della donna.

Purtroppo temo che anche questa volta tutto finirà in nastrini di commemorazione, avatar di solidarietà su Facebook e retorica a buon mercato... e in più stringenti misure di sicurezza... Certo, possiamo schierare l'esercito nelle strade, spostare i metal detector all'entrata di aeroporti e stazioni, ma ci sarà sempre da qualche parte una fila in mezzo alla quale i terroristi potranno farsi esplodere. Di fronte a noi abbiamo un bivio: o accettare di assistere periodicamente, e con sempre maggiore frequenza, a giornate come questa, consolandoci di contare decine e non centinaia di morti; oppure riconoscere queste tre verità e agire di conseguenza, invece di scappare via in lacrime come la Mogherini.

Friday, December 14, 2007

I radicali, la provvidenza europea e il messianismo kantiano

Al Partito Radicale va il merito di dare voce ai dissidenti e ai democratici di tutto il mondo in quel convegno, che si svolge annualmente a Bruxelles, ormai diventato una sorta di congresso mondiale dei popoli oppressi. Quest'anno l'obiettivo era il rilancio nel 2008 del "Primo Satyagraha Mondiale per la Pace". Tuttavia, perché questo appuntamento non si riduca a mera passerella – comunque importante – di dissidenti, i radicali dovrebbero sforzarsi di approfondire le loro analisi e le loro proposte per le aree di crisi del pianeta, laddove manca la democrazia e i diritti umani vengono calpestati. La mozione generale approvata non aiuta. L'approccio è suggestivo, ma generico, non calato nelle diverse realtà. Il direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, è stato forse l'unico a prendere di petto le ambiguità.

Innanzitutto, la mozione definisce la nonviolenza «come l'unico strumento politico» di affermazione dei diritti umani e di alternativa alla guerra. La si presenta come "terza via" tra il pacifismo (insufficiente, spesso nociva invocazione della pace) e l'uso dello strumento militare, che «congiuntamente» perpetuano oppressione e conflitti. Autorevoli studi dimostrano in effetti come la nonviolenza sia particolarmente efficace nel promuovere la democrazia in presenza di determinati contesti e condizioni. Tuttavia, mi sembra illusorio evocare "terze vie". Continuo a vedere la solita bipartizione: da una parte i nemici della democrazia (più o meno dichiarati, o inconsapevoli, come i genuini pacifisti); dall'altra chi si batte per la democrazia, cercando di volta in volta di calibrare il giusto mix di strumenti, violenti e nonviolenti (hard e soft power). Prima bisogna scegliere chiaramente il campo in cui si gioca, poi discutere la strategia.

Il riferimento a Kant rende i radicali più figli di "questa" Europa. Gli europei, condizionati dal lungo periodo di pace e benessere coinciso con il processo di integrazione, si sentono in "un paradiso post-storico", sembrano proiettare sul mondo l'immagine della "pace perpetua" kantiana, credono, confondendo desideri e realtà, che la storia porti inevitabilmente non solo loro, ma tutto il mondo, in quella direzione. Una sorta di disegno della provvidenza europea, di messianismo kantiano. Gli Stati Uniti, invece, rimangono "impantanati nella storia", si muovono secondo una concezione hobbesiana delle relazioni internazionali, quella dell'"homo homini lupus", in cui la sicurezza, la difesa e la promozione dei valori liberali dipendono ancora in modo preponderante dal possesso e dall'uso della forza militare.

Ma quanto quella europea sia solo un'illusione ottica, lo dimostra il fatto, del tutto trascurato, che questo lungo periodo di pace e benessere è stato ed è ancora oggi possibile grazie all'"ombrello protettivo" della potenza economica, tecnologica, militare degli Stati Uniti. Se osserviamo i comportamenti degli stati, molti non rispettano le leggi internazionali, né la dichiarazione dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, di cui pure sono membri. Se la democrazia ha trionfato all'interno, dimostrando la possibilità di un'organizzazione statuale diversa dal modello autoritario del Leviatano hobbesiano, sulla scena internazionale ci troviamo ancora in uno stato di natura in cui vale l'"homo homini lupus". La legge della giungla non è certo la premessa inevitabile della convivenza umana, neanche tra gli stati. Lo è, però, ad oggi. Da questa diversa visione del mondo scaturiscono quelle differenze che Robert Kagan riassumeva definendo l'Europa simile a Venere e l'America a Marte. Su questo approccio di fondo non bisogna illudersi troppo sulle distinzioni tra le diverse amministrazioni Usa.

Un'altra impostazione di fondo dei radicali è la convinzione che il carattere nazionale e il principio della sovranità assoluta degli stati siano «cause strutturali» delle guerre e della violazione dei diritti umani. Come alternativa politica e istituzionale allo Stato-nazione propongono quindi «una strutturale Riforma democratica e federalista dei Territori, delle Regioni, degli Stati nazionali devastati da guerre, da fame, da dittature».

E' vero: spesso lo Stato nazionale realizza l'aberrazione di consolidare, anziché rimuovere, la negazione dei diritti individuali e della democrazia. Per molti versi la soluzione "due popoli, due Stati" al conflitto israelo-palestinese appare anti-storica. Anche se bisognerebbe riconoscere che con la presidenza Bush si è cominciata a specificare la condizione, cara ai radicali, "due democrazie".

Ma nella loro lettura di superamento dello Stato-nazione i radicali non sembrano fare differenza tra Europa, Medio Oriente e Asia, né sforzarsi di adattare il loro modello a realtà molto diverse tra loro. Sono convinto che l'ingresso della Turchia nell'Ue sia una necessità strategica, ma non altrettanto che gli europei che chiedono di affrontare il discorso dei confini geografici dell'Europa siano dei nazionalisti. Proprio perché l'Unione europea nasce per dare al continente non una patria, ma un futuro di pace, democrazia, godimento dei diritti individuali, prosperità, non avremo mai una «patria europea», ma qualcosa di diverso. Le identità nazionali continueranno ad essere avvertite, semmai l'urgenza federalista si avverte a livello istituzionale, per dotare l'Unione della necessaria legittimità democratica, oggi carente. Per questo i federalisti, di fronte al prevalere del modello inter-governativo anche tra gli esponenti politici più europeisti, dovrebbero piuttosto collocarsi nel campo degli euroscettici.

Non m'interessa qui tracciare confini, ma l'adesione all'Ue non può essere il naturale sbocco di qualsiasi popolo per il solo fatto di scegliere per sé un futuro democratico. A questo scopo servirebbe una "Lega delle democrazie". Dell'Europa fanno parte molte nazioni. Non è certo un "club cristiano", ma è un "club" di democrazie e un mercato libero. Condizioni necessarie ma non sufficienti per poter entrare in Europa. Esiste una storia comune, di cui fa parte anche la Turchia. Più discutibile che ne facciano parte il vicino Oriente e il Nord Africa.

Qualunque sia il confine geografico dove si ritenga di attestare l'Europa, la sua forza di attrazione democratica può essere esercitata non solo a colpi di allargamento. Non è detto che per continuare a incoraggiare processi democratici l'Ue debba estendere a dismisura i suoi confini e spalancare a chiunque le sue porte. Può anche rappresentare un modello per altri processi di integrazione: ad esempio, per l'Africa. Le proposte di Israele nell'Ue e di una confederazione tra Egitto, Giordania, Libano, Palestina e Israele, che i radicali presentano come un'unica soluzione, a me sembrano due soluzioni, entrambe fondate, ma che seguono logiche differenti, se non antitetiche.

Ai radicali sfugge che l'idea di nazione è da tempo in declino nel mondo arabo, dopo i fallimenti di Nasser, Mubarak, Saddam, Gheddafi e Assad. Il loro nazionalismo non ha prodotto i risultati sperati in termini di modernizzazione, tali da porre in essere una sfida all'Occidente, né ha risvegliato una nazione panaraba. Sottovalutano il fatto che il virus più aggressivo oggi circolante nella regione non è il nazionalismo, ma è quello dell'islamizzazione delle masse e del progetto "transnazionale" di umma musulmana. Il problema è che gli arabi e gli iraniani più che combattere per uno Stato nazionale palestinese combattono in nome di una ideologia politica fondata sulla loro identità religiosa.

La diffidenza "spinelliana" nei confronti dello Stato-nazione era giustificata dal fatto che proprio l'idea di nazione fosse alla base di quel fenomeno, che lo storico George L. Mosse chiamò nazionalizzazione delle masse, che offrì il contesto socio-culturale e ideologico ideale per l'ascesa dei movimenti nazisti e fascisti in Europa. La funzione che ebbe in Europa la nazionalizzazione delle masse negli anni '10, '20 e '30 del '900, rischia di averla nel mondo musulmano l'islamizzazione delle masse.

Si potrebbe anche discutere a lungo del legame positivo - purtroppo per lo più trascurato nell'elaborazione e nella realizzazione di molti esperimenti sovranazionali - che c'è tra democrazia rappresentativa e nazione. La democrazia è tanto più funzionante quanto più riconosciuta, praticata, "controllata" dal basso, scelta da individui che hanno consapevolezza del proprio essere comunità in un territorio geograficamente delimitato e in un dato momento storico, e che riconoscono se stessi nei propri rappresentanti. Maggiore la corrispondenza, l'identificazione con gli eletti come propri simili (al di là delle differenze politiche), più salda è la democrazia. Gli esempi storici ci dimostrano che spesso, rotto quel legame, ci si allontana dagli standard democratici.

Infine, promuovendo democrazia e diritti umani, i radicali non possono far finta di non essere al governo. Il ministro Bonino che accetta supinamente la posizione della Farnesina, volta a negare valore politico a qualsiasi incontro con il Dalai Lama, o il suo silenzio assordante, durante la visita in Cina, quando Prodi si disse a favore della revoca dell'embargo europeo sulle armi (al convegno di Bruxelles il cinese Wei Jingsheng e la uigura Rebiya Kadeer hanno scongiurato di non revocarlo), pongono un problema. Non è vero, come dice Pannella, che «nessuno può imputare alcunché ai radicali», perché hanno «tutte le credenziali». Quelle credenziali vanno rinnovate di giorno in giorno, mentre la loro presenza al governo, e il modo di interpretarla, hanno messo in crisi la loro credibilità. Nel '94 convinsero Berlusconi a incontrare il Dalai Lama. Il guaio, oggi, non è tanto non esserci riusciti con Prodi, quanto il non aver nemmeno tentato.

Wednesday, October 24, 2007

La settimana della consapevolezza islamo-fascista

E' la «battaglia culturale» in cui è impegnato David Horowitz, intellettuale della sinistra americana degli anni '60, «oggi il più grande accusatore delle malefatte ideologiche dei progressisti e in particolare della sinistra accademica», spiega Christian Rocca su Il Foglio.

In questi giorni ha promosso una campagna di mobilitazione, una serie di iniziative pubbliche nelle università, per far conoscere la natura della minaccia islamo-fascista e smascherare le «due grandi bugie» raccontate dalla sinistra in questi anni: che Bush si sia inventanto la «guerra al terrorismo»; e che il surriscaldamento terrestre sia un pericolo più grave del jihad globale e del razzismo islamista.

Christopher Hitchens, su Slate, ha difeso l'uso del termine "fascismo islamico", contestato dagli accademici politically correct. Ovviamente non c'è una congruenza perfetta tra i due fenomeni storici, i fascismi e il fondamentalismo islamico, ma le analogie - dal culto della morte al rapporto contraddittorio con la modernità e la tecnologia, dalla nostalgia per le glorie del passato al vittimismo e al revancismo, dall'antisemitismo all'ossessione per la decadenza morale e dei costumi - sono evidenti.

A mio avviso, la differenza più rilevante tra fascismo e jihadismo - che paradossalmente rende ancora più appropriato l'accostamento dei due termini - è riscontrabile nei fenomeni culturali di massa alla base dei contesti indispensabili alla loro gestazione e al loro sviluppo come ideologie politiche.

Diversa la categoria principale alla quale le masse si sono aggrappate per recuperare un senso di appartenza messo in discussione dalla modernizzazione: la nazione, nel caso dei fascismi; la religione, cioè l'islam, nel caso del jihadismo. Dunque, se in Europa abbiamo conosciuto il fenomeno della nazionalizzazione delle masse, in Medio Oriente, dove oggi l'idea di nazione è in declino, seppure negli scorsi decenni abbia giocato un suo ruolo, conosciamo l'islamizzazione delle masse. Diverse le categoria di riferimento, ma simile il meccanismo della ricerca di una purezza identitaria smarrita che può assumere forme estremamente violente.

Wednesday, September 12, 2007

Bruxelles troppo simile a Mosca

E' vero, eravamo distratti, ma qualche parola per Borghezio la vogliamo spendere. A volte Bruxelles ci sembra troppo simile a Mosca. Viene alla mente cosa accadde al radicale Marco Cappato mentre cercava con altri manifestanti di consegnare una lettera al sindaco di Mosca che aveva vietato il Gay Pride. Non è poi così diverso da quanto accaduto l'altro giorno all'eurodeputato leghista. Al di là del merito delle due proteste, le manifestazioni dovevano essere autorizzate e, comunque, i due eurodeputati non dovevano essere arrestati dalla polizia. Non sono certo condivisibili certi toni e derive xenofobe cui questo tipo di manifestazioni danno sfogo, ma è anche vero, come spiega bene oggi Giordano Bruno Guerri su il Giornale, che i pericoli dell'"islamizzazione" dell'Europa non sono del tutto privi di fondamento.

Sarà possibile esprimere pubblicamente queste preoccupazioni? In che tempi viviamo? Qual è la salute dell'Europa?