Anche su Notapolitica e L'Opinione
L'intervento di Giovanni Orsina su La Stampa del 3 novembre ha il merito in indicare con precisione i tre dilemmi su cui si giocano l'identità e il futuro del centrodestra in Italia: bipolarismo, rivoluzione liberale, rapporti con l'Europa. Purtroppo, nel principale partito di centrodestra, il Pdl, sembra essere in corso una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi e ad esibirla nella propria teca, così da poter rivendicare il titolo di successore e garantirsi un futuro politico. Ma la leadership di Berlusconi è qualcosa che si può ereditare, o piuttosto si conquista sul campo incarnando ciò che di buono il berlusconismo ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra? Di fronte a questo spettacolo tra "falchi" e "colombe", "lealisti" e "governativi", è comprensibile guardare al dito anziché alla luna, e porsi dunque domande che Orsina definisce «miopi e contingenti».
Ma per quanto lo scontro in atto possa essere dominato da ambizioni (o miserie) personali, da una certa dose di reducismo e dai più futili motivi, è pur vero che ai diversi fronti contrapposti corrispondono in realtà altrettante visioni politiche su come dovrebbe essere il centrodestra italiano. Possiamo dunque ironizzare e dirci disgustati quanto vogliamo, ma qualcosa per cui valga la pena discutere e dividersi c'è eccome. Siamo infatti ad un crocevia. Con la rara e brevissima parentesi della destra storica l'Italia non aveva mai conosciuto una destra di governo, nonostante gli italiani "non di sinistra" siano probabilmente da sempre un'ampia maggioranza nel paese. La stessa idea di destra, o di centrodestra, è stata messa immediatamente al bando dopo il fascismo. Durante la Prima Repubblica abbiamo avuto prima un centro, poi un centrosinistra.
Silvio Berlusconi ha sdoganato l'idea di una destra di governo non solo e non tanto perché ha sdoganato gli ex-Msi, ma perché per la prima volta nella storia della Repubblica è riuscito a vincere le elezioni e a governare per molti anni a capo di una coalizione di centrodestra, in grado di non lasciare rilevanti vuoti politici né alla sua destra né al centro. Ora questa eredità è a rischio a causa dell'inevitabile tramonto della sua leadership: sia per errori suoi, sia per un'incessante opera di criminalizzazione giudiziaria e demonizzazione politico-culturale nei suoi confronti, non solo in quanto leader vincente ma forse soprattutto in quanto incarnazione di un centrodestra di governo, idea di per sé scandalosa e insopportabile agli occhi di molta parte dell'establishment, sia pubblico che privato, e della sinistra reduce del comunismo, ancora prigioniera del mito della resistenza tradita.
Ecco, dunque, il bivio: ipotesi a) torniamo verso un sistema (più simile a quello della Prima Repubblica) con un partito di centro e di governo, com'era la Dc, cioè incline ad una gestione consociativa e concertativa dello status quo, e una destra anche rilevante elettoralmente ma politicamente marginale. Si tratterebbe di un sistema potenzialmente a misura di Pd: avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili"). Ipotesi b) andiamo verso un sistema più compiutamente bipolare (una sorta di evoluzione e maturazione della Seconda Repubblica), in cui al di fuori di una coalizione o di un partito unitario di centrodestra non resta pressoché alcuno spazio politico.
Entrambi i blocchi che si stanno confrontando in questo momento nel Pdl sembrano puntare dritti verso il primo scenario, anche se ciascuno, in cuor suo, forse s'illude di lavorare al secondo. Il Pdl nella versione degli "alfaniani", "defalchizzandosi" e inseguendo il mito della stabilità a scapito del merito delle politiche, aprirebbe un fossato alla sua destra rischiando di ritrovarsi elettoralmente rilevante ma subalterno alla sinistra, in sostanza un avversario da battere agilmente o, al massimo, da cooptare in un governo di "larghe intese" qualora il Pd non trovasse alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, europea e di governo, c'è tutto.
Ciò che gli uni e gli altri dovrebbero capire è che se l'obiettivo è davvero un centrodestra maggioritario in un sistema bipolare, il Pdl (o Forza Italia, o comunque si chiamerà) ha bisogno sia dei falchi che delle colombe, dei moderati come degli intransigenti. Come ogni altro grande partito in una democrazia bipolare. Certo, poi non si possono non segnalare le contraddizioni delle attuali categorie, per cui gli esponenti di spicco degli "alfaniani" sono tra i più estremisti (vedi Giovanardi, Sacconi, Quagliariello, Formigoni, Roccella) su temi rispetto ai quali ormai qualsiasi destra con vocazione maggioritaria nel mondo occidentale non può più permettersi di arroccarsi. Se con il termine "moderati" si intende moderazione nelle politiche e una tendenza al compromesso, e con il termine "radicali" una maggiore nettezza identitaria e intransigenza, un partito di centrodestra che abbia vocazione maggioritaria e di governo in un sistema bipolare non può fare a meno né degli uni né degli altri.
A patto però - e torniamo ai «dilemmi» di cui parlava Orsina - che ci sia chiarezza sulle condizioni, riguardanti sia l'assetto del sistema politico sia l'identità del partito, alle quali può esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Insomma, tutti gli ingredienti del miglior berlusconismo, quello del '94. Non è che non possa esistere un centrodestra senza Berlusconi in persona. Ma o fa rima con il berlusconismo, nel senso degli ingredienti appena citati, o semplicemente non è. Diversamente, avremmo solo un centro e una destra, l'uno subalterno l'altra marginale.
La scelta bipolarista e presidenzialista dev'essere quindi netta e perseguita con determinazione, e su questo purtroppo l'ala governativa del Pdl è spesso ambigua. Non si tratta solo di sistemi elettorali o istituzionali: ad un esito neocentrista si può arrivare anche se ci si proclama (come da sempre Casini) alternativi alla sinistra, qualora una linea troppo compromissoria e rinunciataria su questioni fortemente identitarie finisca con il provocare una scissione, o del partito o dell'elettorato di centrodestra. E' vero che Berlusconi non ha mantenuto la grande promessa della "rivoluzione liberale", ma nell'elettorato la richiesta di vera e propria liberazione dall'oppressione fiscale e burocratica si è semmai accresciuta, assumendo toni esasperati. Tasse e giustizia sono forse i volti più emblematici e intollerabili dell'insano rapporto fra Stato e cittadini, che in Italia somiglia più al rapporto tra Sovrano assoluto e sudditi. Di qui la centralità delle tasse (da tagliare, tagliando la spesa pubblica) e della giustizia (da riformare).
Il problema dei "governativi" del Pdl è che accettando che l'esperienza delle "larghe intese" prosegua nonostante la decadenza di Berlusconi (per mano del partito alleato, prim'ancora che per effetto della mera applicazione di una sentenza di condanna), e mostrandosi disponibili a sacrificare sull'altare della "stabilità" anche temi centrali come tasse e giustizia, fino alla rottura con il proprio partito, hanno ridotto il loro potere contrattuale al tavolo del governo e alimentato nel Pd la tentazione di giocare sugli "strappi" per provocare la spaccatura del Pdl.
Quasi tutti i provvedimenti del Governo Letta prevedono nuove tasse come coperture finanziarie, anche la cancellazione delle rate Imu per il 2013, e la legge di stabilità per il 2014 prevede il ritorno dell'Imu sulla prima casa e un aggravio generale della tassazione sugli immobili e sul risparmio (una patrimoniale ormai vicina a 40 miliardi), a fronte di sgravi più che altro redistributivi, che a giudizio della Banca d'Italia non compensano nemmeno l'effetto del fiscal drag. La legge di stabilità, così com'è, è davvero invotabile per chiunque abbia in mente un futuro di centrodestra. D'altronde, sulle tasse la disponibilità al compromesso richiesta da Letta e Saccomanni, e che Alfano sembra pronto ad accordare, appare davvero incompatibile con lo spirito "rivoluzionario" del '94 (e del 2001) a cui tutti a parole dichiarano di voler tornare. Ai livelli a cui siamo giunti, un approccio radicale al tema delle tasse in Italia è l'unico plausibile per mantenere un rapporto con l'elettorato di centrodestra, a costo di venire accusati di populismo e irresponsabilità dalla sinistra.
La sensazione è che l'ala governativa del Pdl abbia anteposto la "stabilità" non solo alla difesa del suo leader da una prematura decadenza, ma anche al merito delle politiche e, ciò che è peggio, agli assi fondanti del berlusconismo, per il semplice calcolo che sopravvenendo a breve l'incandidabilità di Berlusconi proprio la durata del governo avrebbe di per sé garantito un morbido passaggio della leadership del partito ad Alfano, ancora segretario.
Riguardo l'Europa il discorso è più complesso. Sia "lealisti" che "governativi" sono ambigui. Come ha osservato Panebianco sul Corriere, occorre «evitare di esorcizzare l'ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passepartout (che non spiegano nulla) come il termine populista». Ma un centrodestra con vocazione maggioritaria e di governo non può nemmeno "flirtare" con pulsioni "no euro" e anti-tedesche, né con irrealistici isolazionismi dal sapore autarchico. Dunque, contestare la retorica europeista "mainstream", rappresentare con forza il più che fondato malcontento verso l'Europa che stiamo costruendo, un moloch burocratico e iper-statalista, ma la critica all'austerità da parte del centrodestra non può tradursi in nostalgia per le politiche fiscali lassiste e inflazionistiche, dovrebbe puntare a smontare la cultura economica dominante sia a Bruxelles che a Roma, per la quale tassare è l'unico modo per rispettare i vincoli di bilancio e gli investimenti pubblici l'unico per crescere.
Concludendo, la questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra o un centrodestra vincente e di governo, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte non solo degli avversari politici ma anche di poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro neo-democristiano culturalmente subalterno.
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Friday, November 08, 2013
Friday, December 21, 2012
Con o senza Monti candidato, sarà centro-centrosinistra
Anche su Notapolitica
Si candida o non si candida? Ormai è diventato come sfogliare i petali di una margherita. Non è da escludere che la suspense che si è creata nell'ultima settimana sulle intenzioni di Monti non sia destinata a sciogliersi nemmeno nella conferenza stampa di domenica mattina. Il professore, infatti, potrebbe esporre in quella sede la sua agenda-appello con le riforme da fare nella prossima legislatura e solo in un secondo momento, sulla base delle reazioni dei partiti (soprattutto del Pd di Bersani), prendere la sua decisione definitiva sulle modalità del suo impegno in politica: se defilato, sfruttando l'altissima "notiziabilità" che gli deriva dalla centralità della sua figura, e dai suoi appuntamenti para-istituzionali, per parlare al paese e cercare di influenzare "dall'alto" la campagna elettorale; o se da candidato premier, alla guida di una coalizione centrista.
Un passaggio intermedio, quello dell'agenda-appello, da interpretare come ultima chiamata rivolta ai "montiani" del Pdl e del Pd, perché Monti ha bisogno che la sua eventuale candidatura sia sostenuta da un arco il più possibile ampio e trasversale di posizioni e "storie" politiche, affinché non venga percepita come un mero soccorso dei centristi - Casini, Fini e Montezemolo - che navigano in una pozza di voti. Quanto "aperto", dunque, dovrà essere il suo appello? Fino al punto da tentare Berlusconi di aderirvi, dal momento che l'intesa con la Lega appare ancora in alto mare?
Di sicuro, da una parte Monti è tentato dalla discesa in campo in prima persona, perché a questo punto restare nelle retrovie significherebbe delegare la rappresentanza della propria agenda a personaggi non proprio freschissimi politicamente ed essere oggetto passivo delle «mistificazioni» altrui sull'operato del governo e sulle sue intenzioni future. Ma dall'altra la teme, perché potrebbe arrivare terzo o addirittura quarto.
La candidatura diretta del quasi ex premier può cambiare considerevolmente il risultato elettorale del cartello di liste centriste in suo nome - che faticherebbero ad arrivare al 10% senza di lui, mentre il professore in campo potrebbe puntare al 15-20% - ma non cambierebbe poi di molto lo scenario politico post-voto. Che si candidi o meno, che l'allenza Pd-Sel riesca o meno a conquistare la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere, un'intesa tra Monti e i centristi da una parte e il Pd dall'altra è praticamente obbligata (Bersani si è già pronunciato per un'apertura ai moderati in ogni caso). Se il premier incaricato sarà Bersani o Monti dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne, ma un'apertura di Bersani ai centristi per puntellare la maggioranza e un coinvolgimento di Monti, magari per il Colle, come copertura internazionale, è un esito più che probabile. D'altra parte, tanti o pochi che siano, Monti o chiunque in suo nome dovrà decidere dove portare i suoi voti, a quali sommarli per dar vita ad una coalizione di governo, e visto che nei confronti di Berlusconi e dei frammenti dell'ex centrodestra vige una vera e propria "conventio ad excludendum", i giochi sembrano fatti.
Dunque, il dubbio di Monti oggi è sulla formula che gli offre più chance di tornare a Palazzo Chigi senza precludersi, eventualmente, la strada per il Colle: se conquistandosi sul campo il suo gruzzolo di voti (e quanti dovrebbe essere in grado di raccoglierne), o se defilandosi facendo affidamento sulla non autosufficienza numerica e sulla ragionevolezza del Pd. Ma a meno di colpi di scena, e a prescindere da chi occuperà quali "caselle", il nuovo scenario politico sembra abbastanza delineato: una maggioranza di centro-centrosinistra, quindi centrodestra frammentato, diviso tra un centro "montiano" che difficilmente darà buona prova di sé al governo con la sinistra, e una destra post-berlusconiana marginalizzata, non tanto dal punto di vista numerico ma per le derive demagogiche, complottiste e anticapitaliste, per la perdita della cultura di governo.
Insomma, come abbiamo osservato in altre occasioni e come sottolineano oggi Andrea Mancia e Simone Bressan, finisce qui una certa idea di centrodestra, "fusionista", che negli ultimi vent'anni aveva dato prova di esistere nel paese e non solo nella mente di qualche ingenuo idealista, ma che è stata soffocata sul nascere dai «contrapposti egoismi», da un berlusconismo culturalmente miope e politicamente suicida da una parte, e dalle varianti di centro e di destra dell'antiberlusconismo. A decidere se in Italia è il caso di accontentarsi di un centro neo-democristiano, culturalmente subalterno alla sinistra e moderato nel senso di moderatamente socialista (come nella Prima Repubblica), o invece occorre spingere per qualcosa di diverso, più ambizioso e radicalmente alternativo, saranno gli elettori, ma probabilmente non il 24 febbraio 2013.
Si candida o non si candida? Ormai è diventato come sfogliare i petali di una margherita. Non è da escludere che la suspense che si è creata nell'ultima settimana sulle intenzioni di Monti non sia destinata a sciogliersi nemmeno nella conferenza stampa di domenica mattina. Il professore, infatti, potrebbe esporre in quella sede la sua agenda-appello con le riforme da fare nella prossima legislatura e solo in un secondo momento, sulla base delle reazioni dei partiti (soprattutto del Pd di Bersani), prendere la sua decisione definitiva sulle modalità del suo impegno in politica: se defilato, sfruttando l'altissima "notiziabilità" che gli deriva dalla centralità della sua figura, e dai suoi appuntamenti para-istituzionali, per parlare al paese e cercare di influenzare "dall'alto" la campagna elettorale; o se da candidato premier, alla guida di una coalizione centrista.
Un passaggio intermedio, quello dell'agenda-appello, da interpretare come ultima chiamata rivolta ai "montiani" del Pdl e del Pd, perché Monti ha bisogno che la sua eventuale candidatura sia sostenuta da un arco il più possibile ampio e trasversale di posizioni e "storie" politiche, affinché non venga percepita come un mero soccorso dei centristi - Casini, Fini e Montezemolo - che navigano in una pozza di voti. Quanto "aperto", dunque, dovrà essere il suo appello? Fino al punto da tentare Berlusconi di aderirvi, dal momento che l'intesa con la Lega appare ancora in alto mare?
Di sicuro, da una parte Monti è tentato dalla discesa in campo in prima persona, perché a questo punto restare nelle retrovie significherebbe delegare la rappresentanza della propria agenda a personaggi non proprio freschissimi politicamente ed essere oggetto passivo delle «mistificazioni» altrui sull'operato del governo e sulle sue intenzioni future. Ma dall'altra la teme, perché potrebbe arrivare terzo o addirittura quarto.
La candidatura diretta del quasi ex premier può cambiare considerevolmente il risultato elettorale del cartello di liste centriste in suo nome - che faticherebbero ad arrivare al 10% senza di lui, mentre il professore in campo potrebbe puntare al 15-20% - ma non cambierebbe poi di molto lo scenario politico post-voto. Che si candidi o meno, che l'allenza Pd-Sel riesca o meno a conquistare la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere, un'intesa tra Monti e i centristi da una parte e il Pd dall'altra è praticamente obbligata (Bersani si è già pronunciato per un'apertura ai moderati in ogni caso). Se il premier incaricato sarà Bersani o Monti dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne, ma un'apertura di Bersani ai centristi per puntellare la maggioranza e un coinvolgimento di Monti, magari per il Colle, come copertura internazionale, è un esito più che probabile. D'altra parte, tanti o pochi che siano, Monti o chiunque in suo nome dovrà decidere dove portare i suoi voti, a quali sommarli per dar vita ad una coalizione di governo, e visto che nei confronti di Berlusconi e dei frammenti dell'ex centrodestra vige una vera e propria "conventio ad excludendum", i giochi sembrano fatti.
Dunque, il dubbio di Monti oggi è sulla formula che gli offre più chance di tornare a Palazzo Chigi senza precludersi, eventualmente, la strada per il Colle: se conquistandosi sul campo il suo gruzzolo di voti (e quanti dovrebbe essere in grado di raccoglierne), o se defilandosi facendo affidamento sulla non autosufficienza numerica e sulla ragionevolezza del Pd. Ma a meno di colpi di scena, e a prescindere da chi occuperà quali "caselle", il nuovo scenario politico sembra abbastanza delineato: una maggioranza di centro-centrosinistra, quindi centrodestra frammentato, diviso tra un centro "montiano" che difficilmente darà buona prova di sé al governo con la sinistra, e una destra post-berlusconiana marginalizzata, non tanto dal punto di vista numerico ma per le derive demagogiche, complottiste e anticapitaliste, per la perdita della cultura di governo.
Insomma, come abbiamo osservato in altre occasioni e come sottolineano oggi Andrea Mancia e Simone Bressan, finisce qui una certa idea di centrodestra, "fusionista", che negli ultimi vent'anni aveva dato prova di esistere nel paese e non solo nella mente di qualche ingenuo idealista, ma che è stata soffocata sul nascere dai «contrapposti egoismi», da un berlusconismo culturalmente miope e politicamente suicida da una parte, e dalle varianti di centro e di destra dell'antiberlusconismo. A decidere se in Italia è il caso di accontentarsi di un centro neo-democristiano, culturalmente subalterno alla sinistra e moderato nel senso di moderatamente socialista (come nella Prima Repubblica), o invece occorre spingere per qualcosa di diverso, più ambizioso e radicalmente alternativo, saranno gli elettori, ma probabilmente non il 24 febbraio 2013.
Wednesday, December 12, 2012
Monti al bivio: federatore di un nuovo centrodestra o "legittimatore" del centrosinistra?
Anche su Notapolitica
Se si conviene unanimemente tra gli osservatori che una vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe dissuaso Berlusconi dal ripresentarsi, come atto di mera resistenza personale e politica, non è meno fondato ritenere che anche altre circostanze avrebbero potuto (e forse ancora potrebbero) dissuaderlo. Per esempio, nonostante il recente strappo con Monti, se il professore si convincesse a scendere in campo, non per sostenere ambiguamente un'operazione centrista volta a isolare la destra (berlusconiana e non) e a collaborare con Bersani dopo il voto, ma come vero e proprio atto fondativo e federatore di un nuovo centrodestra alternativo al centrosinistra, probabilmente il Cav si farebbe davvero da parte.
Non c'è motivo di dubitare che Berlusconi in questi mesi abbia effettivamente cercato un "nuovo Berlusconi", cioè una personalità in grado di unire i cosiddetti "moderati" ma in alternativa alla sinistra, non come sua costola. Le cronache hanno riportato di contatti in questo senso sia con Montezemolo che con lo stesso Monti.
C'è chi è affezionato all'idea di un superamento traumatico del berlusconismo, una recisione netta, che però il Cav, dal suo punto di vista, comprensibilmente rifiuta di subire, come abbiamo provato a spiegare in questo post di qualche giorno fa. Non potrebbe essere più efficace un suo superamento progressivo, una sorta di diluizione in un nuovo centrodestra, di cui non sarebbe più il leader, ovviamente, ma del quale gli fosse consentito di essere uno dei soci?
E' vero che quella del Cav è un'eredità scomoda, e che in questo paese raccoglierla significa giocarsi la propria "rispettabilità" agli occhi dei poteri che contano, ma si tratterebbe qui di ereditare l'unico aspetto positivo del berlusconismo, cioè una leadership innestata in uno schema bipolare, e non anche le derive e gli aspetti più deleteri.
Nonostante il personaggio abbia una certa difficoltà a vedersi relegato in un ruolo di secondo piano, l'impressione è che nessuno ci abbia mai seriamente provato, fondamentalmente perché tutte le operazioni volte a superare Berlusconi, a imporgli un «passo indietro», sono "centriste", non alternative ma complementari al centrosinistra, e quindi non in grado di attrarre l'elettorato di centrodestra, nonostante non sia stato mai più di oggi deluso e lontano dal Cav.
Nel suo lucido editoriale di oggi, sul Corriere, Ernesto Galli Della Loggia coglie entrambi questi aspetti. Innanzitutto, l'aiuto che Berlusconi ogni volta riceve dal coro degli antiberlusconiani. Probabilmente questa volta al Cav non riuscirà la rimonta, ma quest'attenzione ossessiva, questa demonizzazione gli basta per galvanizzare attorno a sé una fetta consistente di elettorato: «un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo - scrive Della Loggia - la misura del fallimento di Berlusconi», ma che non è disposta a concedersi alla sinistra, né ad un centro che lungi dal presentarsi come alternativo alla sinistra, quindi come nuovo centrodestra, odora di alleanza post-elettorale con Bersani. Questa Italia, da dodici mesi in attesa di una nuova offerta politica, merita rispetto, va considerata. Eppure, in tv, sui giornali, nelle radio, in questi giorni è ripartita la strumentalizzazione dello spread, assistiamo ad un flusso di irritanti lezioncine e interferenze in casa nostra da parte delle cancellerie europee, di volgari euroburocrati e della stampa estera. A ragione o a torto (secondo me a torto, ma conta poco), la leadership tedesca non gode di grande popolarità in Italia in questo momento: le continue prese di posizione per Monti e contro Berlusconi (oggi il ministro delle finanze Schauble, ieri quello degli esteri e la cancelliera Merkel) danneggiano o favoriscono il Cav? Forse non lo faranno vincere, ma comunque lo aiutano più di quanto lo ostacolino.
Ma Galli Della Loggia parla di un altro regalo a Berlusconi: se il centro non è contro la sinistra oltre che contro la destra berlusconiana, infatti, non è un vero centro ma di fatto una costola della sinistra, e concede al Cav «l'esclusiva della contrapposizione alla sinistra», un ruolo politico che come osserva l'editorialista ha sia «buone ragioni» che una «grande storia alle spalle».
La funzione storica per cui varrebbe la pena che Monti scendesse in campo sarebbe quella di aggregare questo elettorato oggi ancora «politicamente orfano», presentandosi quindi come federatore di un nuovo centrodestra che superi sì Berlusconi, ma che sia anche alternativo alla sinistra.
Chi ci crede è Mario Sechi:
Di sicuro non è una mossa preparata in questi mesi di governo, durante i quali Monti si è inimicato proprio l'elettorato di centrodestra, basando la sua politica di risanamento su aumenti di tasse e subendo tutti i veti della sinistra sulle riforme e i tagli alla spesa. Il problema, quindi, è che il Monti aggregatore di un nuovo centrodestra dovrebbe anche mettere da parte la sua smisurata autostima per marcare una certa discontinuità nella politica fiscale rispetto alla sua prima esperienza di governo. Come suggerito da Panebianco, cioè indicando l'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese e attraverso quali tagli di spesa.
Temo però che Monti non farà questo passo, anche perché il personaggio crede di avere meriti extra-politici tali che non possono essere "sviliti" accettando il giudizio e/o mendicando il consenso degli elettori, e che il suo curriculum possa bastare per aprirgli le porte di qualsiasi incarico. Che decida di sponsorizzare un'operazione centrista in suo nome, o di condurre in queste settimane una campagna ambiguamente "parallela", preservandosi come "riserva della Repubblica", si prepara ad un ruolo di argine e allo stesso tempo di "legittimatore" post-voto - dalla sede istituzionale che si troverà ad occupare (Quirinale o Palazzo Chigi) - di una coalizione di centro-sinistra in cui l'azionista di maggioranza sarà il Pd di Bersani sostenuto da una stampella di centristi "montiani".
Se si conviene unanimemente tra gli osservatori che una vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe dissuaso Berlusconi dal ripresentarsi, come atto di mera resistenza personale e politica, non è meno fondato ritenere che anche altre circostanze avrebbero potuto (e forse ancora potrebbero) dissuaderlo. Per esempio, nonostante il recente strappo con Monti, se il professore si convincesse a scendere in campo, non per sostenere ambiguamente un'operazione centrista volta a isolare la destra (berlusconiana e non) e a collaborare con Bersani dopo il voto, ma come vero e proprio atto fondativo e federatore di un nuovo centrodestra alternativo al centrosinistra, probabilmente il Cav si farebbe davvero da parte.
Non c'è motivo di dubitare che Berlusconi in questi mesi abbia effettivamente cercato un "nuovo Berlusconi", cioè una personalità in grado di unire i cosiddetti "moderati" ma in alternativa alla sinistra, non come sua costola. Le cronache hanno riportato di contatti in questo senso sia con Montezemolo che con lo stesso Monti.
C'è chi è affezionato all'idea di un superamento traumatico del berlusconismo, una recisione netta, che però il Cav, dal suo punto di vista, comprensibilmente rifiuta di subire, come abbiamo provato a spiegare in questo post di qualche giorno fa. Non potrebbe essere più efficace un suo superamento progressivo, una sorta di diluizione in un nuovo centrodestra, di cui non sarebbe più il leader, ovviamente, ma del quale gli fosse consentito di essere uno dei soci?
E' vero che quella del Cav è un'eredità scomoda, e che in questo paese raccoglierla significa giocarsi la propria "rispettabilità" agli occhi dei poteri che contano, ma si tratterebbe qui di ereditare l'unico aspetto positivo del berlusconismo, cioè una leadership innestata in uno schema bipolare, e non anche le derive e gli aspetti più deleteri.
Nonostante il personaggio abbia una certa difficoltà a vedersi relegato in un ruolo di secondo piano, l'impressione è che nessuno ci abbia mai seriamente provato, fondamentalmente perché tutte le operazioni volte a superare Berlusconi, a imporgli un «passo indietro», sono "centriste", non alternative ma complementari al centrosinistra, e quindi non in grado di attrarre l'elettorato di centrodestra, nonostante non sia stato mai più di oggi deluso e lontano dal Cav.
Nel suo lucido editoriale di oggi, sul Corriere, Ernesto Galli Della Loggia coglie entrambi questi aspetti. Innanzitutto, l'aiuto che Berlusconi ogni volta riceve dal coro degli antiberlusconiani. Probabilmente questa volta al Cav non riuscirà la rimonta, ma quest'attenzione ossessiva, questa demonizzazione gli basta per galvanizzare attorno a sé una fetta consistente di elettorato: «un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo - scrive Della Loggia - la misura del fallimento di Berlusconi», ma che non è disposta a concedersi alla sinistra, né ad un centro che lungi dal presentarsi come alternativo alla sinistra, quindi come nuovo centrodestra, odora di alleanza post-elettorale con Bersani. Questa Italia, da dodici mesi in attesa di una nuova offerta politica, merita rispetto, va considerata. Eppure, in tv, sui giornali, nelle radio, in questi giorni è ripartita la strumentalizzazione dello spread, assistiamo ad un flusso di irritanti lezioncine e interferenze in casa nostra da parte delle cancellerie europee, di volgari euroburocrati e della stampa estera. A ragione o a torto (secondo me a torto, ma conta poco), la leadership tedesca non gode di grande popolarità in Italia in questo momento: le continue prese di posizione per Monti e contro Berlusconi (oggi il ministro delle finanze Schauble, ieri quello degli esteri e la cancelliera Merkel) danneggiano o favoriscono il Cav? Forse non lo faranno vincere, ma comunque lo aiutano più di quanto lo ostacolino.
Ma Galli Della Loggia parla di un altro regalo a Berlusconi: se il centro non è contro la sinistra oltre che contro la destra berlusconiana, infatti, non è un vero centro ma di fatto una costola della sinistra, e concede al Cav «l'esclusiva della contrapposizione alla sinistra», un ruolo politico che come osserva l'editorialista ha sia «buone ragioni» che una «grande storia alle spalle».
La funzione storica per cui varrebbe la pena che Monti scendesse in campo sarebbe quella di aggregare questo elettorato oggi ancora «politicamente orfano», presentandosi quindi come federatore di un nuovo centrodestra che superi sì Berlusconi, ma che sia anche alternativo alla sinistra.
Chi ci crede è Mario Sechi:
«Chi non si riconosce nel patto Bersani-Vendola oggi è di fronte o a un'offerta politica polverizzata o a un berlusconismo declinante. Il più che mai necessario ruolo di aggregatore oggi potrebbe averlo Mario Monti... Rispetto alla vicenda del Cavaliere, quello di Monti potrebbe essere un progetto politico "fusionista" più vasto e armonioso, basato su un programma da condividere».In caso contrario, osserva Sechi, «il sistema politico italiano rimarrebbe ancora una volta ancorato alla figura di Berlusconi che – per assenza di competizione nel centrodestra – continuerebbe a influenzare lo scenario».
Di sicuro non è una mossa preparata in questi mesi di governo, durante i quali Monti si è inimicato proprio l'elettorato di centrodestra, basando la sua politica di risanamento su aumenti di tasse e subendo tutti i veti della sinistra sulle riforme e i tagli alla spesa. Il problema, quindi, è che il Monti aggregatore di un nuovo centrodestra dovrebbe anche mettere da parte la sua smisurata autostima per marcare una certa discontinuità nella politica fiscale rispetto alla sua prima esperienza di governo. Come suggerito da Panebianco, cioè indicando l'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese e attraverso quali tagli di spesa.
Temo però che Monti non farà questo passo, anche perché il personaggio crede di avere meriti extra-politici tali che non possono essere "sviliti" accettando il giudizio e/o mendicando il consenso degli elettori, e che il suo curriculum possa bastare per aprirgli le porte di qualsiasi incarico. Che decida di sponsorizzare un'operazione centrista in suo nome, o di condurre in queste settimane una campagna ambiguamente "parallela", preservandosi come "riserva della Repubblica", si prepara ad un ruolo di argine e allo stesso tempo di "legittimatore" post-voto - dalla sede istituzionale che si troverà ad occupare (Quirinale o Palazzo Chigi) - di una coalizione di centro-sinistra in cui l'azionista di maggioranza sarà il Pd di Bersani sostenuto da una stampella di centristi "montiani".
Tuesday, December 11, 2012
Per le riforme serve un mandato politico
«Ci dice qualcosa sulla situazione della politica italiana che ciò che i mercati sembrano temere di più è una fiammata di democrazia. Ma forse la vera lezione qui è che l'Italia - e il resto d'Europa - ha bisogno di una classe politica capace di generare consenso popolare per le riforme, piuttosto che cercare costantemente di imporle dall'alto».Saggia riflessione quella del Wall Street Journal nell'edizione odierna. Lo slancio riformatore di un governo tecnico, anche il più autorevole, non è durevole, le sue riforme non irreversibili e comunque parziali e insufficienti. Il quotidiano però boccia l'attuale offerta politica: Bersani resta inaffidabile, nonostante la rassicurante intervista proprio al WSJ, perché troppo «dipendente» dall'estrema sinistra, e di Berlusconi si ricorda «il fallimento nel mantenere le promesse», nonostante il «chiaro mandato» per le riforme liberali, e che oggi, elettoralmente, secondo i sondaggi, il suo partito vale la metà di quello di Bersani.
«Qualcuno - conclude il WSJ - ha visto in Monti un'occasione per realizzare con mezzi tecnocratici ciò che il corso ordinario della politica italiana aveva mancato di realizzare». Ma una vasta riforma dell'economia, perché sia accettata in democrazia, deve avere un «mandato». «Monti non ne ha mai avuto uno e quindi è stato limitato in ciò che ha potuto fare. Adesso, grazie alla credibilità a pezzi di Berlusconi, la destra riformista è priva di un serio leader proprio nel momento in cui l'Italia ne ha più bisogno».
Anche l'altro autorevole quotidiano finanziario, il Financial Times, non mostra il minimo rimpianto per la stagione dei tecnici, anzi «il ritorno della politica a Roma è benvenuto». «La parentesi tecnocratica era necessaria per aiutare l'Italia a restaurare la sua credibilità, ma solo un governo eletto avrà la legittimazione per completare le riforme di cui l'Italia ha bisogno». Certo, «sfortunatamente» l'offerta politica sembra «inadeguata allo scopo». Per diversi motivi, che possiamo facilmente intuire, il quotidiano boccia Berlusconi, Grillo, ma anche Bersani. Vede invece uno «spazio politico» per Monti: «La sua presenza nella contesa elettorale darebbe agli elettori maggiore scelta e porterebbe la qualità necessaria nella politica italiana». Da "grand commis" è preoccupato di perdere il suo ruolo super-partes. «Ma in questo passaggio critico, i suoi istinti liberali potrebbero essere un'alternativa vincente al populismo di Berlusconi e un utile contrappeso al dubbio spirito riformista dei Democratici», conclude il Ft, dando l'impressione di protendere per un Monti alternativo a Berlusconi ma complementare, invece, a Bersani.
Anti-montiano, invece, fino al punto di concedere all'odiato Berlusconi qualche ragione, l'editoriale di Wolfganf Munchau, per il quale Monti è stato «una bolla» - un bluff, insomma, quante volte l'ho scritto su questo blog - buona finché politica e mercati ci credono, ma non si tarderà a scoprire che «nell'anno trascorso poco è davvero cambiato, tranne il fatto che l'economia è caduta in una profonda depressione».
I problemi dell'Italia si possono risolvere solo "politicamente" e «per quanto Berlusconi possa essere stato incapace e comico nel suo ultimo mandato, la sua diagnosi dei problemi dell'Italia è esatta», riconosce Munchau, coerente con la sua linea anti-austerità. Quindi suggerisce 1) di ribaltare l'operato di Monti (gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa); 2) di contrapporsi ad Angela Merkel, cosa che Monti non ha voluto, o è stato incapace di fare.
Curiosamente c'è una linea sottile che sembra unire certi autorevoli commentatori ed economisti, nostrani e non, il politico più screditato del continente (Berlusconi) e la sinistra più conservatrice: il rifiuto dell'austerity in qualsiasi forma si presenti, senza distinguere tra un rigore solo depressivo e una via virtuosa - possibile - al risanamento.
Monti, che si prepara a guardare da bordo campo la partita, pur senza rinunciare a "orientare" le scelte dei cittadini, dovrebbe riflettere su quanto scrivono WSJ e Ft circa la necessità di un mandato politico forte per le riforme economiche. Se pensa che basti tornare a Palazzo Chigi anche senza prima accettare il giudizio/raccogliere il consenso degli italiani, sostenuto da una coalizione post-voto tra progressisti e moderati, o addirittura di "garantire" per essa dal Colle, si sbaglia di grosso e sciupa un'occasione storica.
Di segno opposto il suggerimento di Angelo Panebianco: candidarsi per intercettare l'elettorato deluso da Berlusconi ma che non si rassegna ad affidarsi alla sinistra (o ad un'offerta di centro che odora di alleanza con la sinistra, aggiungo io). A quel punto la «misteriosa agenda Monti» dovrebbe diventare un programma, facendo cadere parecchi alibi: si potrebbe valutare la vera cifra riformatrice del professore e di chi oggi chiede voti in suo nome ma non su un programma concreto. Ma senza un'indicazione precisa, avverte Panebianco, sull'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese, e sul "come", marcando quindi una discontinuità rispetto alla politica fiscale di questi 12 mesi, difficilmente Monti potrebbe conquistare quell'elettorato.
Friday, December 07, 2012
AAA nuova offerta politica di centrodestra cercavasi
Anche su L'Opinione e Notapolitica
AAA nuova offerta politica di centrodestra cercasi. Ha avuto un anno di tempo per manifestarsi. Un anno in cui Berlusconi – tra passi indietro, avanti e di lato – e il Pdl sono rimasti nel totale immobilismo, anzi impegnati in un'incessante opera di autolesionismo, travolti dagli scandali, in verticale perdita di consensi. Mai momento fu più propizio. Il Cav. era all'angolo, il suo partito allo stremo. Perché non si è (ancora) manifestata questa nuova offerta? Dov'è quel PPE italiano che avrebbe dovuto aprire l'era post-berlusconiana? E non si risponda finché Berlusconi è in campo eccetera eccetera. Cosa bisogna aspettare per farsi avanti, che muoia? Mai le truppe berlusconiane sono state così sbandate e il loro generale così lontano dal campo di battaglia. Eppure...
Tutti coloro che con ottime ragioni hanno manifestato la necessità di liquidare il fallimentare berlusconismo sostituendolo con una forza popolare, moderna, europea, hanno commesso un errore fatale. Invece di rivolgersi direttamente al "popolo" deluso e disgregato di centrodestra – come fece con successo Berlusconi nel 1994, durante la prima grave cesura del nostro sistema politico repubblicano – si sono gingillati in esasperati tatticismi, intestarditi in manovre tutte interne al ceto politico, ignorando un dato fondamentale nel paese: in questo ventennio gli elettori di centrodestra, pur con tutte le loro differenze, sono stati abituati a ragionare in termini bipolari e alternativi al centrosinistra. Questa "alternatività" i milioni di elettori lasciati per 12 mesi in libera uscita da una forza che dal 38% è scesa al 15, non l'hanno vista in Casini, di cui già non si fidavano, né in Montezemolo e nella sua ItaliaFutura, né in Monti, e addirittura nemmeno nei liberisti duri e puri di FermareilDeclino. Non credono più a Berlusconi, sono disgustati dal Pdl, ma i sondaggi e le parziali scadenze elettorali di quest'anno dimostrano che non si sono spostati a sinistra, né sono attratti dal Terzo polo o da Grillo. Sono sì in attesa di una nuova offerta politica, ma chiaramente di centrodestra.
Gettare le fondamenta di un PPE italiano attorno alla personalità di Mario Monti avrebbe potuto (potrebbe ancora?) funzionare se il professore avesse accettato – non subito, ovviamente, ma sul finire della legislatura – di giocare un simile ruolo politico, visto che lui stesso si è definito culturalmente vicino al popolarismo europeo. Il premier, insomma, doveva decidere se diventare un De Gasperi, un Ciampi, o un Dini. Ma se Monti preferisce restare super partes, riserva della Repubblica, per i soggetti che a lui si richiamano (Casini e Montezemolo) si fa dura: significa di fatto rendersi disponibili a fare le "stampelle centriste" di un Monti-bis sostenuto da una maggioranza egemonizzata dalla sinistra Bersani-Cgil. Una prospettiva che non può allettare gli elettori di centrodestra.
Per Casini si trattava di lavorarsi i "montiani" del Pdl affinché spingessero Alfano a rottamare Berlusconi. E per poco non gli riusciva. Ma a parte il fatto che gli elettori di centrodestra non avrebbero affatto seguito una classe dirigente, quella del Pdl, di cui non hanno alcuna stima, verso un "centrismo montiano" non chiaramente alternativo alla sinistra, visto che il professore non si schiera, c'è anche da dubitare che Casini a quel punto avrebbe dato seguito alla chimera dell'"unità dei moderati", visto che ha sempre lavorato a destrutturare il bipolarismo, per un sistema in cui il centro possa di volta in volta, dopo il voto, allearsi con chi esce vincitore dalle urne.
Anche Montezemolo, pur respingendo qualsiasi "avance" di pezzi del vecchio ceto politico, ha ceduto però ad alcuni autoproclamati (e molto interessati) rappresentanti della cosiddetta "società civile". Timoroso di scendere in campo in prima persona, anche lui ha dato il nome di Monti alla sua lista e lanciato un'alleanza con il mondo del socialismo cattolico – Acli, Sant'Egidio, Cisl – che, come ripete da un paio di giorni uno dei suoi più autorevoli esponenti, guarda al Pd.
FermareilDeclino è l'unica potenziale nuova offerta che non ha peccato di politicismo e si è concentrata sui contenuti. Ma ha ecceduto in anti-berlusconismo – viscerale, sconfinato in un atteggiamento di colpevolizzazione dell'elettorato di centrodestra – e in intellettualismo. Tipico dell'intellettuale è il gusto della provocazione e il voler convincere tutti delle proprie tesi – così si spiegano gli appelli a Renzi e ai suoi elettori scambiati per liberisti "in sonno" – mentre l'iniziativa politica richiede di individuare la tipologia di elettori cui rivolgersi per affinare il messaggio.
Insomma, per ragioni diverse – nobili quelle di Monti e dei promotori di FermareilDeclino, "politiciste" quelle di Casini e Montezemolo – nessuno finora ha davvero messo in campo una nuova offerta politica di centrodestra. Dunque, se oggi Berlusconi può osare ri-discendere in campo, è soprattutto per il vuoto lasciato dall'esasperato tatticismo di chi, probabilmente, non ha mai avuto in mente un'idea di centrodestra maggioritario a cui gli elettori potessero sintonizzarsi.
AAA nuova offerta politica di centrodestra cercasi. Ha avuto un anno di tempo per manifestarsi. Un anno in cui Berlusconi – tra passi indietro, avanti e di lato – e il Pdl sono rimasti nel totale immobilismo, anzi impegnati in un'incessante opera di autolesionismo, travolti dagli scandali, in verticale perdita di consensi. Mai momento fu più propizio. Il Cav. era all'angolo, il suo partito allo stremo. Perché non si è (ancora) manifestata questa nuova offerta? Dov'è quel PPE italiano che avrebbe dovuto aprire l'era post-berlusconiana? E non si risponda finché Berlusconi è in campo eccetera eccetera. Cosa bisogna aspettare per farsi avanti, che muoia? Mai le truppe berlusconiane sono state così sbandate e il loro generale così lontano dal campo di battaglia. Eppure...
Tutti coloro che con ottime ragioni hanno manifestato la necessità di liquidare il fallimentare berlusconismo sostituendolo con una forza popolare, moderna, europea, hanno commesso un errore fatale. Invece di rivolgersi direttamente al "popolo" deluso e disgregato di centrodestra – come fece con successo Berlusconi nel 1994, durante la prima grave cesura del nostro sistema politico repubblicano – si sono gingillati in esasperati tatticismi, intestarditi in manovre tutte interne al ceto politico, ignorando un dato fondamentale nel paese: in questo ventennio gli elettori di centrodestra, pur con tutte le loro differenze, sono stati abituati a ragionare in termini bipolari e alternativi al centrosinistra. Questa "alternatività" i milioni di elettori lasciati per 12 mesi in libera uscita da una forza che dal 38% è scesa al 15, non l'hanno vista in Casini, di cui già non si fidavano, né in Montezemolo e nella sua ItaliaFutura, né in Monti, e addirittura nemmeno nei liberisti duri e puri di FermareilDeclino. Non credono più a Berlusconi, sono disgustati dal Pdl, ma i sondaggi e le parziali scadenze elettorali di quest'anno dimostrano che non si sono spostati a sinistra, né sono attratti dal Terzo polo o da Grillo. Sono sì in attesa di una nuova offerta politica, ma chiaramente di centrodestra.
Gettare le fondamenta di un PPE italiano attorno alla personalità di Mario Monti avrebbe potuto (potrebbe ancora?) funzionare se il professore avesse accettato – non subito, ovviamente, ma sul finire della legislatura – di giocare un simile ruolo politico, visto che lui stesso si è definito culturalmente vicino al popolarismo europeo. Il premier, insomma, doveva decidere se diventare un De Gasperi, un Ciampi, o un Dini. Ma se Monti preferisce restare super partes, riserva della Repubblica, per i soggetti che a lui si richiamano (Casini e Montezemolo) si fa dura: significa di fatto rendersi disponibili a fare le "stampelle centriste" di un Monti-bis sostenuto da una maggioranza egemonizzata dalla sinistra Bersani-Cgil. Una prospettiva che non può allettare gli elettori di centrodestra.
Per Casini si trattava di lavorarsi i "montiani" del Pdl affinché spingessero Alfano a rottamare Berlusconi. E per poco non gli riusciva. Ma a parte il fatto che gli elettori di centrodestra non avrebbero affatto seguito una classe dirigente, quella del Pdl, di cui non hanno alcuna stima, verso un "centrismo montiano" non chiaramente alternativo alla sinistra, visto che il professore non si schiera, c'è anche da dubitare che Casini a quel punto avrebbe dato seguito alla chimera dell'"unità dei moderati", visto che ha sempre lavorato a destrutturare il bipolarismo, per un sistema in cui il centro possa di volta in volta, dopo il voto, allearsi con chi esce vincitore dalle urne.
Anche Montezemolo, pur respingendo qualsiasi "avance" di pezzi del vecchio ceto politico, ha ceduto però ad alcuni autoproclamati (e molto interessati) rappresentanti della cosiddetta "società civile". Timoroso di scendere in campo in prima persona, anche lui ha dato il nome di Monti alla sua lista e lanciato un'alleanza con il mondo del socialismo cattolico – Acli, Sant'Egidio, Cisl – che, come ripete da un paio di giorni uno dei suoi più autorevoli esponenti, guarda al Pd.
FermareilDeclino è l'unica potenziale nuova offerta che non ha peccato di politicismo e si è concentrata sui contenuti. Ma ha ecceduto in anti-berlusconismo – viscerale, sconfinato in un atteggiamento di colpevolizzazione dell'elettorato di centrodestra – e in intellettualismo. Tipico dell'intellettuale è il gusto della provocazione e il voler convincere tutti delle proprie tesi – così si spiegano gli appelli a Renzi e ai suoi elettori scambiati per liberisti "in sonno" – mentre l'iniziativa politica richiede di individuare la tipologia di elettori cui rivolgersi per affinare il messaggio.
Insomma, per ragioni diverse – nobili quelle di Monti e dei promotori di FermareilDeclino, "politiciste" quelle di Casini e Montezemolo – nessuno finora ha davvero messo in campo una nuova offerta politica di centrodestra. Dunque, se oggi Berlusconi può osare ri-discendere in campo, è soprattutto per il vuoto lasciato dall'esasperato tatticismo di chi, probabilmente, non ha mai avuto in mente un'idea di centrodestra maggioritario a cui gli elettori potessero sintonizzarsi.
Saturday, November 10, 2012
Le ragioni politiche dietro lo sfogo del Cav
Anche su L'Opinione
Proviamo una lettura meno caricaturale dello psicodramma del Pdl. Secondo Berlusconi le primarie non bastano, anzi così organizzate (provincia per provincia) rischiano di alimentare le faide interne e dar vita ad uno spettacolo ancor più disgustoso agli occhi degli elettori. Ci vorrebbe il Berlusconi del 1994, un nuovo Berlusconi, o almeno un leader con il famoso "quid", di cui però il Cav non vede traccia nel partito. Come dargli torto? Ha corteggiato invano suoi possibili successori, da Montezemolo a Monti, i quali hanno cortesemente declinato. In parte per la natura stessa del personaggio, che non ammette co-protagonisti, in parte per l'assalto mediatico-giudiziario, intorno al Cav c'è solo terra bruciata. Personalità esterne alla politica esitano a farsi avanti per paura di ricevere lo stesso trattamento, e in ogni caso non accetterebbero mai di caricarsi sulle spalle il corpaccione dello screditato Pdl e la pesante, controversa eredità del suo fondatore.
Il Cav capisce che la sua stagione è finita e fatica ad accettarlo. Quindi continua a "sragionare" di un nuovo Berlusconi e di "shock". Il partito dovrebbe aspettare che si manifesti, come una sorta di messia, o andarselo a cercare. Dopo aver sbraitato, è lui stesso ad ammettere di non avere assi nella manica, di non sapere neanche lui cosa fare, e a definire il suo uno «sfogo». Fin qui l'aspetto psicologico. Ora quello politico. Legittimo che Alfano e i suoi coltivino ambizioni, ma commettono il tragicomico errore di ignorare i propri limiti se pensano di costruire il proprio futuro politico rompendo con Berlusconi, nell'illusione che ciò renda possibili chissà quali nuove e formidabili alleanze. E senza di lui, o peggio avendolo contro, nemmeno le primarie sovvertirebbero il clima di smobilitazione. Comprensibile che il malumore del Cav aumenti sentendosi epurato da un gruppo dirigente mediocre – il cui appeal sull'elettorato non è ancora nemmeno lontanamente comparabile al suo – convinto che il sacrificio del capo e appiattirsi su Monti servano ad un disegno politico in realtà manifestamente suicida.
Dopo un anno, a nulla sono serviti i passi indietro di Berlusconi (se non ad irritarlo), anzi l'agognata unità dei "moderati" che avrebbero dovuto favorire è quanto mai lontana. Il gioco di Casini è un altro: la deberlusconizzazione del Pdl non come precondizione di un'alleanza, ma come premessa della sua liquefazione. Quello di Fini di ieri mattina (con Alfano possibile una «pagina nuova per tutti i moderati») è solo l'ultimo dei "baci della morte". Lo stesso D'Alimonte, rivelando candidamente il senso della sua proposta di riforma elettorale, dà la misura della stupidità del Pdl che in Senato ha votato, con Udc e Lega, un testo simile: «Con questo meccanismo Casini potrebbe decidere di fare un'alleanza elettorale con il Pd sul modello siciliano. Arriverebbero al 40%, e con 14 punti di premio arriverebbero al 54%: se il Pd facesse un listone unico con Sel potrebbe disinnescare la pregiudiziale di Casini nei confronti di Vendola». Biscotto servito e tanti saluti al Pdl.
La soglia – per ora al 42,5%, ma Pd e Udc sono già d'accordo sul 40 – è funzionale ad un'alleanza Pd-Sel-Udc o, in ogni caso, regala una enorme rendita di posizione post-voto ad un Casini in crisi, che nelle ultime tornate elettorali non è apparso in grado di intercettare voti Pdl e il cui progetto Terzo polo si è dimostrato velleitario. Tra l'altro, è una legge peggiorativa del porcellum in termini di governabilità: se nessuno raggiunge la soglia, non scatta il premio ed è proporzionale puro; ma la coalizione che la raggiungesse potrebbe comunque essere troppo disomogenea, come lo sarebbe una formata da Pd, Sel e Udc.
Proviamo una lettura meno caricaturale dello psicodramma del Pdl. Secondo Berlusconi le primarie non bastano, anzi così organizzate (provincia per provincia) rischiano di alimentare le faide interne e dar vita ad uno spettacolo ancor più disgustoso agli occhi degli elettori. Ci vorrebbe il Berlusconi del 1994, un nuovo Berlusconi, o almeno un leader con il famoso "quid", di cui però il Cav non vede traccia nel partito. Come dargli torto? Ha corteggiato invano suoi possibili successori, da Montezemolo a Monti, i quali hanno cortesemente declinato. In parte per la natura stessa del personaggio, che non ammette co-protagonisti, in parte per l'assalto mediatico-giudiziario, intorno al Cav c'è solo terra bruciata. Personalità esterne alla politica esitano a farsi avanti per paura di ricevere lo stesso trattamento, e in ogni caso non accetterebbero mai di caricarsi sulle spalle il corpaccione dello screditato Pdl e la pesante, controversa eredità del suo fondatore.
Il Cav capisce che la sua stagione è finita e fatica ad accettarlo. Quindi continua a "sragionare" di un nuovo Berlusconi e di "shock". Il partito dovrebbe aspettare che si manifesti, come una sorta di messia, o andarselo a cercare. Dopo aver sbraitato, è lui stesso ad ammettere di non avere assi nella manica, di non sapere neanche lui cosa fare, e a definire il suo uno «sfogo». Fin qui l'aspetto psicologico. Ora quello politico. Legittimo che Alfano e i suoi coltivino ambizioni, ma commettono il tragicomico errore di ignorare i propri limiti se pensano di costruire il proprio futuro politico rompendo con Berlusconi, nell'illusione che ciò renda possibili chissà quali nuove e formidabili alleanze. E senza di lui, o peggio avendolo contro, nemmeno le primarie sovvertirebbero il clima di smobilitazione. Comprensibile che il malumore del Cav aumenti sentendosi epurato da un gruppo dirigente mediocre – il cui appeal sull'elettorato non è ancora nemmeno lontanamente comparabile al suo – convinto che il sacrificio del capo e appiattirsi su Monti servano ad un disegno politico in realtà manifestamente suicida.
Dopo un anno, a nulla sono serviti i passi indietro di Berlusconi (se non ad irritarlo), anzi l'agognata unità dei "moderati" che avrebbero dovuto favorire è quanto mai lontana. Il gioco di Casini è un altro: la deberlusconizzazione del Pdl non come precondizione di un'alleanza, ma come premessa della sua liquefazione. Quello di Fini di ieri mattina (con Alfano possibile una «pagina nuova per tutti i moderati») è solo l'ultimo dei "baci della morte". Lo stesso D'Alimonte, rivelando candidamente il senso della sua proposta di riforma elettorale, dà la misura della stupidità del Pdl che in Senato ha votato, con Udc e Lega, un testo simile: «Con questo meccanismo Casini potrebbe decidere di fare un'alleanza elettorale con il Pd sul modello siciliano. Arriverebbero al 40%, e con 14 punti di premio arriverebbero al 54%: se il Pd facesse un listone unico con Sel potrebbe disinnescare la pregiudiziale di Casini nei confronti di Vendola». Biscotto servito e tanti saluti al Pdl.
La soglia – per ora al 42,5%, ma Pd e Udc sono già d'accordo sul 40 – è funzionale ad un'alleanza Pd-Sel-Udc o, in ogni caso, regala una enorme rendita di posizione post-voto ad un Casini in crisi, che nelle ultime tornate elettorali non è apparso in grado di intercettare voti Pdl e il cui progetto Terzo polo si è dimostrato velleitario. Tra l'altro, è una legge peggiorativa del porcellum in termini di governabilità: se nessuno raggiunge la soglia, non scatta il premio ed è proporzionale puro; ma la coalizione che la raggiungesse potrebbe comunque essere troppo disomogenea, come lo sarebbe una formata da Pd, Sel e Udc.
Monday, October 29, 2012
Le sirene neocentriste bersaglio dell'ira del Cav
Difficile comprendere dove finisca lo sfogo per l'assurda sentenza di condanna ricevuta venerdì, accompagnata da a dir poco irrituali motivazioni "politiche", e dove cominci, invece, la politica. Si vedrà nelle prossime settimane. Ma i toni sopra le righe nei confronti del governo Monti e della cancelliera Merkel hanno senz'altro a che fare sia con l'ennesimo tentativo di "farlo fuori" per via giudiziaria, sia con lo scollamento in atto tra il fondatore del Pdl e la sua classe dirigente, segretario Alfano compreso. Il Cav ha voluto evitare che il combinato disposto della sentenza dei giudici di Milano e della sua decisione di non ricandidarsi, con apertura al metodo delle primarie, potesse incoraggiare qualcuno, in primis nel suo partito ma ovviamente anche tra i suoi avversari, a credere che sia disposto a farsi eliminare dalla scena politica.
Il passo indietro non significa affatto un via libera ad una linea acriticamente montiana del Pdl, nell'illusione di favorire l'alleanza con Casini. Oltre allo shock della sentenza, a Berlusconi non è senz'altro sfuggito che il suo passo indietro non ha affatto sortito gli effetti sperati sugli ipotetici intelocutori per il rassemblement dei "moderati", su tutti Casini e Montezemolo. Anzi, entrambi hanno stretto ulteriormente la morsa sul Pdl: Casini confermando di voler proseguire sulla sua strada con una "lista per l'Italia" e Montezemolo stringendo l'alleanza con il mondo di Todi. Il significato è fin troppo chiaro: il Pdl può anche diventare più montiano di Monti e il Cav sparire per sempre in Kenya o chissà dove, ma nulla potrà mai accontentarli se non la totale liquefazione del Pdl. L'obiettivo finale è sì l'unità dei moderati, ma completamente deberlusconizzata. Anzi, antiberlusconiana. Il che è chiaramente inaccettabile per Berlusconi. Sia pure con due diverse operazioni centriste, lo scenario a cui lavorano Casini e Montezemolo è quello di un pezzo maggioritario del Pdl che rompe con il suo fondatore, e che si consegna mani e piedi al progetto neocentrista. A quel punto Berlusconi e i suoi fedelissimi non potrebbero far altro che dar vita a un nuovo partito berlusconiano, rancoroso e populista, e gli ex An farebbero altrettanto, un nuovo partito di destra, non potendo certo morire democristiani, ma entrambi sarebbero condannati all'isolamento. Questo il disegno contro cui Berlusconi si è scagliato nella conferenza stampa di sabato.
Consapevolmente o meno molti esponenti del Pdl, pensando al seguito della propria carriera politica, sono invece allettati da questa prospettiva e il segretario Alfano è esposto a tali sirene. Il rischio che corrono, ovviamente, è di venire usati in funzione antiCav e poi gettati, come è capitato a Fini.
In questa partita a scacchi c'entra poco la "responsabilità" nei confronti del governo Monti. Anche il Pdl, come il Pd, ha sostenuto tutti i provvedimenti dell'attuale esecutivo. E anche il Pd non ha mai rinunciato a criticarlo e a porre i propri paletti. Sembra quasi, però, che al centrosinistra di Bersani si perdonino le intemperanze demagogiche e la voglia nemmeno tanto velata di archivhiare in fretta l'agenda e la figura stessa di Monti (vedi dichiarazioni di Fassina e Vendola), mentre al Pdl si richiede di starsene buono, appiattito sulle misure del governo tecnico, perché se osa alzare il ditino allora scatta l'accusa di populismo, di irresponsabilità. Se il Pd di Bersani punta i piedi sui tagli alla spesa – alla sanità, alla scuola e agli enti locali – e se insieme al sindacato è riuscito a svuotare la riforma del mercato del lavoro sull'articolo 18, non si capisce perché il Pdl e Berlusconi non dovrebbero porre istanze sul fisco, sull'Imu o sull'Iva. E quale sede più appropriata della legge di stabilità, cioè il principale atto di politica economica, per dimostrare di esserci?
Può apparire contraddittorio, ma il Pdl non potrebbe tenere in piedi una linea responsabile sul governo Monti e l'Europa, al tempo stesso senza appiattirsi totalmente sulle misure, tra l'altro non impeccabili, del governo?
LEGGI TUTTO su L'Opinione
Il passo indietro non significa affatto un via libera ad una linea acriticamente montiana del Pdl, nell'illusione di favorire l'alleanza con Casini. Oltre allo shock della sentenza, a Berlusconi non è senz'altro sfuggito che il suo passo indietro non ha affatto sortito gli effetti sperati sugli ipotetici intelocutori per il rassemblement dei "moderati", su tutti Casini e Montezemolo. Anzi, entrambi hanno stretto ulteriormente la morsa sul Pdl: Casini confermando di voler proseguire sulla sua strada con una "lista per l'Italia" e Montezemolo stringendo l'alleanza con il mondo di Todi. Il significato è fin troppo chiaro: il Pdl può anche diventare più montiano di Monti e il Cav sparire per sempre in Kenya o chissà dove, ma nulla potrà mai accontentarli se non la totale liquefazione del Pdl. L'obiettivo finale è sì l'unità dei moderati, ma completamente deberlusconizzata. Anzi, antiberlusconiana. Il che è chiaramente inaccettabile per Berlusconi. Sia pure con due diverse operazioni centriste, lo scenario a cui lavorano Casini e Montezemolo è quello di un pezzo maggioritario del Pdl che rompe con il suo fondatore, e che si consegna mani e piedi al progetto neocentrista. A quel punto Berlusconi e i suoi fedelissimi non potrebbero far altro che dar vita a un nuovo partito berlusconiano, rancoroso e populista, e gli ex An farebbero altrettanto, un nuovo partito di destra, non potendo certo morire democristiani, ma entrambi sarebbero condannati all'isolamento. Questo il disegno contro cui Berlusconi si è scagliato nella conferenza stampa di sabato.
Consapevolmente o meno molti esponenti del Pdl, pensando al seguito della propria carriera politica, sono invece allettati da questa prospettiva e il segretario Alfano è esposto a tali sirene. Il rischio che corrono, ovviamente, è di venire usati in funzione antiCav e poi gettati, come è capitato a Fini.
In questa partita a scacchi c'entra poco la "responsabilità" nei confronti del governo Monti. Anche il Pdl, come il Pd, ha sostenuto tutti i provvedimenti dell'attuale esecutivo. E anche il Pd non ha mai rinunciato a criticarlo e a porre i propri paletti. Sembra quasi, però, che al centrosinistra di Bersani si perdonino le intemperanze demagogiche e la voglia nemmeno tanto velata di archivhiare in fretta l'agenda e la figura stessa di Monti (vedi dichiarazioni di Fassina e Vendola), mentre al Pdl si richiede di starsene buono, appiattito sulle misure del governo tecnico, perché se osa alzare il ditino allora scatta l'accusa di populismo, di irresponsabilità. Se il Pd di Bersani punta i piedi sui tagli alla spesa – alla sanità, alla scuola e agli enti locali – e se insieme al sindacato è riuscito a svuotare la riforma del mercato del lavoro sull'articolo 18, non si capisce perché il Pdl e Berlusconi non dovrebbero porre istanze sul fisco, sull'Imu o sull'Iva. E quale sede più appropriata della legge di stabilità, cioè il principale atto di politica economica, per dimostrare di esserci?
Può apparire contraddittorio, ma il Pdl non potrebbe tenere in piedi una linea responsabile sul governo Monti e l'Europa, al tempo stesso senza appiattirsi totalmente sulle misure, tra l'altro non impeccabili, del governo?
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Thursday, October 25, 2012
Monti non fare troppo lo schizzinoso
Narrano le cronache, e sembra verosimile, che Berlusconi abbia provato fino all'ultimo ad "arruolare" Monti, a convincerlo a farsi candidare esplicitamente per un bis a Palazzo Chigi («io non rinuncio all'idea di vederti a capo di uno schieramento dei moderati»), l'unico modo per il Pdl di ritrovarsi azionista di maggioranza nella prossima legislatura; e che il garbato, e a quanto pare argomentato, diniego del professore abbia aiutato Berlusconi a decidersi per il passo indietro, avendo compreso quanto una sua ricandidatura avrebbe ostacolato sia l'"agenda Monti" (da cui il Cav. sarebbe stato conquistato) che la riaggregazione dei "moderati", fornendo un vero e proprio alibi ai suoi interlocutori.
Nella sua nota Berlusconi chiarisce una volta per tutte la linea europeista e non avventurista, quindi "montiana", del Pdl. Ma si spinge anche oltre, tracciando implicitamente una linea di continuità tra la sua esperienza politica (almeno quale era alle origini e nelle sue intenzioni) e «la chiara direzione riformatrice e liberale» del professore. Facciamo per un attimo finta che sia così «chiara» la «direzione riformatrice e liberale» sia dell'esperienza berlusconiana che di Monti: è comunque noto che il professore si sente culturalmente vicino al popolarismo europeo.
E' comprensibile che Monti voglia evitare l'abbraccio mortale dei vecchi e compromessi partiti, che non abbia alcuna intenzione di caricarsi sulle spalle il futuro del Pdl, di farsi "accompagnare" da un alleato così impresentabile. Tuttavia, se davvero ritiene che l'Italia non abbia «affatto bisogno di politiche moderate, ma di riforme radicali», in senso liberale, sbaglierebbe di grosso a pensare che l'unica via politica possibile per realizzare questo programma sia quella non partigiana, delle larghe intese, come in questo scorcio di legislatura.
Il progetto di riforme radicali e liberali che avrebbe in mente, secondo quanto gli viene attribuito oggi, avrebbe sì bisogno di un ampio consenso per essere realizzato, ma di un ampio consenso tra gli italiani, non tra i partiti. Quindi di una maggioranza politica. Non è pensabile riproporre tale e quale, o quasi, la maggioranza di quest'ultimo anno. Perché delle due l'una: o le riforme non sarebbero né radicali né liberali e Monti sarebbe presto costretto a rinunciare alla sua ambiziosa agenda per gestire lo status quo, oppure, se tentasse davvero di trasformare il paese in senso liberale, si troverebbe senza la maggioranza che auspica.
Se davvero vuole provare a realizzare riforme radicali e liberali, non può fare a meno di "politicizzarsi" in qualche modo. Il che non implica certo fungere da scialuppa di salvataggio del vecchio e screditato ceto politico, ma non può nemmeno pensare di riuscirci restando super partes e con l'appoggio della sinistra o delle sue componenti più responsabili.
Nella sua nota Berlusconi chiarisce una volta per tutte la linea europeista e non avventurista, quindi "montiana", del Pdl. Ma si spinge anche oltre, tracciando implicitamente una linea di continuità tra la sua esperienza politica (almeno quale era alle origini e nelle sue intenzioni) e «la chiara direzione riformatrice e liberale» del professore. Facciamo per un attimo finta che sia così «chiara» la «direzione riformatrice e liberale» sia dell'esperienza berlusconiana che di Monti: è comunque noto che il professore si sente culturalmente vicino al popolarismo europeo.
E' comprensibile che Monti voglia evitare l'abbraccio mortale dei vecchi e compromessi partiti, che non abbia alcuna intenzione di caricarsi sulle spalle il futuro del Pdl, di farsi "accompagnare" da un alleato così impresentabile. Tuttavia, se davvero ritiene che l'Italia non abbia «affatto bisogno di politiche moderate, ma di riforme radicali», in senso liberale, sbaglierebbe di grosso a pensare che l'unica via politica possibile per realizzare questo programma sia quella non partigiana, delle larghe intese, come in questo scorcio di legislatura.
Il progetto di riforme radicali e liberali che avrebbe in mente, secondo quanto gli viene attribuito oggi, avrebbe sì bisogno di un ampio consenso per essere realizzato, ma di un ampio consenso tra gli italiani, non tra i partiti. Quindi di una maggioranza politica. Non è pensabile riproporre tale e quale, o quasi, la maggioranza di quest'ultimo anno. Perché delle due l'una: o le riforme non sarebbero né radicali né liberali e Monti sarebbe presto costretto a rinunciare alla sua ambiziosa agenda per gestire lo status quo, oppure, se tentasse davvero di trasformare il paese in senso liberale, si troverebbe senza la maggioranza che auspica.
Se davvero vuole provare a realizzare riforme radicali e liberali, non può fare a meno di "politicizzarsi" in qualche modo. Il che non implica certo fungere da scialuppa di salvataggio del vecchio e screditato ceto politico, ma non può nemmeno pensare di riuscirci restando super partes e con l'appoggio della sinistra o delle sue componenti più responsabili.
Wednesday, October 10, 2012
Basta bluff incrociati: primarie aperte per un centrodestra "all'americana"
Non è la prima volta che l'ex premier si rende disponibile a farsi da parte pur di riunire quelli che chiama i "moderati", ma forse mai in modo così esplicito. E, soprattutto, a differenza che in altri momenti, oggi ci troviamo davvero nei minuti di recupero. Non solo per il Pdl, anche per gli altri attori che da anni puntano a raccoglierne l'eredità ma che, sempre più vicini all'ora "X", appaiono impreparati.
Quello di Berlusconi, dunque, è sì ancora tatticismo, ma non va confuso con l'inganno. La disponibilità a farsi da parte, a non ricandidarsi, è reale, ma condizionata a sua volta alla disponibilità degli altri a riunire il centrodestra. A questo punto, la logica vorrebbe che chi ha posto la condizione del passo indietro del Cav, vedendola soddisfatta, si sieda almeno al tavolo della trattativa. Perché, invece, gli attori cui si rivolge il Cav non vanno a vedere le sue carte? Cosa ancora impedisce un rassemblement del centrodestra? E se a bluffare non fosse (solo) Berlusconi, ma quanti fino ad oggi hanno insistito nel chiedergli un passo indietro?
Forse qualcuno preferisce curare il proprio orticello, lucrare sulla propria piccola rendita di posizione, piuttosto che mettersi in gioco in un progetto più vasto, inclusivo. Il tempo stringe, ma sembra che nessuno dei soggetti di area centrodestra – vecchi e nuovi – intenda abbandonare i tatticismi e giocare a carte scoperte. Casini sa che i delusi da Berlusconi resterebbero a casa o voterebbero Grillo piuttosto che consegnarsi a lui e a Fini. Non devono essere esaltanti i sondaggi, se Montezemolo ha deciso di non candidarsi a capo della sua lista. Senza leader, e ancora troppo elitario, anche il movimento Fermareildeclino ad oggi non può realisticamente pensare di andare molto oltre la soglia di sbarramento.
Eppure, ciascuno con le proprie debolezze e inadeguatezze, tutti sembrano attratti dal tanto peggio tanto meglio: meglio aspettare in riva al fiume che passi il cadavere del Pdl per grattargli qualche punto percentuale, piuttosto che rischiare di rianimarlo accettando di trattare con Berlusconi per rifondare il centrodestra. Al momento la realtà è che il Pdl è in coma profondo, ma i vecchi (Udc) e nuovi (IF e FiD) soggetti non sembrano rappresentare alternative davvero in grado di "coalizzare" una massa critica di elettori di centrodestra. Comprensibile che i nuovi non vogliano accompagnarsi ai vecchi e agli screditati personaggi politici, ma il rischio è che nessuno da solo riesca a toccare quota 20%. E con un Pd più Vendola verso il 30 e oltre sarebbe poi difficile immaginare di vincere le elezioni, o anche solo "scippare" la vittoria a Bersani per un Monti-bis.
È in questo scenario che a salvare il salvabile ci proverebbe, ancora una volta, Berlusconi. Che sarebbe più convincente se invitasse chi ci sta ad organizzare subito primarie apertissime (ovviamente annunciando di non voler correre) per la leadership del futuro centrodestra, in un'ottica "fusionista", guardando al modello americano. I suoi interlocutori, anche quelli nel Pdl, sarebbero messi con le spalle al muro: sfumata la possibilità di ereditare alcunché o di ergersi sulle macerie altrui, sarebbero costretti a sottoporsi al giudizio degli elettori come leader del nuovo centrodestra o a tacere per sempre.
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Quello di Berlusconi, dunque, è sì ancora tatticismo, ma non va confuso con l'inganno. La disponibilità a farsi da parte, a non ricandidarsi, è reale, ma condizionata a sua volta alla disponibilità degli altri a riunire il centrodestra. A questo punto, la logica vorrebbe che chi ha posto la condizione del passo indietro del Cav, vedendola soddisfatta, si sieda almeno al tavolo della trattativa. Perché, invece, gli attori cui si rivolge il Cav non vanno a vedere le sue carte? Cosa ancora impedisce un rassemblement del centrodestra? E se a bluffare non fosse (solo) Berlusconi, ma quanti fino ad oggi hanno insistito nel chiedergli un passo indietro?
Forse qualcuno preferisce curare il proprio orticello, lucrare sulla propria piccola rendita di posizione, piuttosto che mettersi in gioco in un progetto più vasto, inclusivo. Il tempo stringe, ma sembra che nessuno dei soggetti di area centrodestra – vecchi e nuovi – intenda abbandonare i tatticismi e giocare a carte scoperte. Casini sa che i delusi da Berlusconi resterebbero a casa o voterebbero Grillo piuttosto che consegnarsi a lui e a Fini. Non devono essere esaltanti i sondaggi, se Montezemolo ha deciso di non candidarsi a capo della sua lista. Senza leader, e ancora troppo elitario, anche il movimento Fermareildeclino ad oggi non può realisticamente pensare di andare molto oltre la soglia di sbarramento.
Eppure, ciascuno con le proprie debolezze e inadeguatezze, tutti sembrano attratti dal tanto peggio tanto meglio: meglio aspettare in riva al fiume che passi il cadavere del Pdl per grattargli qualche punto percentuale, piuttosto che rischiare di rianimarlo accettando di trattare con Berlusconi per rifondare il centrodestra. Al momento la realtà è che il Pdl è in coma profondo, ma i vecchi (Udc) e nuovi (IF e FiD) soggetti non sembrano rappresentare alternative davvero in grado di "coalizzare" una massa critica di elettori di centrodestra. Comprensibile che i nuovi non vogliano accompagnarsi ai vecchi e agli screditati personaggi politici, ma il rischio è che nessuno da solo riesca a toccare quota 20%. E con un Pd più Vendola verso il 30 e oltre sarebbe poi difficile immaginare di vincere le elezioni, o anche solo "scippare" la vittoria a Bersani per un Monti-bis.
È in questo scenario che a salvare il salvabile ci proverebbe, ancora una volta, Berlusconi. Che sarebbe più convincente se invitasse chi ci sta ad organizzare subito primarie apertissime (ovviamente annunciando di non voler correre) per la leadership del futuro centrodestra, in un'ottica "fusionista", guardando al modello americano. I suoi interlocutori, anche quelli nel Pdl, sarebbero messi con le spalle al muro: sfumata la possibilità di ereditare alcunché o di ergersi sulle macerie altrui, sarebbero costretti a sottoporsi al giudizio degli elettori come leader del nuovo centrodestra o a tacere per sempre.
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Tuesday, September 04, 2012
Alternative a Bersani-Vendola cercasi. Fate presto
Anche su L'Opinione
D'accordo, abbiamo passato un agosto relativamente tranquillo. Lo spread non ha fatto troppo le bizze e la Borsa ha chiuso il mese sopra i 15 mila punti. Niente tempesta di Ferragosto, anche gli speculatori sono andati in vacanza. Ma la crisi non è finita. Ce lo ricordano i dati Istat sull'occupazione, ancora in calo, quelli sul mercato dell'auto (negativi non solo in Italia) e le stime di Confcommercio sui consumi, nel 2012 calo del 3,3% con possibile chiusura di 150 mila attività commerciali. A settembre, dunque, si torna a fare sul serio ed è l'ora delle decisioni. I mercati sono in attesa di verificare i meccanismi di stabilità finanziaria che l'Europa si è impegnata a mettere in campo. Per quanto riguarda l'Italia, il governo è chiamato a fissare l'agenda per mettere a frutto i suoi ultimi mesi e a decidere sulla richiesta di aiuti Ue, mentre in vista delle elezioni del 2013 il mondo politico deve cominciare a dare risposte credibili per il dopo-Monti.
In particolare, chi è interessato a evitare un governo Bersani-Fassina-Vendola deve darsi una mossa, mettere da parte ambizioni, o piuttosto velleità personali, per offrire al paese un'alternativa credibile. La situazione appare molto simile a quella del '93-'94: c'è una gioiosa macchina da guerra che non vede l'ora di mettere le mani sull'intero bottino (forte è la tentazione di scaricare sul Pdl le colpe di un mancato accordo di riforma della legge elettorale e tornare al voto con il "porcellum"); gli italiani provano nausea per i vecchi partiti e non si fidano di Bersani, l'Occhetto dei nostri giorni; il 40% circa dell'elettorato si dichiara indeciso e una grossa fetta è in attesa di un'offerta politica nuova. Solo che non si profila all'orizzonte un leader con una sufficiente capacità d'aggregazione, come fu Berlusconi nel '94.
Il Pdl non è riuscito a rilanciarsi e il tempo sta scadendo, o è già scaduto. Qualche timido passo l'ha mosso nelle settimane scorse, ma troppo poco. È immobile e continuamente risucchiato nell'eterno tramonto del suo leader, caratterizzato dall'indecisionismo su tutto: candidatura, sostegno a un Monti-bis, legge elettorale, linea economica, politica europea. Casini ha già avuto dimostrazione alle amministrative che i voti in uscita dal Pdl difficilmente prendono la strada dell'Udc. Il suo piano di sostituirsi a Berlusconi come federatore di una rinnovata area moderata e di centro non sembra avere molte chance. Rischia di restare appeso ad un 6-7%, lusinghiero e sufficiente per mantenere la sua rendita di posizione ma non per determinare rivoluzioni nel campo moderato. Poi ci sono i "nuovi" - Grillo, Italia Futura e i liberisti di "Fermare il declino" - che giustamente rifiutano di accompagnarsi ai "vecchi" e puntano non all'ennesimo partitino, ma a rappresentare un'offerta politica maggioritaria, almeno nel loro campo. Tradotto in voti: almeno un 20%. Pdl, Udc, Italia Futura e anti-declinisti sono tutti in corsa per lo stesso settore dell'elettorato: quello deluso dal centrodestra berlusconiano ma che rifiuta di "buttarsi" tra le braccia della sinistra-sinistra di Bersani. Tutti rischiano di fallire: i primi due perché percepiti come "vecchi", i "nuovi" perché nonostante gli ottimi propositi potrebbero apparire movimenti troppo elitari, intellettuali.
Da una parte è comprensibile, e positivo, che ciascuno voglia giocare la sua partita; dall'altra il rischio è che nessuna di queste offerte ottenga il consenso necessario a imporsi come forza egemone. Il liquefarsi, o l'eccessiva frammentazione dell'offerta politica nel campo del centrodestra rischia di spianare la strada all'esito che davvero in pochi nel paese si augurano - praticamente il solo Bersani, che si crede l'Hollande italiano. Uniti o divisi questi soggetti dovranno saper mobilitare il blocco elettorale dell'ex centrodestra, per determinare almeno le condizioni per un Monti-bis che ci salvi da una deriva greca.
D'accordo, abbiamo passato un agosto relativamente tranquillo. Lo spread non ha fatto troppo le bizze e la Borsa ha chiuso il mese sopra i 15 mila punti. Niente tempesta di Ferragosto, anche gli speculatori sono andati in vacanza. Ma la crisi non è finita. Ce lo ricordano i dati Istat sull'occupazione, ancora in calo, quelli sul mercato dell'auto (negativi non solo in Italia) e le stime di Confcommercio sui consumi, nel 2012 calo del 3,3% con possibile chiusura di 150 mila attività commerciali. A settembre, dunque, si torna a fare sul serio ed è l'ora delle decisioni. I mercati sono in attesa di verificare i meccanismi di stabilità finanziaria che l'Europa si è impegnata a mettere in campo. Per quanto riguarda l'Italia, il governo è chiamato a fissare l'agenda per mettere a frutto i suoi ultimi mesi e a decidere sulla richiesta di aiuti Ue, mentre in vista delle elezioni del 2013 il mondo politico deve cominciare a dare risposte credibili per il dopo-Monti.
In particolare, chi è interessato a evitare un governo Bersani-Fassina-Vendola deve darsi una mossa, mettere da parte ambizioni, o piuttosto velleità personali, per offrire al paese un'alternativa credibile. La situazione appare molto simile a quella del '93-'94: c'è una gioiosa macchina da guerra che non vede l'ora di mettere le mani sull'intero bottino (forte è la tentazione di scaricare sul Pdl le colpe di un mancato accordo di riforma della legge elettorale e tornare al voto con il "porcellum"); gli italiani provano nausea per i vecchi partiti e non si fidano di Bersani, l'Occhetto dei nostri giorni; il 40% circa dell'elettorato si dichiara indeciso e una grossa fetta è in attesa di un'offerta politica nuova. Solo che non si profila all'orizzonte un leader con una sufficiente capacità d'aggregazione, come fu Berlusconi nel '94.
Il Pdl non è riuscito a rilanciarsi e il tempo sta scadendo, o è già scaduto. Qualche timido passo l'ha mosso nelle settimane scorse, ma troppo poco. È immobile e continuamente risucchiato nell'eterno tramonto del suo leader, caratterizzato dall'indecisionismo su tutto: candidatura, sostegno a un Monti-bis, legge elettorale, linea economica, politica europea. Casini ha già avuto dimostrazione alle amministrative che i voti in uscita dal Pdl difficilmente prendono la strada dell'Udc. Il suo piano di sostituirsi a Berlusconi come federatore di una rinnovata area moderata e di centro non sembra avere molte chance. Rischia di restare appeso ad un 6-7%, lusinghiero e sufficiente per mantenere la sua rendita di posizione ma non per determinare rivoluzioni nel campo moderato. Poi ci sono i "nuovi" - Grillo, Italia Futura e i liberisti di "Fermare il declino" - che giustamente rifiutano di accompagnarsi ai "vecchi" e puntano non all'ennesimo partitino, ma a rappresentare un'offerta politica maggioritaria, almeno nel loro campo. Tradotto in voti: almeno un 20%. Pdl, Udc, Italia Futura e anti-declinisti sono tutti in corsa per lo stesso settore dell'elettorato: quello deluso dal centrodestra berlusconiano ma che rifiuta di "buttarsi" tra le braccia della sinistra-sinistra di Bersani. Tutti rischiano di fallire: i primi due perché percepiti come "vecchi", i "nuovi" perché nonostante gli ottimi propositi potrebbero apparire movimenti troppo elitari, intellettuali.
Da una parte è comprensibile, e positivo, che ciascuno voglia giocare la sua partita; dall'altra il rischio è che nessuna di queste offerte ottenga il consenso necessario a imporsi come forza egemone. Il liquefarsi, o l'eccessiva frammentazione dell'offerta politica nel campo del centrodestra rischia di spianare la strada all'esito che davvero in pochi nel paese si augurano - praticamente il solo Bersani, che si crede l'Hollande italiano. Uniti o divisi questi soggetti dovranno saper mobilitare il blocco elettorale dell'ex centrodestra, per determinare almeno le condizioni per un Monti-bis che ci salvi da una deriva greca.
Thursday, May 24, 2012
Se Montezemolo raccoglie la bandiera di "Forza Italia"
Evaporazione, disfatta, o semplice sconfitta del Pdl e della Lega alle amministrative, ci sono pochi dubbi sul fatto che si è aperta un'immensa prateria per una nuova offerta politica rivolta agli elettori di centrodestra, che molti si ostinano a chiamare "moderati", mentre sono piuttosto incazzati, oltre che smarriti e disgregati, e nonostante serva tutto fuorché "moderazione" per affrontare la decennale crisi italiana.
E' dunque il momento di Luca Cordero di Montezemolo? Con una lettera al Corriere ha chiarito ciò che era nell'aria: potrebbe anche scendere in campo nel 2013 (stucchevole il condizionale), ma non cerca né "accompagnatori" né scudieri. Totale chiusura, o piuttosto l'apertura di una trattativa alle sue condizioni?
Fondamentale capire quale sarà il vero programma al di là dei proclami: si tratta di federare i "moderati", o di liberare finalmente l'Italia dallo statalismo? Per il berlusconismo lo slittamento della mission dalla "rivoluzione liberale" all'unità dei "moderati" è stato la tomba dell'una e dell'altra. Significativo quindi che Montezemolo non usi mai il termine "moderati", ma piuttosto evochi un'alleanza dei «produttori», e che il «campo ideale» da lui descritto somigli a quello della Forza Italia del 1994.
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E' dunque il momento di Luca Cordero di Montezemolo? Con una lettera al Corriere ha chiarito ciò che era nell'aria: potrebbe anche scendere in campo nel 2013 (stucchevole il condizionale), ma non cerca né "accompagnatori" né scudieri. Totale chiusura, o piuttosto l'apertura di una trattativa alle sue condizioni?
Fondamentale capire quale sarà il vero programma al di là dei proclami: si tratta di federare i "moderati", o di liberare finalmente l'Italia dallo statalismo? Per il berlusconismo lo slittamento della mission dalla "rivoluzione liberale" all'unità dei "moderati" è stato la tomba dell'una e dell'altra. Significativo quindi che Montezemolo non usi mai il termine "moderati", ma piuttosto evochi un'alleanza dei «produttori», e che il «campo ideale» da lui descritto somigli a quello della Forza Italia del 1994.
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Monday, May 14, 2012
Il Pdl non ha ancora capito
Se per 17 anni hai fatto delle promesse ai tuoi elettori, e una volta al governo hai fatto puntualmente l'opposto, tanto da non riuscire ad evitare al Paese una pesante gragnola di tasse e uno stato di polizia tributaria, puoi anche chiamarti Berlusconi o Padreterno, ma la gente non ti crede più e se ne sta a casa aspettando che si presenti qualcuno più credibile.
Il primo passo, quindi, dovrebbe essere una solenne e sincera operazione verità, di denuncia davanti agli elettori del proprio errore capitale: l'aver ceduto ad una politica economica statalista, conservativa, immobilista, l'opposto dello spirito del 1994. Facce nuove e atti concreti per rinnegare in toto la politica economica cripto-socialista che i governi di centrodestra hanno sempre perseguito. Sarà un caso che "Italia Futura", l'associazione di Montezemolo, preparandosi a lanciare la sua Opa sull'elettorato di centrodestra smarrito, disgregato, faccia proprie in campo economico e istituzionale le due proposte sdoganate da Forza Italia nel lontano 1994: "meno Stato" e presidenzialismo?
La confusione regna ancora sovrana nel Pdl: incalza il governo sulla spending review e l'abbattimento del debito, sull'Imu e l'Iva, ma si lascia affascinare dalla vittoria di Hollande e dalle ricette di Krugman. È comprensibile opporre un pizzico d'orgoglio patrio rispetto alle richieste di austerity che giungono da Bruxelles e Berlino, e voler tutelare l'interesse nazionale di fronte a impegni troppo gravosi per il nostro Paese, ma un Pdl che ancora "flirta" con approcci socialisti e keynesiani mostra di non aver ancora compreso la fondamentale lezione delle sue sconfitte.
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Il primo passo, quindi, dovrebbe essere una solenne e sincera operazione verità, di denuncia davanti agli elettori del proprio errore capitale: l'aver ceduto ad una politica economica statalista, conservativa, immobilista, l'opposto dello spirito del 1994. Facce nuove e atti concreti per rinnegare in toto la politica economica cripto-socialista che i governi di centrodestra hanno sempre perseguito. Sarà un caso che "Italia Futura", l'associazione di Montezemolo, preparandosi a lanciare la sua Opa sull'elettorato di centrodestra smarrito, disgregato, faccia proprie in campo economico e istituzionale le due proposte sdoganate da Forza Italia nel lontano 1994: "meno Stato" e presidenzialismo?
La confusione regna ancora sovrana nel Pdl: incalza il governo sulla spending review e l'abbattimento del debito, sull'Imu e l'Iva, ma si lascia affascinare dalla vittoria di Hollande e dalle ricette di Krugman. È comprensibile opporre un pizzico d'orgoglio patrio rispetto alle richieste di austerity che giungono da Bruxelles e Berlino, e voler tutelare l'interesse nazionale di fronte a impegni troppo gravosi per il nostro Paese, ma un Pdl che ancora "flirta" con approcci socialisti e keynesiani mostra di non aver ancora compreso la fondamentale lezione delle sue sconfitte.
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Tuesday, April 24, 2012
La giornata: riparte "i moderati" 19ma stagione (che palle!), nessuno vuole votare a ottobre ma se ne parla...
Piazza affari risale sopra i 14.000 punti (+2,48%), lo spread resta sui 400, ma i rendimenti sui nostri titoli di Stato purtroppo incorporano quelle che il dir. gen. di Bankitalia Saccomanni definisce come «tensioni dovute a incertezze di carattere politico». Nell'asta di oggi, infatti, a fronte di una buona domanda i tassi sono saliti di un punto percentuale, al 3,35% dal 2,35%, rispetto al mese di marzo. Addirittura raddoppiati i rendimenti sui titoli spagnoli emessi oggi.
E mentre il viceministro Grilli interviene per stoppare sul nascere false aspettative («tagliare le tasse non è possibile») dopo l'allarme pressione fiscale lanciato ieri dalla Corte dei Conti, il governatore della Bce Mario Draghi assicura che la maxi-iniezione di liquidità della Bce nel sistema funzionerà: i prestiti triennali alle banche sono stati studiati apposta «per scongiurare una stretta creditizia» e si dice certo che «in ultima analisi gioveranno all'economia reale». Per Draghi la causa della risalita degli spread non sta nell'eccesso delle politiche di austerità che frenano la crescita, bensì nell'allentarsi della determinazione dei governi nell'attuare le riforme non appena le tensioni sul debito si attenuano.
Via libera "in parallelo" dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato al Def, ma la bozza di risoluzione di maggioranza in via di stesura alla Camera per la discussione di giovedì contiene impegni gravosi e quasi provocatori per il governo: destinare le risorse derivanti dalla spending review e dalla lotta all'evasione in via prioritaria alla riduzione della pressione fiscale; elaborare un piano straordinario di dismissioni del patrimonio pubblico; adoperarsi in sede Ue perché la Bce diventi prestatore di ultima istanza. Un cambiamento dello statuto finora escluso dal premier Monti, in linea con la Merkel.
Berlusconi intanto è tornato a indicare ai suoi la rotta da seguire, parlando ai coordinatori provinciali e regionali del Pdl. Primo, l'acronimo Pdl «non suscita emozione», quindi, al prossimo Congresso si cambia nome. Ma tranquilli: stesso partito, stesse persone, stesse idee. Secondo, «proporremo a tutti i partiti moderati una confederazione con la possibilità di mantenere la propria sigla e di unirsi a noi». Terzo, viva Alfano, il Cav. avrebbe cambiato idea: al segretario ora riconosce «quel quid in più che solo lui ha e di cui c'è bisogno». Quarto, «stiamo lavorando con la sinistra» per cambiare «l'architettura istituzionale» (con quella attuale «neanche il più bravo» potrebbe incidere) e la legge elettorale. Sulla prima l'accordo ci sarebbe, sulla seconda quasi: si va verso il modello tedesco. Ma anche quasi no, perché il porcellum è duro a morire e ancora tenta qualcuno. Trattive rinviate a dopo le amministrative e Casini (per il quale è vitale una nuova legge) denuncia «un tentativo di sabotaggio trasversale, a 360 gradi».
E' il passaggio sull'intenzione del Pd di votare a ottobre che innesca il botta e risposta con Bersani. Berlusconi avverte che il voto a ottobre è un'eventualità da non scartare, potrebbe volerlo il Pd per garantirsi la vittoria proprio con il porcellum. «Il Pd ha dato una parola e la mantiene. Se Berlusconi ha un'altra idea non ce la attribuisca», ribatte Bersani attribuendo invece al Cav. la voglia delle urne. Ovvio che qualcuno bluffa, ma si parlerebbe così tanto di elezioni anticipate a ottobre se nessuno che ci stesse facendo un pensierino? Comunque, in caso di elezioni a ottobre la sinistra, con l'attuale legge elettorale, «può vincere», avverte Berlusconi. Ecco allora che è fondamentale che i moderati si presentino insieme: «Bisogna unire i moderati», la parola d'ordine. In un partito unico, oppure almeno in una confederazione, puntualizza Cicchitto.
Dichiarazioni che innescano una nuova puntata della telenovela dei "moderati". Tutta la politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è ossessionata da formule vuote di contenuti. Ci mancava però che fosse Casini a puntare l'indice... il tipico caso di bue che dà del cornuto all'asino. Con impareggiabile faccia tosta Casini ha risposto a Berlusconi che «l'unità dei moderati si fa su cose concrete, non su nominalismi, sui programmi e su un'idea del Paese. Se pensiamo all'uso del termine moderati in questi anni vediamo che è stato molto abusato». Sì, si tratta dello stesso Casini che ha dedicato gli ultimi anni, se non la sua intera carriera politica, alla formula del "Grande Centro", da riempire con i cosiddetti "moderati".
Berlusconi infine corregge parzialmente il tiro sull'improvviso innamoramento per Hollande nel Pdl («non ci auguriamo la vittoria della sinistra»), ma anch'egli avvalora la tesi secondo cui con il candidato socialista all'Eliseo la Merkel sarebbe costretta a più miti consigli, ad accettare di allentare le politiche di rigore. D'altra parte, il Cav. ricorda di essersi sempre opposto «alle proposte della signora Merkel», perché «non si può morire di rigore». Peccato che né i tedeschi né la Bce ci abbiano imposto di impiccarci alla più recessiva delle ricette di austerity: solo tasse senza tagli alla spesa né vere riforme.
Dulcis in fundo, un post che potrebbe preludere alla discesa in campo di Oscar Giannino.
E mentre il viceministro Grilli interviene per stoppare sul nascere false aspettative («tagliare le tasse non è possibile») dopo l'allarme pressione fiscale lanciato ieri dalla Corte dei Conti, il governatore della Bce Mario Draghi assicura che la maxi-iniezione di liquidità della Bce nel sistema funzionerà: i prestiti triennali alle banche sono stati studiati apposta «per scongiurare una stretta creditizia» e si dice certo che «in ultima analisi gioveranno all'economia reale». Per Draghi la causa della risalita degli spread non sta nell'eccesso delle politiche di austerità che frenano la crescita, bensì nell'allentarsi della determinazione dei governi nell'attuare le riforme non appena le tensioni sul debito si attenuano.
Via libera "in parallelo" dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato al Def, ma la bozza di risoluzione di maggioranza in via di stesura alla Camera per la discussione di giovedì contiene impegni gravosi e quasi provocatori per il governo: destinare le risorse derivanti dalla spending review e dalla lotta all'evasione in via prioritaria alla riduzione della pressione fiscale; elaborare un piano straordinario di dismissioni del patrimonio pubblico; adoperarsi in sede Ue perché la Bce diventi prestatore di ultima istanza. Un cambiamento dello statuto finora escluso dal premier Monti, in linea con la Merkel.
Berlusconi intanto è tornato a indicare ai suoi la rotta da seguire, parlando ai coordinatori provinciali e regionali del Pdl. Primo, l'acronimo Pdl «non suscita emozione», quindi, al prossimo Congresso si cambia nome. Ma tranquilli: stesso partito, stesse persone, stesse idee. Secondo, «proporremo a tutti i partiti moderati una confederazione con la possibilità di mantenere la propria sigla e di unirsi a noi». Terzo, viva Alfano, il Cav. avrebbe cambiato idea: al segretario ora riconosce «quel quid in più che solo lui ha e di cui c'è bisogno». Quarto, «stiamo lavorando con la sinistra» per cambiare «l'architettura istituzionale» (con quella attuale «neanche il più bravo» potrebbe incidere) e la legge elettorale. Sulla prima l'accordo ci sarebbe, sulla seconda quasi: si va verso il modello tedesco. Ma anche quasi no, perché il porcellum è duro a morire e ancora tenta qualcuno. Trattive rinviate a dopo le amministrative e Casini (per il quale è vitale una nuova legge) denuncia «un tentativo di sabotaggio trasversale, a 360 gradi».
E' il passaggio sull'intenzione del Pd di votare a ottobre che innesca il botta e risposta con Bersani. Berlusconi avverte che il voto a ottobre è un'eventualità da non scartare, potrebbe volerlo il Pd per garantirsi la vittoria proprio con il porcellum. «Il Pd ha dato una parola e la mantiene. Se Berlusconi ha un'altra idea non ce la attribuisca», ribatte Bersani attribuendo invece al Cav. la voglia delle urne. Ovvio che qualcuno bluffa, ma si parlerebbe così tanto di elezioni anticipate a ottobre se nessuno che ci stesse facendo un pensierino? Comunque, in caso di elezioni a ottobre la sinistra, con l'attuale legge elettorale, «può vincere», avverte Berlusconi. Ecco allora che è fondamentale che i moderati si presentino insieme: «Bisogna unire i moderati», la parola d'ordine. In un partito unico, oppure almeno in una confederazione, puntualizza Cicchitto.
Dichiarazioni che innescano una nuova puntata della telenovela dei "moderati". Tutta la politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è ossessionata da formule vuote di contenuti. Ci mancava però che fosse Casini a puntare l'indice... il tipico caso di bue che dà del cornuto all'asino. Con impareggiabile faccia tosta Casini ha risposto a Berlusconi che «l'unità dei moderati si fa su cose concrete, non su nominalismi, sui programmi e su un'idea del Paese. Se pensiamo all'uso del termine moderati in questi anni vediamo che è stato molto abusato». Sì, si tratta dello stesso Casini che ha dedicato gli ultimi anni, se non la sua intera carriera politica, alla formula del "Grande Centro", da riempire con i cosiddetti "moderati".
Berlusconi infine corregge parzialmente il tiro sull'improvviso innamoramento per Hollande nel Pdl («non ci auguriamo la vittoria della sinistra»), ma anch'egli avvalora la tesi secondo cui con il candidato socialista all'Eliseo la Merkel sarebbe costretta a più miti consigli, ad accettare di allentare le politiche di rigore. D'altra parte, il Cav. ricorda di essersi sempre opposto «alle proposte della signora Merkel», perché «non si può morire di rigore». Peccato che né i tedeschi né la Bce ci abbiano imposto di impiccarci alla più recessiva delle ricette di austerity: solo tasse senza tagli alla spesa né vere riforme.
Dulcis in fundo, un post che potrebbe preludere alla discesa in campo di Oscar Giannino.
Senti chi parla
Tutta la politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è ossessionata da formule vuote di contenuti, ma che sia Casini a puntare l'indice... è il tipico caso di bue che dà del cornuto all'asino. Rispondendo a Berlusconi che aveva auspicato per l'ennesima volta l'unità dei "moderati", e quindi un'alleanza elettorale con l'Udc, Casini ha risposto con impareggiabile faccia tosta che «l'unità dei moderati si fa su cose concrete, non su nominalismi, sui programmi e su una idea del Paese. Se pensiamo all'uso del termine moderati in questi anni vediamo che è stato molto abusato». Eh già, perché cos'è l'operazione a cui Casini ha dedicato gli ultimi anni, se non la sua intera carriera politica? Cos'è questo "partito della Nazione", o comunque dovesse chiamarsi, se non una vuota formula da riempire con i cosiddetti "moderati"?
Sull'abuso del termine quello che avevo da dire l'ho scritto qui.
Sull'abuso del termine quello che avevo da dire l'ho scritto qui.
Moderato a chi?!
Un appello al mondo politico e giornalistico: bandire il termine "moderati" dal dibattito politico. Uno degli orrori lessicali che la decadenza della politica italiana ha prodotto negli ultimi anni è proprio la parola "moderati", con la quale ormai si indica la composita area del centro-centrodestra. Non c'è esponente politico o partito di quell'area - su tutti Udc e Pdl - che non proclami come obiettivo quello di «riunire i moderati». E non perdono occasione per ribadirlo ossessivamente. Anzi, è aperta una vera e propria lotta senza esclusione di colpi tra i partiti e i leader che ambiscono ad intestarsi la titolarità e la guida dell'operazione. Probabilmente mai nella storia della dottrina politica una definizione fu così vuota di significato.
(...)
In un'epoca in cui è sempre più difficile affidarsi alle categorie destra-sinistra per interpretare la nostra realtà politica, lo è a maggior ragione definire una via di mezzo tra di esse. Più che destra-sinistra la dicotomia "più Stato-meno Stato" sembra più idonea a identificare la visione distintiva delle diverse proposte che si muovono nel panorama politico. E nella gestione di due fondamentali variabili di finanza pubblica e politica economica, in Italia, storicamente, coloro che si definiscono "moderati" si sono rivelati degli estremisti: estremisti della spesa pubblica e della tassazione.
La sgradevole sensazione che ci assale di fronte all'abuso del termine "moderati", al moltiplicarsi delle alchimie politiche per dar vita a sempre nuovi contenitori per riunirli sotto un unico tetto politico, e agli spazi mediatici che queste operazioni occupano, è che si tratti di dissimulare uno spaventoso vuoto di contenuti ideali e programmatici. Un termine dietro il quale si nasconde abilmente un ceto politico malato di indecisione, immobilismo e opportunismo.
La centralità nello schieramento politico non ha così lo scopo di "moderare" le diverse istanze, ma di mantenere per sé una rendita di posizione, e di potere, derivante dall'arte del compromesso "a prescindere". Tale strumentalità nell'uso del termine "moderati" è accentuata da un'anomalia prettamente italiana. Nei sistemi politici occidentali, proporzionali o maggioritari, esistono i "moderati", i centristi. Ma si tratta di aree e singole personalità che convivono all'interno delle grandi forze politiche del Paese, una di centrodestra e una di centrosinistra; che ne moderano le proposte; che svolgono la funzione di spingerle a sfidarsi per la conquista del centro dell'elettorato, cioè degli elettori meno schierati e meno ideologici. L'ossessione dei nostri moderati, invece, è costituire un presidio partitico in cui il centro dell'elettorato possa stabilmente riconoscersi, per godere di una specie di delega in bianco e restare sempre al governo.
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(...)
In un'epoca in cui è sempre più difficile affidarsi alle categorie destra-sinistra per interpretare la nostra realtà politica, lo è a maggior ragione definire una via di mezzo tra di esse. Più che destra-sinistra la dicotomia "più Stato-meno Stato" sembra più idonea a identificare la visione distintiva delle diverse proposte che si muovono nel panorama politico. E nella gestione di due fondamentali variabili di finanza pubblica e politica economica, in Italia, storicamente, coloro che si definiscono "moderati" si sono rivelati degli estremisti: estremisti della spesa pubblica e della tassazione.
La sgradevole sensazione che ci assale di fronte all'abuso del termine "moderati", al moltiplicarsi delle alchimie politiche per dar vita a sempre nuovi contenitori per riunirli sotto un unico tetto politico, e agli spazi mediatici che queste operazioni occupano, è che si tratti di dissimulare uno spaventoso vuoto di contenuti ideali e programmatici. Un termine dietro il quale si nasconde abilmente un ceto politico malato di indecisione, immobilismo e opportunismo.
La centralità nello schieramento politico non ha così lo scopo di "moderare" le diverse istanze, ma di mantenere per sé una rendita di posizione, e di potere, derivante dall'arte del compromesso "a prescindere". Tale strumentalità nell'uso del termine "moderati" è accentuata da un'anomalia prettamente italiana. Nei sistemi politici occidentali, proporzionali o maggioritari, esistono i "moderati", i centristi. Ma si tratta di aree e singole personalità che convivono all'interno delle grandi forze politiche del Paese, una di centrodestra e una di centrosinistra; che ne moderano le proposte; che svolgono la funzione di spingerle a sfidarsi per la conquista del centro dell'elettorato, cioè degli elettori meno schierati e meno ideologici. L'ossessione dei nostri moderati, invece, è costituire un presidio partitico in cui il centro dell'elettorato possa stabilmente riconoscersi, per godere di una specie di delega in bianco e restare sempre al governo.
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Saturday, April 21, 2012
Il predellino di Pier, ma nessuno muore dalla voglia di salirci
Un nuovo soggetto politico che nasce con l'intenzione di mettere insieme due delle etichette politiche più abusate, vuote e ormai insignificanti della nostra politica - moderati e riformisti - non parte col piede giusto.
Niente di nuovo, la nascita del Terzo polo come soggetto unitario era annunciata.
Ma il perché di questa accelerazione va rintracciato nel particolare momento politico. Si tratta infatti di cominciare a dare le ultime spallate al vecchio centrodestra prima che il quadro cambi: con la Lega alle corde, Formigoni piuttosto inguaiato, bisogna disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica. La mossa infatti ha subito provocato uno smottamento, per la verità atteso da tempo e ovviamente concordato con i vertici Udc: Pisanu e Dini, con 27 senatori (non tutti però disposti ad archiviare il Pdl), firmano un documento in cui si chiede di andare «oltre il Pdl».
Il Pdl, seppure non si possa ancora dire che sia in ripresa, alcuni segnali di vita li sta dando: parla di lavoro, tasse, debito, crescita, insomma è tornato ad occuparsi di cose concrete, dell'"arrosto". E persino con qualche successo: modifiche alla riforma del lavoro in asse con le imprese; rateizzazione dell'Imu e odg per renderla "una tantum". Ed è proprio questo ritrovato protagonismo del Pdl, di Alfano in particolare, che deve aver convinto Casini per l'accelerazione. Quello delle proposte, degli emendamenti ai testi del governo, dell'incalzare il premier Monti, è un campo di gioco in cui il Terzo polo al momento, per il suo incondizionato appoggio all'esecutivo, non può toccar palla. Ecco quindi che i tre "amigos", con la sponda di Pisanu, hanno tirato il fumogeno nel campo avversario, spostando l'attenzione dai contenuti, con i quali il Pdl si stava rilanciando, ai contenitori.
Casini è ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso. Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli?
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Niente di nuovo, la nascita del Terzo polo come soggetto unitario era annunciata.
Ma il perché di questa accelerazione va rintracciato nel particolare momento politico. Si tratta infatti di cominciare a dare le ultime spallate al vecchio centrodestra prima che il quadro cambi: con la Lega alle corde, Formigoni piuttosto inguaiato, bisogna disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica. La mossa infatti ha subito provocato uno smottamento, per la verità atteso da tempo e ovviamente concordato con i vertici Udc: Pisanu e Dini, con 27 senatori (non tutti però disposti ad archiviare il Pdl), firmano un documento in cui si chiede di andare «oltre il Pdl».
Il Pdl, seppure non si possa ancora dire che sia in ripresa, alcuni segnali di vita li sta dando: parla di lavoro, tasse, debito, crescita, insomma è tornato ad occuparsi di cose concrete, dell'"arrosto". E persino con qualche successo: modifiche alla riforma del lavoro in asse con le imprese; rateizzazione dell'Imu e odg per renderla "una tantum". Ed è proprio questo ritrovato protagonismo del Pdl, di Alfano in particolare, che deve aver convinto Casini per l'accelerazione. Quello delle proposte, degli emendamenti ai testi del governo, dell'incalzare il premier Monti, è un campo di gioco in cui il Terzo polo al momento, per il suo incondizionato appoggio all'esecutivo, non può toccar palla. Ecco quindi che i tre "amigos", con la sponda di Pisanu, hanno tirato il fumogeno nel campo avversario, spostando l'attenzione dai contenuti, con i quali il Pdl si stava rilanciando, ai contenitori.
Casini è ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso. Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli?
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Thursday, April 19, 2012
La giornata: cresce lo scetticismo sulla ricetta Monti, e intanto Casini sale sul suo predellino
Le stime fin troppo ottimistiche sui conti pubblici (con tanto di nuovo spread Italia-Grecia sui suicidi) non bastano. Ormai lo scetticismo sull'operato del governo dei tecnici si diffonde, all'estero come all'interno. Il Wall Street Journal non abbocca e titola che «l'Italia viene meno all'impegno» del pareggio di bilancio nel 2013. Ovvio, il quotidiano Usa ignora il «benchmark» tutto politico di pareggio di bilancio su cui si sono accordati i Paesi Ue. Più generosi i grandi giornali di casa nostra, con un'eccezione: La Stampa, con un duro editoriale di Luca Ricolfi, che si dice colpito dalla «completa mancanza di concretezza» della conferenza stampa di ieri, da «un linguaggio "ottativo" che meriterebbe di essere studiato già solo per l'audacia con cui ibrida due mostri del nostro tempo, il paludato gergo della burocrazia europea e i manifesti elettorali dei partiti». E con un'intera pagina di critiche da parte di economisti di diverso orientamento.
Le statistiche, d'altra parte, anche quelle di oggi sugli ordinativi industriali – a febbraio -2,5% sul mese precedente e -13,2% su base annua – continuano a prefigurare una recessione ben più acuta di quella stimata dal nostro governo (-1,2%), più vicina alle previsioni del Fmi (-1,9%). Nel frattempo Piazza affari perde un altro 2% e lo spread torna a 400.
E' questo scetticismo che si sta diffondendo la causa della debolezza politica di Monti, le cui tirate d'orecchie ai partiti non sembrano sortire grandi effetti.
C'è grande fermento - si fa per dire ovviamente - sul piano politico. Nonostante la benedizione del professore, le quotazioni della Grande Coalizione sono molto in ribasso. Guarda caso appena Giuliano Ferrara ha ufficialmente sposato «l'unità nazionale» (si scherza). La formula "ABC" «non credo che sia assolutamente una prospettiva politica» per il 2013, dice Bersani a Radio anch'io. Parole molto meno significative di quanto possano apparire. Il senso è che alle politiche ognuno andrà per conto suo - questo è ovvio - ma dopo il voto non c'è una chiusura esplicita.
Per il Pdl la luna di miele con Monti è finita da un pezzo. Il partito è all'offensiva sulle tasse (con i "ya basta!" di Alfano): ottenuta la rateizzazione dell'Imu riesce a far accogliere dal governo un odg per renderla anche "una tantum", ma con la formula «il governo si impegna a valutare l'opportunità di...». «Si impegnerà per trovare risorse alternative e noi lo aiuteremo, evitando buchi di bilancio», assicura Alfano. Poco più di un contentino insomma. Ma i dati economici non confortanti spingono il Pdl a smuovere le acque in cerca di recuperare il rapporto con i propri elettori. All'attivismo del Pdl risponde Casini: ieri a Ottoemezzo ha sparigliato sul finanziamento pubblico ai partiti (facendo sua la proposta Capaldo) e lanciato il "Partito della Nazione" (o come si chiamerà), al cui interno ci sarà anche qualche ministro tecnico, fa sapere sibillino.
Oggi dalle parole ai fatti: ha dato il via all'azzeramento dei vertici dell'Udc in vista della nuova formazione politica, che manco a dirlo si pone l'obiettivo di riunire il campo dei moderati. La mossa provoca subito uno smottamento, da tempo atteso, nel Pdl: Pisanu con 27 senatori, tra cui Dini (il nuovo che avanza), chiede di andare «oltre il Pdl», per partecipare ad «un nuovo movimento liberaldemocratico, laico e cattolico».
Insomma, abbiamo capito che bisogna «unire i moderati», ora bisogna solo decidere chi si intesta la guida dell'operazione, chi ingloba chi. E qui c'è la ressa tra Casini e il Pdl. Ma nessuno sembra ancora aver capito che i cosiddetti "moderati", o meglio il centrodestra non si unisce con operazioni tra apparati; legge elettorale permettendo, si unisce, o si divide, nelle urne, convincendo gli elettori. Il Pdl s'era appena rimesso a parlare - persino con qualche successo - di lavoro, tasse, crescita, insomma ad occuparsi davvero dell'"arrosto", che subito i tre amigos (Casini con i due zombie Fini e Rutelli) e Pisanu hanno tirato il fumogeno. Il momento sembra propizio per dare l'ultima spallata al vecchio centrodestra: la Lega alle corde, Formigoni ha altri problemi, c'è da disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica.
E' una dura lotta per la sopravvivenza quella dei vecchi ceti politici, che rischiano di essere spazzati via da nuove offerte. Casini resta il più furbo (il che non significa il vincente): ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico pensa di giocare una sua partita personale, quindi cerca di preparare un partito nuovo di zecca, ovviamente grancoalizionista, erede dell'esperienza montiana, pronto ad accogliere tutti. Ma proprio tutti, l'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso (al ribasso, per carità). E poi su al Quirinale.
Ma siamo sicuri che i ministri tecnici interessati, o Montezemolo, che i tre amigos del Terzo polo corteggiano da sempre, se e quando scenderanno in campo vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? Che li vorranno come "padrini" politici?
Le statistiche, d'altra parte, anche quelle di oggi sugli ordinativi industriali – a febbraio -2,5% sul mese precedente e -13,2% su base annua – continuano a prefigurare una recessione ben più acuta di quella stimata dal nostro governo (-1,2%), più vicina alle previsioni del Fmi (-1,9%). Nel frattempo Piazza affari perde un altro 2% e lo spread torna a 400.
E' questo scetticismo che si sta diffondendo la causa della debolezza politica di Monti, le cui tirate d'orecchie ai partiti non sembrano sortire grandi effetti.
C'è grande fermento - si fa per dire ovviamente - sul piano politico. Nonostante la benedizione del professore, le quotazioni della Grande Coalizione sono molto in ribasso. Guarda caso appena Giuliano Ferrara ha ufficialmente sposato «l'unità nazionale» (si scherza). La formula "ABC" «non credo che sia assolutamente una prospettiva politica» per il 2013, dice Bersani a Radio anch'io. Parole molto meno significative di quanto possano apparire. Il senso è che alle politiche ognuno andrà per conto suo - questo è ovvio - ma dopo il voto non c'è una chiusura esplicita.
Per il Pdl la luna di miele con Monti è finita da un pezzo. Il partito è all'offensiva sulle tasse (con i "ya basta!" di Alfano): ottenuta la rateizzazione dell'Imu riesce a far accogliere dal governo un odg per renderla anche "una tantum", ma con la formula «il governo si impegna a valutare l'opportunità di...». «Si impegnerà per trovare risorse alternative e noi lo aiuteremo, evitando buchi di bilancio», assicura Alfano. Poco più di un contentino insomma. Ma i dati economici non confortanti spingono il Pdl a smuovere le acque in cerca di recuperare il rapporto con i propri elettori. All'attivismo del Pdl risponde Casini: ieri a Ottoemezzo ha sparigliato sul finanziamento pubblico ai partiti (facendo sua la proposta Capaldo) e lanciato il "Partito della Nazione" (o come si chiamerà), al cui interno ci sarà anche qualche ministro tecnico, fa sapere sibillino.
Oggi dalle parole ai fatti: ha dato il via all'azzeramento dei vertici dell'Udc in vista della nuova formazione politica, che manco a dirlo si pone l'obiettivo di riunire il campo dei moderati. La mossa provoca subito uno smottamento, da tempo atteso, nel Pdl: Pisanu con 27 senatori, tra cui Dini (il nuovo che avanza), chiede di andare «oltre il Pdl», per partecipare ad «un nuovo movimento liberaldemocratico, laico e cattolico».
Insomma, abbiamo capito che bisogna «unire i moderati», ora bisogna solo decidere chi si intesta la guida dell'operazione, chi ingloba chi. E qui c'è la ressa tra Casini e il Pdl. Ma nessuno sembra ancora aver capito che i cosiddetti "moderati", o meglio il centrodestra non si unisce con operazioni tra apparati; legge elettorale permettendo, si unisce, o si divide, nelle urne, convincendo gli elettori. Il Pdl s'era appena rimesso a parlare - persino con qualche successo - di lavoro, tasse, crescita, insomma ad occuparsi davvero dell'"arrosto", che subito i tre amigos (Casini con i due zombie Fini e Rutelli) e Pisanu hanno tirato il fumogeno. Il momento sembra propizio per dare l'ultima spallata al vecchio centrodestra: la Lega alle corde, Formigoni ha altri problemi, c'è da disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica.
E' una dura lotta per la sopravvivenza quella dei vecchi ceti politici, che rischiano di essere spazzati via da nuove offerte. Casini resta il più furbo (il che non significa il vincente): ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico pensa di giocare una sua partita personale, quindi cerca di preparare un partito nuovo di zecca, ovviamente grancoalizionista, erede dell'esperienza montiana, pronto ad accogliere tutti. Ma proprio tutti, l'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso (al ribasso, per carità). E poi su al Quirinale.
Ma siamo sicuri che i ministri tecnici interessati, o Montezemolo, che i tre amigos del Terzo polo corteggiano da sempre, se e quando scenderanno in campo vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? Che li vorranno come "padrini" politici?
Sunday, August 12, 2007
Il partito della responsabilità e del merito
L'argomento principe di tutte le ipotesi di rifare la Dc - sogno che da sempre inseguono l'Udc di Casini, l'Udeur di Mastella e altre schegge del mondo cattolico, è il «postulato secondo cui più si è moderati e più si è riformisti, meno si è moderati e più si è ostili alle riforme». Peccato che sia un'affermazione falsa, spiega oggi Luca Ricolfi su La Stampa.
L'immobilismo della politica italiana, che non riesce a dare al paese le risposte che servono in termini di riforme, è senz'altro dovuto ai diversi fattori di blocco rappresentati all'interno di ciascuna delle due coalizioni da partiti estremisti che esercitano un forte potere di ricatto. Tuttavia, la soluzione non va cercata in un partito moderato di centro che faccia da ago della bilancia, cioè restringendo nelle mani di un solo partito tutto il potere di ricatto.
«Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell'avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l'essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l'essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il "partito della spesa" che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell'azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l'ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire "risorse" ai propri protetti».
Infatti, non è che l'Udc o l'Udeur si siano particolarmente distinti per coraggio riformatore, su Alitalia, o quando gli statali pretendono più soldi e i forestali della Calabria il posto fisso, o quando le proprie clientele reclamano "risorse". Adesso pare che dopo averle ostacolate per un quinquennio di governo, l'Udc sia favorevole alle liberalizzazioni. Eppure, Ricolfi cita un'inchiesta di Franco Bechis secondo la quale a due terzi della legislatura scorsa, le proposte di legge dell'Udc, se approvate, «sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro». Eppure, il federalismo fiscale e le liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi), osserva, «sono difese innanzitutto da partiti tutt'altro che moderati, come la Lega e i Radicali».
Purtroppo «l'attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi» accomuna post-comunisti, ex fascisti e neo-democristiani. «Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l'Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile "risposta" del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell'Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese», ma che «non hanno voluto prendersi i propri rischi».
Il guaio è che in Italia siamo convinti che l'identità di un partito sia determinata dal suo nome, dalla tradizione politico-culturale cui si richiama (spesso abusivamente), da concetti astratti come autorità, libertà, giustizia o solidarietà, e più ne ha di altisonanti più ne metta.
Quindi, definire un partito di "centro", "moderato", e richiamarsi ai valori "cattolici", sembra sufficiente per poter attrarre i voti al centro dell'elettorato. Ma quando si dice che le elezioni ormai, nelle democrazie post-ideologiche, si vincono "al centro", non s'intende un luogo, un posizionamento fisico tra due coalizioni, tra due ali estreme, o tra tutti i partiti, per cui le forze politiche fanno a spallatte, fanno esercizi di equilibrismo per farsi vedere posizionati più al centro degli altri, nel senso di "in mezzo".
L'identità di un partito si definisce per le cose che propone di fare al governo del paese. Questo i promotori del Partito democratico, e chi li critica in nome di un non meglio precisato socialismo, come Macaluso e gli autoconvocati di Bertinoro, sembrano ancora non averlo capito, o gli fa comodo fingere per coprire il loro vuoto culturale e progettuale.
Le elezioni si vincono "al centro", ma possono vincerle anche partiti posizionati a destra o a sinistra lungo lo spettro delle forze rappresentate in Parlamento. A patto che si dimostrino capaci di riconoscere il valore sociale della responsabilità individuale e della ricerca del successo personale come migliori strumenti del successo collettivo della nazione, e di decidere e governare rispondendo alle esigenze dei ceti medi e produttivi, di quel centro pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo. Blair, da sinistra, è stato in grado di farlo senza appoggiarsi a partiti di centro, e poco importa sapere se sia socialista o meno. Di certo non è stato moderato.
Il nostro problema, conclude Ricolfi, è che «sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l'imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Come molti italiani, neanch'io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c'è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c'è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale».
L'immobilismo della politica italiana, che non riesce a dare al paese le risposte che servono in termini di riforme, è senz'altro dovuto ai diversi fattori di blocco rappresentati all'interno di ciascuna delle due coalizioni da partiti estremisti che esercitano un forte potere di ricatto. Tuttavia, la soluzione non va cercata in un partito moderato di centro che faccia da ago della bilancia, cioè restringendo nelle mani di un solo partito tutto il potere di ricatto.
«Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell'avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l'essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l'essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il "partito della spesa" che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell'azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l'ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire "risorse" ai propri protetti».
Infatti, non è che l'Udc o l'Udeur si siano particolarmente distinti per coraggio riformatore, su Alitalia, o quando gli statali pretendono più soldi e i forestali della Calabria il posto fisso, o quando le proprie clientele reclamano "risorse". Adesso pare che dopo averle ostacolate per un quinquennio di governo, l'Udc sia favorevole alle liberalizzazioni. Eppure, Ricolfi cita un'inchiesta di Franco Bechis secondo la quale a due terzi della legislatura scorsa, le proposte di legge dell'Udc, se approvate, «sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro». Eppure, il federalismo fiscale e le liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi), osserva, «sono difese innanzitutto da partiti tutt'altro che moderati, come la Lega e i Radicali».
Purtroppo «l'attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi» accomuna post-comunisti, ex fascisti e neo-democristiani. «Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l'Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile "risposta" del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell'Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese», ma che «non hanno voluto prendersi i propri rischi».
Il guaio è che in Italia siamo convinti che l'identità di un partito sia determinata dal suo nome, dalla tradizione politico-culturale cui si richiama (spesso abusivamente), da concetti astratti come autorità, libertà, giustizia o solidarietà, e più ne ha di altisonanti più ne metta.
Quindi, definire un partito di "centro", "moderato", e richiamarsi ai valori "cattolici", sembra sufficiente per poter attrarre i voti al centro dell'elettorato. Ma quando si dice che le elezioni ormai, nelle democrazie post-ideologiche, si vincono "al centro", non s'intende un luogo, un posizionamento fisico tra due coalizioni, tra due ali estreme, o tra tutti i partiti, per cui le forze politiche fanno a spallatte, fanno esercizi di equilibrismo per farsi vedere posizionati più al centro degli altri, nel senso di "in mezzo".
L'identità di un partito si definisce per le cose che propone di fare al governo del paese. Questo i promotori del Partito democratico, e chi li critica in nome di un non meglio precisato socialismo, come Macaluso e gli autoconvocati di Bertinoro, sembrano ancora non averlo capito, o gli fa comodo fingere per coprire il loro vuoto culturale e progettuale.
Le elezioni si vincono "al centro", ma possono vincerle anche partiti posizionati a destra o a sinistra lungo lo spettro delle forze rappresentate in Parlamento. A patto che si dimostrino capaci di riconoscere il valore sociale della responsabilità individuale e della ricerca del successo personale come migliori strumenti del successo collettivo della nazione, e di decidere e governare rispondendo alle esigenze dei ceti medi e produttivi, di quel centro pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo. Blair, da sinistra, è stato in grado di farlo senza appoggiarsi a partiti di centro, e poco importa sapere se sia socialista o meno. Di certo non è stato moderato.
Il nostro problema, conclude Ricolfi, è che «sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l'imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Come molti italiani, neanch'io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c'è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c'è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale».
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