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Thursday, May 10, 2012

La giornata: Merkel tiene duro e Monti spera in un po' di spesa targata Ue

Nei confronti della Grecia non è dura solo la Germania, ma anche il meno austero presidente della Commissione Ue Barroso (favorevole ai project bond): rispetto per la democrazia greca sì, ma anche per gli altri 16 parlamenti nazionali che hanno approvato il programma di salvataggio. L'Ue è come un club, «se un membro non rispetta le regole è meglio che se ne vada, vale per qualsiasi organizzazione, istituzione, o progetto».

Intanto chi voleva una Germania dimessa dopo il successo di Hollande (che intanto come primo atto taglia gli stipendi dei membri del governo e dei manager pubblici) farebbe bene a ricredersi in fretta. La cancelliera Merkel continua a fissare i suoi paletti, e a ribadire l'intransigenza tedesca, in vista delle prossime complicate trattative su come rilanciare la crescita nell'Eurozona: «Abbiamo parlato tanto di Eurobond e di leveraging - dice la cancelliera in Parlamento - tutte queste misure compaiono e scompaiono come strumenti miracolosi, mentre è noto che non sono soluzioni sostenibili». La crisi «non sarà sconfitta in un giorno», avverte, e la risolveremo in solo modo, affrontando le sue cause, «che sono i debiti orrendi e la mancanza di competitività di alcuni Paesi». Risanamento, quindi, e crescita, però basata sulle riforme strutturali e non su pacchetti di spesa. Pare invece che i tedeschi siano più disponibili ad accettare un'inflazione interna più elevata, il 3% anziché il 2, attraverso aumenti salariali, a beneficio indiretto dei Paesi in cui la domanda interna è penalizzata dall'austerity.

Se Monti insiste invece per italianissime deroghe al fiscal compact («nuove iniziative per la crescita senza mettere in discussione la disciplina di bilancio»), la Bce sembra allineata alle posizioni di Berlino: per rilanciare la crescita nell'Eurozona, specie nei Paesi che hanno perso produttività e devono stimolarla, non servono pacchetti di stimolo ma «riforme strutturali incisive». Bisogna «rafforzare la concorrenza nei mercati dei beni e servizi e la capacità di aggiustamento salariale e occupazionale delle imprese», scrive la Bce nel bollettino mensile.

Bella faccia tosta ha il ministro Passera a lamentarsi con l'Ue che «non ha fatto la sua parte», quando il suo governo ha fatto pochino, e male, proprio laddove la Bce esorta i governi ad essere «più ambiziosi».

Quella trascorsa è stata tutto sommato una giornata di relativa calma, ma indubbiamente nei prossimi mesi il rapporto tra Monti e i partiti, soprattutto il Pdl, sarà molto tormentato e non lascerà al governo sufficienti spazi di manovra per ulteriori iniziative legislative.

Monti non manca di far trapelare la sua amarezza per gli attacchi continui e sempre più frequenti, ma in un messaggio al capo dello Stato si dice «determinato a realizzare il mandato» e sicuro che «l'Italia ce la farà». Ma fatto pochino in Italia, con le mani ormai legate e sempre più insofferente, Monti si concentra sulla politica europea. E' a Bruxelles e a Berlino che cerca di attivare qualche leva per la crescita, con un po' di spesa per investimenti autorizzata dall'Ue, sperando di placare il fronte interno.

Nel tentativo di raffreddare le tentazioni di "governicidio" oggi il ministro Passera è intervenuto scaricando sull'Europa la colpa per l'assenza di politiche per la crescita, dicendosi certo che Monti saprà essere ascoltato sulla spesa per gli investimenti, e infine diffondendo un po' d'allarmismo («disagio sociale più ampio di quello che le statistiche dicono, è a rischio la tenuta economica e sociale del Paese»).

E in effetti le stime non fanno che peggiorare, confermando che il governo potrebbe aver sottostimato l'impatto recessivo delle sue misure. Oggi è la volta del Centro Studi di Confindustria, il quale avverte che «in Italia la ripresa si allontana: la domanda interna (specie i consumi) cala più del previsto e l'export ha perso slancio rispetto a qualche mese fa, nonostante il commercio mondiale vada meglio». La disoccupazione ormai sfiora la soglia del 10% e si prevede un calo del Pil nel II trimestre 2012 più accentuato del previsto. Sempre più improbabile il -1,2% previsto dal governo nel Def, mentre comincia ad apparire ottimistico persino il -2% del Fmi.

Sul fronte politico la tentazione di staccare la spina al governo e l'ossessione per l'unità dei cosiddetti "moderati" tornano ad animare il dibattito interno al Pdl. Ma nelle analisi della sconfitta elettorale continua a mancare la causa all'origine di tutti i suoi guai: la drammatica perdita di credibilità agli occhi dei propri elettori non tanto per il sostegno a Monti, ma per aver sistematicamente, per 17 anni, tradito le promesse di cambiamento una volta al governo.

E mentre nel Pdl falchi e colombe si dividono sul sostegno a Monti, si spargono veleni sul segretario e si tira per la giacchetta il Cav, e sulla legge elettorale non si va oltre proporzionale o porcellum corretto con preferenze, Italia Futura macina proprio sui contenuti che una volta portavano al successo Forza Italia e il centrodestra: dopo il manifesto liberista per "meno Stato", l'associazione di Montezemolo si schiera anche per il presidenzialismo e il maggioritario.

Il Pdl sarà anche uscito con le ossa rotte dalle urne, ma l'unico effetto concreto del voto amministrativo per ora è la liquidazione del Terzo polo. Con il Pd sempre più a suo agio nella foto di Vasto, e avendo fallito nel raccogliere i cocci del Pdl, Casini è tornato a giocare in proprio e ha scaricato Fini e Rutelli, sull'orlo della disperazione. Sul lato sinistro, a giudicare dalle punturine di Bersani all'indirizzo dell'esecutivo, sugli esodati e sugli incomprensibili «ritardi» nel «far girare un po' di liquidità per le imprese», il risultato delle amministrative non dev'essere stato esaltante nemmeno per il Pd.

Tuesday, May 08, 2012

Si apre una prateria nel centrodestra

A mente fredda, dati alla mano, è possibile farsi un'idea più ponderata di cosa è accaduto in queste elezioni amministrative. Partiamo dai dati. Su 26 comuni capoluogo, 7 sono assegnati al primo turno: 3 al centrosinistra (La Spezia, Pistoia, Brindisi), 3 al centrodestra (Gorizia, Lecce, Catanzaro) e 1 (Verona) alla Lega, anche se l'affermazione di Tosi è personale e la coalizione che lo sostiene è di centrodestra. E' un caso particolare, e per molti versi emblematico, su cui torneremo. Ballottaggio per gli altri 19 comuni capoluogo: solo in 11 di essi il Pdl riesce a portare i propri candidati al secondo turno; l'Udc accede al ballottaggio in 6 comuni, in 4 al posto del Pdl e in 2 al posto del centrosinistra. In due casi ad affrontare il centrosinistra non saranno né Pdl né Udc/Terzo polo, ma a Parma il movimento di Grillo e a Belluno un'aggregazione di liste civiche.

Il tracollo del Pdl è innegabile, aggravato da alcune scelte suicide come a Verona e a Palermo. In alcune città lo troviamo su percentuali scioccanti, ridotto ai minimi termini: a Verona passa dal 28% del 2007 al 5%; a Genova dal 29 al 9; a Parma dal 47 al 5; a Palermo dal 25 all'8. In altri comuni capoluogo invece tiene, con percentuali intorno al 20%, e riesce a portare i propri candidati ai ballottaggi. Evidentemente paga la corsa in solitaria - mentre i risultati modesti del Pd si confondono all'interno di ampie e variabili coalizioni di centrosinistra - e certamente l'appoggio al governo Monti. Ma direi che paga soprattutto il fallimento dell'esperienza di governo. I suoi elettori gli hanno messo in conto non solo l'ultima parentesi, dal 2008 al 2011, bensì tutti i 17 anni dell'era berlusconiana, durante i quali è stata a più riprese tradita la promessa di cambiamento, economico e istituzionale, la cosiddetta "rivoluzione liberale", su cui le coalizioni berlusconiane avevano raccolto i loro consensi.

Recuperare la credibilità sarà difficile, ma il Pdl ha di fronte a sé una sola strada: una solenne operazione verità e "mea culpa" con i propri elettori e facce nuove. Dovrà dimostrare con i fatti che al suo interno c'è piena condivisione sull'errore politico capitale di questi anni: l'aver ceduto ad una politica economica statalista, conservativa, immobilista, l'opposto dello spirito del 1994.

Ma né l'Udc, né il Terzo polo, che come tale non si è nemmeno presentato, sono riusciti a raccogliere i cocci del Pdl, i cui elettori in uscita si sono rifugiati nell'astensione (quasi uno su due). Lo ha riconosciuto lo stesso Casini. Ecco perché l'elettorato di centrodestra appare completamente disarticolato, terreno fertilissimo per una nuova offerta politica che quando si presenterà non solo non chiederà il permesso, ma nemmeno accetterà di farsi accompagnare dalle vecchie facce.

Disfatta anche per la Lega travolta dagli scandali. I suoi elettori in parte sono rimasti a casa in parte hanno scelto Grillo. Ma è esagerato parlare di «boom» del movimento di Grillo, che approfitta dell'astensionismo e avanza raccogliendo voti in uscita dalla Lega (infatti è al nord che va più forte) e dall'Idv. Tranne il caso particolarissimo di Parma (Comune travolto dalle inchieste e commissariato), dove sfiora il 20% e riesce a portare il suo candidato al ballottaggio, si attesta al 10% al centronord, mentre è trascurabile quando non del tutto inesistente al centrosud. Da notare che all'"exploit" ha sicuramente contribuito l'enfasi anti-tasse, anti-Equitalia, anti-Monti e anti-euro del comico genovese nei suoi tour. Ma nemmeno il M5S potrà evitare di affrontare il dilemma del modello partito, non si possono gestire tutti quei voti senza organizzazione. E in quel momento molti nodi verranno al pettine.

Se il centrodestra è disarticolato, il centrosinistra non ha affatto brillato, e al suo interno ancor meno il Pd. La coalizione supera il 50%, o ci va molto vicino, solo quando il candidato sindaco non è del Pd (Genova e Palermo), nelle rosse La Spezia, Piacenza, Lucca e Pistoia, o con l'aiuto dell'Udc e del Terzo polo (Isernia, Brindisi, Taranto). Per il resto, a fronte di un centrodestra disaggregato si attesta su percentuali tra il 30 e il 40%.

Alla luce di questi risultati, se Monti sperava che dopo il voto sarebbe ritornata una certa calma, be', dovrà ricredersi. La finestra per le riforme si è ormai chiusa, con un bilancio piuttosto modesto. I prossimi saranno mesi tormentati, fino alle politiche, con un Pdl nervoso, che non concederà più nulla al professore, e un Pd sempre più smanioso di afferrare il momento e non lasciarsi sfuggire Palazzo Chigi, nel timore che possa ripetersi la beffa del '93-'94.

Monday, May 07, 2012

La giornata: schianto Pdl-Lega, centrodestra disarticolato, il Terzo polo è Grillo. Saranno mesi tormentati per Monti

Terremoto ci aspettavamo e terremoto c'è stato. I dati sono ancora parziali, e molto caratterizzati localmente, ma dalle amministrative quello che emerge è un quadro estremamente frammentato, da far tremare i polsi in vista di elezioni politiche che potrebbero svolgersi con una legge elettorale proporzionale. L'elettorato di centrodestra si è praticamente disarticolato, un terreno di caccia ideale per offerte politiche del tutto nuove. Il Pdl non pervenuto, i suoi elettori sono rimasti in massa a casa. In alcune situazioni è addirittura quasi scomparso, mentre in altre è attorno al 20%, quota di «resistenza», penalizzato dalle divisioni nel centrodestra, ma riesce comunque ad andare ai ballottaggi in 13 comuni capoluogo. Paga la responsabilità del sostegno a Monti? Anche, ma innanzitutto, credo, il fallimento al governo e l'ondata generale di disgusto per i partiti. Anche se gli ultimi passi su tasse e lavoro sono stati incoraggianti, non sarà facile per il Pdl recuperare credibilità.

Parlare di flussi è prematuro, ma la sensazione è che il forte astensionismo tra gli elettori del Pdl e della Lega sia stato meno visibile perché in parte compensato dal movimento di Grillo che ha attratto alle urne nuovi elettori.

Di certo il Terzo polo non è riuscito a raccogliere i cocci del centrodestra. No, non saranno Fini e Casini ad aggregare i "moderati". La Lega si consola a Verona, dove Tosi si conferma al primo turno, ma molti suoi elettori devono aver preferito restare a casa o votare Grillo.

Il Pd può sorridere, certo, i candidati del centrosinistra sono avanti quasi ovunque, ma soprattutto per le disgrazie altrui, per essere rimasto il primo partito a livello nazionale. Perché i suoi candidati non brillano, con tutta la debàcle del centrodestra non vanno oltre il 40%, mentre a sfondare sono solo i volti della sinistra radicale: dopo Pisapia e De Magistris, ecco Doria (Sel) a Genova e Orlando (Idv) a Palermo. A proposito, ora quelli del capoluogo siciliano non sono più voti della mafia ma della ricossa civile, vero?

Saturday, April 21, 2012

Il predellino di Pier, ma nessuno muore dalla voglia di salirci

Un nuovo soggetto politico che nasce con l'intenzione di mettere insieme due delle etichette politiche più abusate, vuote e ormai insignificanti della nostra politica - moderati e riformisti - non parte col piede giusto.

Niente di nuovo, la nascita del Terzo polo come soggetto unitario era annunciata.
Ma il perché di questa accelerazione va rintracciato nel particolare momento politico. Si tratta infatti di cominciare a dare le ultime spallate al vecchio centrodestra prima che il quadro cambi: con la Lega alle corde, Formigoni piuttosto inguaiato, bisogna disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica. La mossa infatti ha subito provocato uno smottamento, per la verità atteso da tempo e ovviamente concordato con i vertici Udc: Pisanu e Dini, con 27 senatori (non tutti però disposti ad archiviare il Pdl), firmano un documento in cui si chiede di andare «oltre il Pdl».

Il Pdl, seppure non si possa ancora dire che sia in ripresa, alcuni segnali di vita li sta dando: parla di lavoro, tasse, debito, crescita, insomma è tornato ad occuparsi di cose concrete, dell'"arrosto". E persino con qualche successo: modifiche alla riforma del lavoro in asse con le imprese; rateizzazione dell'Imu e odg per renderla "una tantum". Ed è proprio questo ritrovato protagonismo del Pdl, di Alfano in particolare, che deve aver convinto Casini per l'accelerazione. Quello delle proposte, degli emendamenti ai testi del governo, dell'incalzare il premier Monti, è un campo di gioco in cui il Terzo polo al momento, per il suo incondizionato appoggio all'esecutivo, non può toccar palla. Ecco quindi che i tre "amigos", con la sponda di Pisanu, hanno tirato il fumogeno nel campo avversario, spostando l'attenzione dai contenuti, con i quali il Pdl si stava rilanciando, ai contenitori.

Casini è ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso. Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli?
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Friday, April 20, 2012

La giornata: spread a 400 e la politica finisce in burlesque; parte Italo e Montezemolo scende

Solo «volatilità» per il viceministro Grilli (questa l'avevamo già sentita...), intanto lo spread è a 400 - e Moody's dice chiaro che siamo già a livelli insostenibili - mentre Piazza affari arresta la caduta (in mattinata si stava avvicinando alla soglia dei 14.000 punti). Ma al Fmi starebbe per arrivare un paracadute da 400 miliardi di dollari dal G20.

La «resa» sul reintegro nei licenziamenti individuali non è servita a molto, la Camusso conferma che lo sciopero generale si farà, ma soprattutto che sull'articolo 18 «la partita è tuttora aperta» e umilia Monti prendendosi il merito del «primo vero e proprio passo indietro del governo».

Intanto anche il Financial Times, dopo il WSJ, bacchetta Monti: deve fare di più per rilanciare la crescita, altrimenti «i mercati continueranno a chiedersi se il Paese riuscirà mai a ripagare il suo debito». Ok, questo lo sappiamo tutti, ma il FT aggiunge anche il "come": tagliare la spesa per tagliare le tasse. Liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro, osserva il quotidiano, «potrebbero avere un effetto sulla crescita ma entrambe non rispondono appieno ai bisogni dell'Italia. Qualsiasi effetto avranno sull'economia si sentirà soltanto a lungo termine». Servono misure immediate: «Il mostruoso settore pubblico italiano e il suo vorace sistema politico consentono risparmi che non andrebbero a colpire la qualità dei servizi pubblici essenziali. Le risorse recuperate potrebbero essere usate per ridurre la pressione fiscale sul Paese, che si prevede toccherà un sorprendente 49% nel 2013». Monti «merita credito» - conclude severamente il FT - «ma la sua agenda economica rischia di rivelarsi non all'altezza».

Sul piano mediatico Berlusconi che si presenta al processo Ruby ruba la scena a tutti gli altri casi: ma sono le battute sulle «gare di burlesque» che campeggiano su tutti i siti, forse per non dover raccontare che i due poliziotti di turno la sera dell'arresto non è che abbiano proprio confermato l'impianto accusatorio della Boccassini, cioè le «pressioni» del premier per rilasciare la ragazza.

Sul piano politico la giornata è dominata dal fumogeno di Casini che ha gettato scompiglio nel campo del Pdl, tanto che ha indotto Alfano a rilanciare promettendo effetti speciali ancora più spettacolari: «Io e Berlusconi annunceremo la più grossa novità che cambierà il corso della politica». Ma dopo la pubblicità...

L'Udc fa sul serio e azzera i vertici. Imbarazzo in Fli e Api per il predellino di Casini (che tanto criticò quello di Berlusconi nel 2007), ma da tempo si sono rassegnati a salirci.

Casini pensa ovviamente ad un contenitore a vocazione "grancoalizionista", promotore o interprete della Grande Coalizione, fiero erede dell'esperienza montiana. Ripete che «Monti non è una parentesi», che «politici e tecnici sono nella stessa barca e devono remare insieme». Per Pd e Pdl «profondo rispetto», per il «senso di responsabilità» dimostrato, ma ora è «auspicabile continuare insieme un percorso di ricostruzione italiana», anche dopo il 2013, perché riformare l'Italia «in profondità» richiederà anni ed è «illusorio pensare che si riapra la fase degli uomini della Provvidenza». «L'operazione-salvataggio» di Monti, ammonisce il leader Udc, «è ancora in corso e nessuno può permettersi di sabotarla». Ci tiene quindi a sottolineare che «la nostra iniziativa e la sua riuscita si misura sulla capacità di rafforzare questo tentativo senza esitazioni». Peccato però che facendo apparire il governo Monti funzionale al suo disegno politico, e i suoi ministri tecnici leader "in sonno" del nuovo partito, rischia di scatenare pericolose tensioni nella maggioranza, di compromettere l'esperienza che si propone di rafforzare e persino di indurre il precipitare verso elezioni a ottobre. Tant'è che il Quirinale non ha mancato di far trapelare la sua irritazione.

Casini è da sempre ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso.

Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? A giudicare da un paio di tweet ironici del direttore di Italia Futura, Andrea Romano, almeno il secondo non ci pensa proprio. Il presidente della Ferrari è sfuggente rispetto ai rumors degli ultimi giorni. A chi gli chiede del suo ingresso in politica risponde «non mi parlate di politica, è come se mi parlate della luna, e oggi la luna non c'è». Però durante il primo viaggio del nuovo treno Italo, fa già sapere che una volta «avviato il servizio, tra qualche tempo, lascerò la presidenza e rimarrò azionista».

Paradossalmente Casini può sperare che ministri tecnici, o lo stesso Montezemolo, si convincano a farsi "cooptare" se resta in vigore la legge elettorale che il leader centrista tanto avversa. La riforma di cui si discute, invece, aprirebbe il campo a nuovi giocatori in proprio. Non ci sarebbe da stupirsi se il più appiattito sostenitore di Monti in realtà, in segreto, stesse accarezzando la speranza di votare a ottobre con questa legge, dando chiaramente la colpa agli altri.

Thursday, April 19, 2012

La giornata: cresce lo scetticismo sulla ricetta Monti, e intanto Casini sale sul suo predellino

Le stime fin troppo ottimistiche sui conti pubblici (con tanto di nuovo spread Italia-Grecia sui suicidi) non bastano. Ormai lo scetticismo sull'operato del governo dei tecnici si diffonde, all'estero come all'interno. Il Wall Street Journal non abbocca e titola che «l'Italia viene meno all'impegno» del pareggio di bilancio nel 2013. Ovvio, il quotidiano Usa ignora il «benchmark» tutto politico di pareggio di bilancio su cui si sono accordati i Paesi Ue. Più generosi i grandi giornali di casa nostra, con un'eccezione: La Stampa, con un duro editoriale di Luca Ricolfi, che si dice colpito dalla «completa mancanza di concretezza» della conferenza stampa di ieri, da «un linguaggio "ottativo" che meriterebbe di essere studiato già solo per l'audacia con cui ibrida due mostri del nostro tempo, il paludato gergo della burocrazia europea e i manifesti elettorali dei partiti». E con un'intera pagina di critiche da parte di economisti di diverso orientamento.

Le statistiche, d'altra parte, anche quelle di oggi sugli ordinativi industriali – a febbraio -2,5% sul mese precedente e -13,2% su base annua – continuano a prefigurare una recessione ben più acuta di quella stimata dal nostro governo (-1,2%), più vicina alle previsioni del Fmi (-1,9%). Nel frattempo Piazza affari perde un altro 2% e lo spread torna a 400.

E' questo scetticismo che si sta diffondendo la causa della debolezza politica di Monti, le cui tirate d'orecchie ai partiti non sembrano sortire grandi effetti.

C'è grande fermento - si fa per dire ovviamente - sul piano politico. Nonostante la benedizione del professore, le quotazioni della Grande Coalizione sono molto in ribasso. Guarda caso appena Giuliano Ferrara ha ufficialmente sposato «l'unità nazionale» (si scherza). La formula "ABC" «non credo che sia assolutamente una prospettiva politica» per il 2013, dice Bersani a Radio anch'io. Parole molto meno significative di quanto possano apparire. Il senso è che alle politiche ognuno andrà per conto suo - questo è ovvio - ma dopo il voto non c'è una chiusura esplicita.

Per il Pdl la luna di miele con Monti è finita da un pezzo. Il partito è all'offensiva sulle tasse (con i "ya basta!" di Alfano): ottenuta la rateizzazione dell'Imu riesce a far accogliere dal governo un odg per renderla anche "una tantum", ma con la formula «il governo si impegna a valutare l'opportunità di...». «Si impegnerà per trovare risorse alternative e noi lo aiuteremo, evitando buchi di bilancio», assicura Alfano. Poco più di un contentino insomma. Ma i dati economici non confortanti spingono il Pdl a smuovere le acque in cerca di recuperare il rapporto con i propri elettori. All'attivismo del Pdl risponde Casini: ieri a Ottoemezzo ha sparigliato sul finanziamento pubblico ai partiti (facendo sua la proposta Capaldo) e lanciato il "Partito della Nazione" (o come si chiamerà), al cui interno ci sarà anche qualche ministro tecnico, fa sapere sibillino.

Oggi dalle parole ai fatti: ha dato il via all'azzeramento dei vertici dell'Udc in vista della nuova formazione politica, che manco a dirlo si pone l'obiettivo di riunire il campo dei moderati. La mossa provoca subito uno smottamento, da tempo atteso, nel Pdl: Pisanu con 27 senatori, tra cui Dini (il nuovo che avanza), chiede di andare «oltre il Pdl», per partecipare ad «un nuovo movimento liberaldemocratico, laico e cattolico».

Insomma, abbiamo capito che bisogna «unire i moderati», ora bisogna solo decidere chi si intesta la guida dell'operazione, chi ingloba chi. E qui c'è la ressa tra Casini e il Pdl. Ma nessuno sembra ancora aver capito che i cosiddetti "moderati", o meglio il centrodestra non si unisce con operazioni tra apparati; legge elettorale permettendo, si unisce, o si divide, nelle urne, convincendo gli elettori. Il Pdl s'era appena rimesso a parlare - persino con qualche successo - di lavoro, tasse, crescita, insomma ad occuparsi davvero dell'"arrosto", che subito i tre amigos (Casini con i due zombie Fini e Rutelli) e Pisanu hanno tirato il fumogeno. Il momento sembra propizio per dare l'ultima spallata al vecchio centrodestra: la Lega alle corde, Formigoni ha altri problemi, c'è da disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica.

E' una dura lotta per la sopravvivenza quella dei vecchi ceti politici, che rischiano di essere spazzati via da nuove offerte. Casini resta il più furbo (il che non significa il vincente): ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico pensa di giocare una sua partita personale, quindi cerca di preparare un partito nuovo di zecca, ovviamente grancoalizionista, erede dell'esperienza montiana, pronto ad accogliere tutti. Ma proprio tutti, l'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso (al ribasso, per carità). E poi su al Quirinale.

Ma siamo sicuri che i ministri tecnici interessati, o Montezemolo, che i tre amigos del Terzo polo corteggiano da sempre, se e quando scenderanno in campo vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? Che li vorranno come "padrini" politici?

Monday, November 14, 2011

Una sfida per tutti


Se «la fronda di Fini è il peccato originale della legislatura», Berlusconi ha sbagliato a non ascoltare quanti a lui vicini suggerirono, già all'indomani della rottura nell'ormai storica Direzione nazionale, di cacciare via tutti dall'Eden e di non farsi logorare. Ma ormai il latte è versato e anche se non c'è mai nulla da festeggiare nella nascita di un governo non legittimato (non in via diretta) dalla volontà popolare, è tuttavia una medicina amara che il Pdl non poteva rifiutarsi di ingoiare. Sì, la forzatura istituzionale è evidente, e assume tratti preoccupanti per la pressione internazionale esercitata a favore dell'ipotesi Monti, ma l'emergenza è innegabile e Berlusconi, i partiti di maggioranza, non sono certo senza peccato. Non s'era mai visto che neanche aperte le consultazioni il premier in pectore fosse già al lavoro. Ci sta che come un pugile frastornato il Pdl abbia faticato a comprendere cosa stesse accadendo nell'ultima settimana e di conseguenza non abbia saputo assumere velocemente una linea netta tra elezioni immediate e sostegno a Monti. Le democrazie, se vogliono funzionare nel mondo di oggi superveloce e globalizzato, devono sempre più somigliare al cda di un'azienda, con simili capacità e rapidità decisionali, altrimenti rischiano di essere commissariate. L'Italia (così come l'Unione europea) è tra gli Stati occidentali meno attrezzati dal punto di vista dei meccanismi istituzionali, troppo farraginosi, ma è un grande tema cui non ci si può sottrarre e di cui le forze politiche devono essere consapevoli. E' comprensibile il fastidio per una soluzione elitaria e tecnocratica, ma intraprendere la strada del "tanto peggio tanto meglio", cedere al populismo anti-mercatista e anti-finanza, come indignados qualsiasi, sarebbe puro autolesionismo per un grande partito di governo come il Pdl.

Certo, la sconfitta politica è innegabile e cocente. Ma pur con le attenuanti generiche di un sistema politico malato di ingovernabilità e di un'aggressione mediatico-giudiziaria senza precedenti, per cui si è distrutta l'immagine del Paese pur di distruggere quella di Berlusconi, non c'è dubbio che la causa prima va individuata nello scarso tasso di riformismo del governo e della maggioranza, che non hanno voluto/saputo somministrare al nostro Paese la cura liberale, che pure era stata promessa fin dal 1994, per le malattie più gravi che ci affliggono: spesa pubblica e pressione fiscale a livelli insostenibili; alto debito; privilegi corporativi.

Nei prossimi mesi il Pdl dovrà sostenere un vero e proprio esame di maturità: dovrà analizzare a fondo limiti e inadeguatezze dal punto di vista liberale e riformatore della propria esperienza di governo; dovrà vigilare rispetto ai rischi e alle trappole che si nascondono nella fase politica che si sta aprendo; il tutto restando unito e senza bocciare apriori il tentativo di Monti, nel 1994 scelto proprio da Berlusconi come commissario europeo. Almeno in teoria, infatti, il presidente della Bocconi è chiamato a realizzare le riforme liberali che il centrodestra non è stato in grado di realizzare e che la sinistra odia. Il Pdl ha in questo un grande vantaggio: al contrario del Pd non ha pregiudiziali ideologiche sulle ricette che la Bce, l'Ue e i mercati ci chiedono – e, non scordiamocelo, che sono anche nel nostro interesse di italiani.

Certo, bisognerà vedere se Monti vorrà e saprà fare quelle riforme, o si rivelerà un nuovo Padoa-Schioppa. Il rischio concreto, com'è già accaduto in passato, è che il governo dei tecnici se la cavi con una patrimoniale subito e faccia leva sulla propria credibilità e sul favorevole atteggiamento dei media nazionali e internazionali per allentare la tensione dei mercati, rimandando le riforme decisive per la crescita (tasse e lavoro), che sono quelle più scomode per la sinistra. Così facendo, dilapiderebbe il suo "momentum" di poche settimane, due/tre mesi al massimo, trovandosi molto presto impantanato, e la ritrovata stabilità italiana sarebbe di nuovo fondata su un'illusione contabile, senza un reale cambiamento nei comportamenti di spesa e nel modello socio-economico. Rispetto a tale prospettiva purtroppo probabile, il Pdl dev'essere però cosciente che è nel suo interesse che Monti riesca sulla base del programma europeo. Perché se riesce, e se quelle ricette dovessero funzionare, a trarne vantaggio in vista delle prossime elezioni sarà la forza politica che con più convinzione l'avrà sostenuto. E oggettivamente il Pdl, più del Pd, è nelle condizioni di appoggiare certe riforme.

Quali i rischi e le trappole che si nascondono in questo cammino? Non è un mistero che le forze centriste guidate da Casini mirano a liquidare il bipolarismo e alla disgregazione del Pdl, per porsi come unico soggetto aggregatore dell'area moderata, con una esclusiva identità democratico-cristiana, marginalizzando il pur imperfetto progetto fusionista che invece è alla base del Pdl. Il Pd, da parte sua, si augura che dall'esperienza comune di appoggio al governo Monti possa finalmente nascere l'alleanza moderati-progressisti contro la destra. Se quindi il governo dei tecnici offrisse l'occasione e i tempi per inseguire simili disegni, che nulla hanno a che fare con l'affrontare l'emergenza finanziaria, per esempio tramite la riforma della legge elettorale, il Pdl dovrà essere pronto a rovesciare il tavolo.

Ma questa nuova fase rappresenta una sfida non solo per il Pdl. Anche per la sinistra, che non avrà più l'alibi di Berlusconi, si dovrà misurare con un governo di professori catto-liberisti, e dovrà finalmente assumersi la responsabilità di una visione e di scelte di merito. Sotto esame però è anche tutto quel mondo intellettuale e accademico che da anni si esercita sui giornali in dotti editoriali e bacchetta la politica per la sua improduttività e i suoi privilegi. Ora i più illustri rappresentanti di quel mondo avranno la possibilità di dimostrare le loro ragioni e il loro valore. E se governare non fosse poi così facile come scrivere editoriali? Già dalla composizione della squadra e dalle prime misure si comprenderà molto delle reali intenzioni e delle chance del governo Monti.

Friday, November 11, 2011

Un solo programma per Monti

Anche su Notapolitica.it

Pare (sottolineo: pare) che Berlusconi e il Pdl abbiano finalmente cominciato a ragionare in modo serio sull'ipotesi Monti, cioè riportando in primo piano la politica, il programma, e lasciando sullo sfondo le ambizioni personali, e che stiano ponendo sul tavolo le condizioni che suggerivo nei post dei giorni scorsi.

Com'era prevedibile, un minuto dopo (in realtà già un minuto prima) l'annuncio delle dimissioni e della non ricandidatura da parte di Berlusconi, è scattato nel Pdl il momento del "ciascuno per sé, Dio per tutti". Ci sarà modo e tempo per analizzare il brutto finale di partita cui in parte lo stesso Berlusconi si è auto-condannato in quest'ultimo anno, le tante occasioni sprecate per rilanciarsi. Ma commetterebbe un grossolano errore il big del partito che si convincesse di potersi salvare singolarmente, del fatto che se la casa comune crolla, sotto le macerie ci restano solo Berlusconi e gli altri suoi competitor interni, e non anche lui stesso. Chi freme per ereditare la baracca ed è in posizione di forza nel partito spinge per il voto, per consolidarsi; chi ambisce alla leadership ma deve ancora costruirla, magari con un incarico prestigioso nel prossimo governo tecnico, spinge per Monti, e dunque per avere un anno di tempo. Ragionando così chiunque sarà ad ereditare, rischia di ereditare le macerie.

In realtà, con in campo un'ipotesi così autorevole e con la quasi certezza che i mercati penalizzerebbero con esiti disastrosi l'incertezza politica di una campagna elettorale in questo momento (con la fondata prospettiva della vittoria di una sinistra in massima parte contraria alla lettera della Bce), il Pdl non può realisticamente permettersi di sottrarsi al confronto. E' un momento di straordinaria emergenza per il Paese. Napolitano e Monti sanno che non tutte le responsabilità sono attribuibili all'operato del governo uscente, né possono permettersi ribaltoni. E il Pdl ha un grande vantaggio davanti agli occhi, che sarebbe un peccato non riuscire a vedere e ad afferrare: al contrario del Pd non ha pregiudiziali ideologiche sulle ricette della lettera della Bce, né sui 39 punti segnalati dall'Ue. Solo che per state of denial, incapacità e debolezza non è riuscito a realizzarle.

Proprio quel programma, e non qualche poltrona, rappresenta oggi una straordinaria polizza d'assicurazione contro i rischi e le trappole che si nascondono dietro un governo tecnico di unità nazionale. Se Monti si impegna ad attuare esclusivamente, ed integralmente, quel programma, allora il Pdl non ha nulla da perdere, non solo a dare il proprio sostegno parlamentare, ma a metterci la faccia. Se la cura Monti avrà effetto, nel 2013 certe impostazioni ideologiche prevalenti a sinistra saranno pressoché bandite, bollate come perdenti. Se invece i cosiddetti "tecnici" cominciano a regalare la patrimoniale, in modo che il Pd possa far digerire la pillola ai propri elettori, si mettono a pescare dalla lettera della Bce solo le cose meno sgradite ai partiti, e magari nel frattempo in Parlamento si ritocca la legge elettorale per liquidare il bipolarismo, o per favorire il progetto dalemiano di alleanza tra Pd e Udc, allora sarebbero clamorosamente contraddette la natura "tecnica" e le ragioni puramente emergenziali dell'unità nazionale.

Sia pure Monti a decidere autonomamente la sua squadra di governo (e lui stesso a scegliere al massimo un solo rappresentante per Pdl, Pd e Terzo polo), ma la scrupolosa attinenza alla lettera della Bce è la misura della serietà dell'operazione. Il punto è proprio questo: se Monti vorrà/saprà fare le riforme liberali o se invece, per propria inclinazione o per le pressioni del Pd, è destinato a diventare un nuovo Padoa-Schioppa. Tanto per capirci: un governo Monti con il Pd che impone la patrimoniale e mette il veto su parti della lettera della Bce (come il responsabile economico Fassina continua a fare in queste ore) non ha senso. Ha senso rinunciare a consultare gli italiani solo se il programma è quello europeo. Su questo bisogna essere chiari. Altrimenti, tanto vale rischiare e tornare dritti al voto.

Thursday, November 10, 2011

Monti a due condizioni

Monti deve servire ad attuare le riforme - tutte! - della lettera della Bce (senza patrimoniali) e non per liquidare il bipolarismo

Fosse stato Berlusconi il problema, l'annuncio delle sue dimissioni e non ricandidatura (che solo nella mente ossessionata di qualcuno non sono una certezza ma l'ennesima beffa) se non calare lo spread almeno non avrebbe dovuto causarne l'esplosione. Il problema invece è sistemico: l'irriformabilità del Paese, il deficit di credibilità di tutte le forze politiche e sociali, la mancanza di alternativa politica e, non ultime, le sciagurate (in-)decisioni del direttorio franco-tedesco. Se fosse stato solo Berlusconi il problema, anche le elezioni, come in Spagna, avrebbero almeno sospeso il giudizio dei mercati. Ci stiamo rapidamente accorgendo che così non è e proprio perché Berlusconi non è l'unico problema era inevitabile, come ho scritto nei precedenti post, che il Pdl dovesse valutare l'ipotesi di un governo tecnico d'emergenza (anche se è una soluzione non entusiasmante e per la quale nutro la massima sfiducia) e, anzi, a certe condizioni metterci la faccia.

Non mi scandalizza di per sé la sgradevole sensazione che siano i mercati, e non la volontà popolare, a imporci un governo. Questo accade quando la politica fallisce, quando la democrazia si inceppa. E rispetto ai colonnelli, meglio i mercati. E accade quando si è debitori incalliti di arrivare al punto di dover fare quello che ti impongono i creditori. Se Berlusconi avesse voluto la certezza delle elezioni anticipate, avrebbe dovuto fare l'anno scorso di questi tempi quello che ha fatto martedì, invece di rabberciare una maggioranza e farsi logorare per mesi. Ebbene oggi, se c'è anche una minima possibilità che il governo tecnico sia una cosa seria e non l'ennesimo pastrocchio politicista, il Pdl ha il dovere di verificarla.

Senza le adeguate precauzioni politiche infatti è altamente probabile che un governo tecnico sostenuto in Parlamento da Pdl, Pd e Terzo polo, riduca la propria azione ad una gigantesca patrimoniale e a poco altro. Calmate un po' le acque, soprattutto con l'aiuto del profilo market-friendly di Monti, ma senza aver davvero trasformato il modello socio-economico del Paese, tra un paio d'anni ripartirà la giostra della politica e quindi della spesa, magari nel frattempo avendo pure archiviato il bipolarismo. Questo, purtroppo, l'esito più probabile dell'operazione, che però bisogna scongiurare.

L'introduzione della patrimoniale e la modifica della legge elettorale sono le due spie principali dell'inganno. Per questo anziché preoccuparsi di piazzare i propri uomini nella nuova compagine governativa, il Pdl dovrebbe prima di tutto dettare due condizioni politiche per il proprio appoggio al nuovo governo: 1) la lettera della Bce dev'essere attuata integralmente, non dev'essere annacquata per addolcire la medicina al Pd, che dovrà garantire il proprio appoggio a tutte quelle riforme "europee" che fino ad oggi ha contrastato nelle aule parlamentari e in piazza; 2) nessuna modifica della legge elettorale per soddisfare la voglia matta del Terzo polo di liquidare il bipolarismo: se il governo nasce per affrontare l'emergenza finanziaria, il suo mandato e quest'ultima parte della legislatura devono essere esclusivamente circoscritti ad essa. Della legge elettorale si occuperanno i cittadini con il referendum già depositato. Chi sostiene che nell'agenda di un governo Monti dovrebbe esserci anche la riforma della legge elettorale, vuole strumentalizzare l'emergenza per liquidare il bipolarismo (e il Pdl).

In breve, bisogna scongiurare le due "P": il Pd deve condividere per intero l'impopolarità delle riforme presso il suo elettorato, senza sconti, senza imboscarsi dietro patrimoniali; e l'Udc deve rinunciare al proporzionale. E' in gioco il bipolarismo, il diritto degli elettori a scegliersi i governi. Se un governo Monti non può offrire garanzie su questo, allora dritti al voto.

Wednesday, November 09, 2011

Orfani del fattore B

Anche su notapolitica.it

Per la prima volta il mondo politico italiano è costretto a misurarsi con l'assenza del fattore B e chi non l'ha ancora capito, chi ancora teme (o spera?) in un colpo di coda, farebbe bene a guardare in faccia la realtà per non farsi trovare impreparato. Berlusconi annuncia che si dimetterà e che non si ricandiderà alle prossime elezioni. Non credo porrà la fiducia sulla legge di stabilità e sul maxi-emendamento con le misure promesse all'Ue, con il retropensiero di ottenere un reincarico da parte di Napolitano, perché ricostituirebbe di colpo l'alibi che con questa mossa ha voluto togliere sia alle opposizioni che ai dissidenti della sua maggioranza. Invece, portando in aula almeno una prima parte del programma che Ue, Bce e Fmi ci chiedono di attuare nel più breve tempo possibile, ma avendo tolto di mezzo la questione politica che riguarda la sua persona, dimostrerà in Parlamento quali forze politiche sono in grado per davvero, nel merito, di adempiere ai doveri necessari per portarci fuori dalla crisi. Le opposizioni dovranno consentire di accelerare i tempi e se il Pd non dovesse votare il pacchetto pur avendo sul tavolo le sue dimissioni, sarà la dimostrazione senza bisogno di aggiungere altre parole che un governo "tecnico", di unità nazionale, è semplicemente impensabile, e dunque che chi lo invoca ha in mente la propria convenienza, che sia quella del singolo parlamentare a restare aggrappato allo scranno, o quella di un partito, o di una corrente, al miglior posizionamento possibile prima del voto, magari grazie a qualche ritocco alla legge elettorale.

Certamente non tutti nel Pdl condividono l'idea che sia preferibile evitare un governo tecnico e che l'unica strada sia quella di tornare al voto. Per questo cosa ci aspetta dopo le dimissioni del premier è ancora avvolto nell'incertezza, e i mercati lo avvertono (anche se forse B. non valeva da solo 100 punti o più di spread). La campagna acquisti di Casini e del Terzo polo proseguirà nel tentativo di convincere un gruppo il più folto possibile di parlamentari del Pdl a sostenere un altro governo, facendo leva ovviamente più sul loro attaccamento alla poltrona che sulla responsabilità istituzionale. Ma la riuscita dell'operazione dipenderà dai numeri e non credo bastino una ventina o una trentina fra deputati e senatori. E' improbabile infatti che il capo dello Stato voglia avallare soluzioni ribaltonistiche che tra l'altro in poco tempo potrebbero rivelarsi persino più deboli numericamente di quanto lo fosse il governo Berlusconi. Il rischio c'è, ma dipenderà dai numeri. Quindi il voto resta ad oggi l'esito più probabile.

Sarebbe bello se vivessimo in un Paese in cui le forze politiche fossero capaci, nell'emergenza, di fare un passo indietro a favore di un governo davvero esclusivamente di tecnici, guidato da uno come Mario Monti, con nessun altro scopo se non quello di approvare le misure richieste all'Italia dalle istituzioni europee e internazionali. Purtroppo è un'ipotesi preferibile ma in astratto, perché l'appoggio del Pd ad un simile governo ci costerebbe una tassa patrimoniale (che non mi risulta sia citata nella lettera della Bce) e probabilmente di dover accantonare buona parte delle misure necessarie, quelle sul lavoro, per esempio, mentre per accontentare Casini dovremmo sacrificare il bipolarismo. Insomma, i partiti non farebbero davvero un passo indietro rispetto ai loro calcoli elettoralistici. Il Pdl dovrebbe aprire ad un'ipotesi Monti solo a due condizioni: che sia formato al 100% da tecnici puri e che si occupi esclusivamente di realizzare, integralmente, il programma della lettera Bce; e che si convenga tra le forze politiche di non ritoccare la legge elettorale, perché si finirebbe inevitabilmente per avvantaggiare questo o quel partito e, dunque, per intaccare la natura "tecnica" e puramente emergenziale dell'ultima parte di legislatura. Dovrebbero essere gli elettori, invece, a decidere su di essa con il referendum.

Come sarebbe un errore pensare, una volta ricompattata la maggioranza grazie al "passo indietro" di Berlusconi e votata la legge di stabilità, ad un governo Alfano o Letta. Un governo che si troverebbe ben presto nelle stesse condizioni del governo Berlusconi, sotto il ricatto di questo o quel pezzo di maggioranza e di scontenti, oppure, nel caso l'Udc ci ripensasse sull'allargamento senza Pd, a dover accontentare Casini, il cui scopo ultimo è il superamento del bipolarismo e lo sfaldamento del Pdl, per presentarsi come unico soggetto aggregatore dell'area moderata.

Tuesday, November 08, 2011

Le due poste in gioco

Nel grande caos di queste ore Berlusconi sembra propenso a decidere il da farsi alla luce del voto di oggi pomeriggio sul rendiconto, in questo modo concedendo però ai cosiddetti malpancisti e ai sostenitori - molto interessati - del "passo di lato", cioè della successione in corsa Alfano-Maroni, un potere d'influenza senza responsabilità definitive. Letta è pronto a tessere le trame della nuova fase; Alfano e la corte dei giovani ministri berlusconiani (come Maroni nella Lega) a coronare le loro ambizioni di successione; Tremonti è fuori gioco ma può e vuole ancora far male. Una certezza almeno dovrebbe invece coltivare Berlusconi: a prescindere dai numeri, andare in Parlamento e chiedere la fiducia sul programma e sui tempi di realizzazione della lettera all'Ue. Può anche annunciare che si dimetterà e non si ricandiderà se la maggioranza numerica si dimostrasse troppo labile, ma quello a mio avviso è un passaggio di chiarezza essenziale. "Passo indietro" significa gettare la spugna, il voto in Parlamento è un atto politico su cui tutti si assumono le proprie responsabilità nelle sedi proprie di una democrazia. Chi drammatizza un'eventuale sfiducia ragiona con gli schemi della Prima Repubblica. Ma perché dovrebbe pregiudicare le successive mosse di Pdl e Lega, che restano la coalizione uscita vittoriosa dalle urne nel 2008 e di cui quindi non si potrà fare a meno?

Una premessa è d'obbligo: purtroppo nessuno, ma proprio nessuno in queste ore, né partiti né singoli, sta ragionando in base a cosa convenga al Paese, ma in base al miglior posizionamento possibile per se stesso. Chi per tenersi la poltrona, chi per succedere a Berlusconi, chi addirittura guardando al Quirinale. Le poste in gioco per l'Italia sono ovviamente diverse: una è chiaramente la salvezza dalla crisi del debito; l'altra, come sostiene Il Foglio, secondo me a ragione, il «sistema maggioritario in cui il popolo sceglie chi governa, esprime un mandato su un programma». Ma non è detto che votare a gennaio o a marzo sia la soluzione più efficace.

UDC - Votare a gennaio o a marzo è infatti la best option di chi il sistema maggioritario vuole distruggerlo. E' sempre più palese che Casini a parole predica le "larghe intese", ma nei fatti (alzando ogni giorno le sue pretese) lavora ad elezioni subito. I parlamentari del Pdl che invocano una "nuova fase", il "passo indietro", avanti o di lato, e così via, e che si affidano all'Udc pensando di prolungare la vita della legislatura e la permanenza sulle loro poltrone, si illudono e stanno finendo nelle braccia di quelli che più di tutti premono per le elezioni anticipate. In questo momento l'Udc è l'unica forza a non avere niente da perdere dalle urne. Guarda un po', appena si è vociferato che il Pdl potesse prendere in considerazione un passo indietro di Berlusconi e un allargamento all'Udc, magari con Letta o Alfano premier, Casini ha subito alzato l'asticella, dichiarando che è da «irresponsabili escludere il Pd» dal governo di unità nazionale che propone, e Rutelli ha bocciato il nome dello «stimatissimo» Letta. Come dire meglio il voto subito. Il Terzo polo infatti può sperare di capitalizzare, risultando determinante al Senato, le debolezze di Pdl e Lega e dell'asse di Vasto. Ossia con i voti di un italiano su dieci di dominare la successiva fase politica, magari posizionando Casini nella casella della presidenza della Camera per il momento in cui il Parlamento dovrà votare il successore di Napolitano al Quirinale.

Questo sarebbe uno scenario ad altissimo rischio rispetto ad entrambe le poste in gioco. Ma ancora peggiori sarebbero le ipotesi di una successione in corsa Alfano-Maroni, di un governo dei "moderati" o di "larghe intese" a guida politica: sarebbe comunque alto il rischio di veder archiviare il maggioritario per accontentare l'Udc e di certo, scontata l'euforia del momento per l'uscita di scena di Berlusconi, non sarebbero sufficientemente autorevoli da risolvere il problema di credibilità dell'Italia agli occhi dei mercati, l'unico intento nobile che potrebbe giustificare un mancato ritorno alla volontà degli italiani.

PROPOSTA - Caduto Berlusconi, ma solo sulla lettera della Bce, un minuto dopo il Pdl dovrebbe tentare di spiazzare l'Udc, dando la propria disponibilità ad un governo al 100% di tecnici, guidato da Mario Monti, con un mandato chiaro - la lettera della Bce - ma con una clausola di salvaguardia sulla tenuta del sistema maggioritario: essendo un governo di tecnici, sostenuto da una unità nazionale per affrontare l'emergenza del debito, nell'ultima fase della legislatura nessun ritocco alla legge elettorale. Pd e Terzo polo si troverebbero davanti ad un bel dilemma: appoggiare le misure impopolari che la Ue ci chiede, e che il Pdl sostiene, e accettare che si voti il referendum per il ritorno al Mattarellum; oppure, far cadere anche l'ipotesi "tecnica" di Monti, rendendo evidente ai cittadini e ai mercati chi è che affossa il Paese e chi, invece, è il partito "europeo".

Solo a queste condizioni - governo al 100% di "tecnici" fino al 2013 per attuare la lettera della Bce e nessun intervento sulla legge elettorale - sarebbe conveniente per il Paese non tornare subito alle urne. In teoria, ma siccome nella pratica ciascuno, a cominciare da Alfano e Casini, guarda alle proprie convenienze, nemmeno di partito ma puramente personali, allora piuttosto che soluzioni pasticciate meglio il voto.

Thursday, September 22, 2011

Una missione per Alfano: blindare il bipolarismo

... invece di inseguire l'Udc

Anche su notapolitica.it

Lo zig-zag sulle primarie; l'incerto e inadeguato procedere dell'azione di governo nella crisi del debito; il tema della successione a Berlusconi. Sono i fronti su cui abbiamo visto impegnato Angelino Alfano nei suoi primi passi da segretario del Pdl. Ma se sul piano dei contenuti l'ex Guardasigilli dovrebbe avviare nel partito una profonda riflessione su quale debba essere la visione economica di fondo, dopo che la "rivoluzione liberale", e lo spirito del '94, in cui tanti elettori hanno creduto, sono stati traditi per la seconda legislatura, c'è un altro ambito in cui dovrebbe giocare una partita altrettanto decisiva per la sopravvivenza del Pdl all'imminente uscita di scena del suo fondatore.

La partita da giocare è quella per la difesa del bipolarismo, e con esso del principio che il governo sia scelto dagli elettori nelle urne, che rappresentano al momento l'unica eredità positiva, l'unica riforma politica del berlusconismo. Uno dei pochi osservatori con sguardo sereno, non pregiudizialmente ostile a Berlusconi e al centrodestra, Angelo Panebianco, ha scritto per ben due volte negli ultimi mesi, sul Corriere della Sera, che la sopravvivenza del Pdl passa per la «messa in sicurezza» del bipolarismo, che solo una legge elettorale maggioritaria può garantire. Ci sentiamo di condividere.

Al di là del giudizio che ciascuno può aver elaborato sull'attuale legge, sembra chiaro che sia arrivata al capolinea. Complice un diffuso clima di antipolitica, è ormai invisa all'opinione pubblica, che la associa ai privilegi e all'intoccabilità della "casta". Che decida di puntare su un sistema uninominale puro (l'opzione più lineare e preferibile), o sul ritorno al Mattarellum, o su un sistema proporzionale "alla spagnola", dagli effetti fortemente maggioritari, l'unica cosa che il Pdl non può permettersi di fare è non assumere l'iniziativa, in Parlamento e fuori, sia per anticipare pur remote possibilità che sul tema si costituiscano maggioranze diverse, sia per non rimanere spiazzato in caso di referendum. Favorita come nel '92-'93 da un diffuso sentimento di biasimo nei confronti dei partiti, e sullo slogan "scegli il tuo parlamentare", la campagna referendaria per il ritorno al Mattarellum sembra avere buone possibilità di riuscita. Al momento per il quesito si è mobilitata soltanto la sinistra, o una parte di essa. L'assenza di iniziativa da parte del Pdl lo farebbe apparire come il difensore del sistema dei "nominati" e il referendum diventerebbe facilmente una clava "anti-casta" e "anti-Pdl".

Purtroppo, Alfano sta dilapidando il piccolo capitale politico rappresentato dalla novità della sua nomina infognandosi, esattamente come i vertici del Pd in questi anni, nel gioco delle alleanze. Corteggiare l'Udc sembra la sua priorità, ma è una scelta doppiamente miope, soprattutto da una posizione di debolezza. Innanzitutto, perché una forza di governo, il partito che ambisce a rappresentare la maggioranza relativa nel Paese, deve conquistare gli elettori di "centro" - comunque si vogliano definire, "moderati" o "indipendenti" - nelle urne, con la forza e la credibilità dei propri programmi e dei propri leader, e non credendo di poter appaltare a un partitino il compito di intercettarli, secondo i logori schemi della vecchia politica, che tra l'altro raramente hanno successo. Altro che novità politica, inseguire Casini è una minestra riscaldata. Se poi sul piatto dell'accordo i centristi chiedessero e ottenessero il ritorno al proporzionale, senza premi di maggioranza e magari pure con le preferenze, allora per il Pdl il suicidio sarebbe servito.

Aprire un confronto serio sulla legge elettorale con Lega e Pd, i partiti più interessati alla tenuta del bipolarismo, dovrebbe quindi diventare una priorità per la segreteria Alfano, senza escludere a priori il ritorno al Mattarellum, per via parlamentare o referendaria. Il Pd avrebbe tutti i motivi per collaborare, visto il suo sostanziale sostegno al referendum su cui si stanno raccogliendo le firme. E va ricordato che con il Mattarellum sia il centrodestra che il centrosinistra sono riusciti a vincere le elezioni e a governare cinque anni. E' vero: non garantisce appieno la governabilità, come d'altra parte nemmeno il sistema attuale, ma gli svantaggi della quota proporzionale possono essere per lo meno limitati con soglie di sbarramento e modifiche ai regolamenti parlamentari.

Nonostante la grave crisi di consenso in cui versano le forze della maggioranza, il Mattarellum renderebbe il centrodestra competitivo alle prossime elezioni, e in caso di sconfitta garantirebbe almeno un vantaggio: sarebbe l'unica opposizione in Parlamento, la più consistente, con margini minimi per terzi poli. Con l'attuale legge Pdl e Lega soffrirebbero probabilmente un più forte ridimensionamento in termini di seggi, offrendo lo spazio per un Terzo polo ago della bilancia nel post-elezioni. O ancora peggio, il ritorno al proporzionale puro: oltre a non convenire al Pdl, che andrebbe incontro a sicura disgregazione (è questo, in fondo, l'obiettivo ultimo di Casini), di tutta evidenza non conviene al nostro Paese, che sprofonderebbe di nuovo nelle sabbie mobili della Prima Repubblica.

Tuesday, May 17, 2011

Analisi di una Caporetto

Punito il centrodestra "facinoroso". Terzo polo al palo

Stando così i dati, il centrodestra deve prepararsi a perdere Milano e seriamente preoccuparsi di mancare la conquista di Napoli. A sfiorare la vittoria al primo turno è Pisapia, non la Moratti, che ora deve colmare un distacco di oltre 6 punti percentuali. Considerando l'effetto galvanizzante del primo turno sugli elettori di centrosinistra e depressivo su quelli di centrodestra, l'impresa appare disperata. Se Milano è molto probabilmente persa, Napoli è tutt'altro che presa. Con i voti di Mastella e del Terzo polo Lettieri supererebbe il 50% e con quelli del Pd De Magistris non arriverebbe al 48%. Ma la forbice è molto ristretta e in politica le somme algebriche non trovano mai conferma nelle urne: sarà più agevole per l'ex pm attrarre i voti del Pd che per Lettieri quelli centristi e anche a Napoli si farà sentire l'effetto Pisapia.

Quando si perde in questo modo ciascuno ha le sue responsabilità (Berlusconi, certo, ma soprattutto la Moratti, il Pdl e anche la Lega) e occorre ammettere che il problema è più profondo di una comunicazione sbagliata, ma in generale ad uscire sconfitta dalle urne è stata una certa versione del centrodestra che ha prevalso in questa campagna e che non resiste alla tentazione di avvalersi delle armi spuntate della sinistra dimenticando che demonizzazioni ed estremismi sottraggono credibilità e allontanano gli elettori indipendenti. In gergo calcistico si direbbe che questa volta il centrodestra è stato espulso per "fallo di reazione".

Ma veniamo ai due errori a mio avviso capitali commessi da Berlusconi e dal Pdl: non tanto l'aver voluto "politicizzare" il voto amministrativo. C'è modo e modo, infatti, di "politicizzare" una campagna "locale". Primo, aver puntato, come palcoscenico nazionale dell'intera campagna, non su Napoli, autentico monumento al malgoverno del centrosinistra, ma su Milano, dove evidentemente il giudizio sull'operato della Moratti da parte dei cittadini è molto negativo e dove, dunque, il candidato andava "ricostruito". La Moratti raccoglie quasi due punti percentuali in meno della coalizione che la sostiene, mentre Pisapia e il candidato terzopolista quasi uno in più, il che rafforza l'impressione che i cittadini milanesi siano stufi del sindaco uscente almeno quanto i romani lo erano del duo Veltroni-Rutelli nel 2008 (e sappiamo tutti come andò a finire).

Secondo, alla gente, per lo meno agli elettori di centrodestra e "moderati", non frega davvero nulla dei problemi personali e giudiziari di Berlusconi. Sarebbe ora che sia a destra che a sinistra se ne facciano una ragione. Vuol sentire parlare dei suoi problemi, delle soluzioni ai problemi della propria città, non di processi, di sexygate, di giudici e quant'altro. Punisce gli avversari del Cav. quando fanno campagna sull'antiberlusconismo, così come non si fa intenerire dal vittimismo anti-pm di Berlusconi quando questi vi ricorre. Sull'uso politico della giustizia da parte di alcuni magistrati ormai gli elettori di centrodestra e "moderati" sono ultra-vaccinati, hanno le idee molto chiare. Non si bevono l'antiberlusconismo manettaro, ma neanche sono disposti a tollerare il ricorso da parte del centrodestra all'attacco dei pm di sinistra, percepito, e sanzionato, come mossa propagandistica. Ok, i pm lo perseguitano, ma che cosa avete fatto, e cosa avete intenzione di fare, per Milano? Quando non si punta sull'operato di un sindaco, ma sulla propaganda, è netta l'impressione che il bilancio sia ben poco lusinghiero. E paradossalmente l'aggressività dei toni usati dai "moderati", alla fine persino dalla Moratti arrivata a calunniare il suo avversario, per contrasto ha aiutato il "radicale" Pisapia nel caratterizzare all'insegna del "moderatismo" la sua immagine. La demonizzazione giustizialista dell'avversario è propaganda e come tale viene respinta, soprattutto dall'elettorato che si è dimostrato in questi anni immune da questi bassi istinti della politica. Certo che il passato (e il presente) antagonista di Pisapia poteva e doveva essere messo in evidenza, ma con altri toni e in ogni caso senza permettere che oscurasse i temi di governo della città che davvero interessano ai cittadini.

Ha inciso senz'altro anche una certa stanchezza per la litigiosità e l'immobilismo della maggioranza di governo in quest'ultimo anno (i distinguo e i bisticci non giovano né al Pdl né alla Lega), ma è prematuro parlare di bocciatura per il governo e di fine del berlusconismo. Il "tocco magico" di Berlusconi viene sopravvalutato sia dai suoi avversari che dai suoi estimatori. In realtà, sia nella buona sorte che nella cattiva non è così determinante come si crede. Ha fatto sì vincere la Polverini nel Lazio, persino in assenza della lista del Pdl, ma in un contesto in cui il governo regionale uscente era quello dello scandalo Marrazzo. Oggi non riesce a far vincere la Moratti laddove il giudizio nei suoi confronti è negativo. Insomma, i cittadini si fanno affabulare da Berlusconi, o dai suoi nemici, molto molto meno di quanto si creda. Sono molto più maturi e giudicano innanzitutto l'operato delle amministrazioni uscenti, sia a livello locale, che regionale e, quando sarà il momento, nazionale.

Il Pd può gioire perché Berlusconi per la prima volta dopo quattro elezioni ha perso, ma non dovrebbe rallegrarsi, ammesso che il progetto sia ancora quello originario di mettere in piedi un'alternativa riformista. Chi esce vincitore da queste elezioni amministrative infatti è la sinistra radicale e "manettara" che con le buone (le primarie) o le cattive (vedi Napoli) riesce a imporre i suoi candidati. Tutti lontani anni luce - culturalmente e politicamente - da quel progetto. Pisapia è un vendoliano ex Rifondazione con un passato da borghese rivoluzionario; Massimo Zedda, che costringe il centrodestra al ballottaggio a Cagliari, anch'egli vendoliano; e De Magistris un ex pm più "manettaro" di Di Pietro. Insomma, altro che centrosinistra col trattino, qui siamo alla sinistra-sinistra. Bersani può anche brindare, ma sta consegnando mani e piedi il Pd alla sinistra radicale. Elettoralmente può vincere laddove gli elettori bocciano l'operato del centrodestra, ma non credo che Vendola, Rifondazione comunista, l'Italia dei Valori e i "grillini" possano rappresentare una credibile alternativa di governo.

E' un voto che in realtà punisce sia il Pdl che il Pd, e dunque sì, punisce questo bipolarismo, ma non può certo rallegrarsene il Terzo polo, che di fatto non supera i voti della sola Udc. E' la sinistra estrema e l'antipolitica di Grillo, infatti, a raccogliere i dividendi dello sfascio del sistema cui anche i terzopolisti stanno contribuendo. Un risultato molto deludente, se misurato con il progetto ambizioso di dar vita ad un nuovo bi- o tripolarismo, o addirittura ad un nuovo centrodestra; può bastare se invece ci si accontenta - come ci sembra - della politica dei "due forni".

Monday, May 16, 2011

Prime parziali considerazioni

Dati veri pochini nel momento in cui scrivo, quindi conclusioni vere e proprie non se ne possono trarre. Qualche considerazione su ciò che sembra certo. I peggiori incubi di Pdl e Pd sembrano materializzarsi. A Milano l'unico dato certo sembra il ballottaggio. Era l'esito da tutti dato come più probabile. Ma se i dati veri confermeranno ciò che emerge dalle proiezioni, se cioè Pisapia si troverà addirittura in vantaggio sulla Moratti, allora il centrodestra dovrà prendere atto di due cose: 1) che il candidato è bollito (è due punti sotto la somma dei voti per le liste che la sostengono, Pisapia è sopra di 1), i cittadini milanesi sono stufi del sindaco uscente almeno quanto i romani lo erano del duo Veltroni-Rutelli nel 2008 (e sappiamo tutti come andò a finire); 2) che questa volta Berlusconi con tutto il suo armamentario di propaganda non è bastato. Un segno di maturità degli elettori, che chiamati alle urne per la loro città hanno preferito guardare ai candidati e non a Roma? Oppure un giudizio negativo sull'operato del governo e il tramonto del berlusconismo? Ci sarà tempo per valutare.

In ogni caso se la Moratti dovesse davvero ritrovarsi dietro a Pisapia, la rimonta sarebbe quasi impossibile. Se invece, come spesso accade, gli istituti demoscopici hanno fallito sopravvalutando i voti del centrosinistra, allora la sua riconferma è solo rimandata di due settimane e il giudizio sia sul sindaco, sia su Berlusconi, dovrà inevitabilmente essere più sfumato.

A Torino Chiamparino lasciava un'eredità in larga parte positiva che un big del partito come Fassino è stato chiamato a raccogliere. Non poteva andare diversamente. Verso il ballottaggio, invece, anche Bologna e Napoli, roccaforti del centrosinistra. E qui veniamo alle note dolenti per il Pd. A Napoli è psicodramma, con il candidato Democrat che superato da De Magistris sembrerebbe escluso dal ballottaggio, mentre nella "rossa" Bologna Merola è costretto al ballottaggio da un candidato leghista che prende il 30% (con i candidati espressione della Lega il centrodestra può fare bella figura ma non sembra in grado di strappare - almeno per il momento - feudi rossi), ma sopratutto dal 10% circa del candidato "5 stelle". Ma a ben vedere il movimento di Grillo si conferma non particolarmente trascinante: nelle città "rosse" intercetta un elettorato di estrema sinistra che c'è sempre stato e che semplicemente va sommato al centrosinistra; altrove, come a Milano, raccoglie poco (ma quasi come il Terzo polo!), pescando soprattutto nell'astensionismo.

Già, e il Terzo polo, che già canta vittoria vedendosi ago della bilancia? Risultato molto deludente se misurato con il progetto ambizioso di dar vita ad un nuovo polo, o addirittura ad un nuovo centrodestra; appena sufficiente se invece ci si accontenta della politica dei "due forni". Mi sembra appropriata la definizione di Cicchitto: «Il Terzo polo non esiste, esiste l'Udc». «Il Terzo Polo a Torino forse non riuscirà ad arrivare neanche terzo», ironizza Chiamparino. Ovunque le percentuali vanno di pochissimo (meno dell'1%) oltre i voti di Casini. Con scelte sputtananti ai ballottaggi, la realtà è che qualsiasi sia l'indicazione dei terzopolisti gli elettori faranno di testa propria.

Tornando al centrodestra, anche a causa dello scivolone della Moratti che ha calunniato il suo avversario a tre giorni dal voto, e di Berlusconi che non solo ha voluto "politicizzare" le amministrative, ma ha voluto fare di Milano il vero e proprio palcoscenico quasi unico della campagna, adesso il tono delle prossime due settimane, che condizioneranno in modo decisivo i ballottaggi, sarà inevitabilmente segnato dalla sconfitta del centrodestra a Milano, con il rischio di un effetto domino negativo.

Friday, February 04, 2011

Ci stanno cascando di nuovo

Tutto fa gioco alla maggioranza, persino il presidente Napolitano. L'intronato del Colle mette a segno il dispettuccio di rovinare la festa già sobria sul federalismo, rispedendo al mittente il decreto non - come purtroppo crederanno in molti - per la presunta bocciatura di ieri in bicamerale, ma per un cavillo procedurale della legge delega. Così facendo il presidente si presta al gioco sporco di far credere alla gente che sia illegittimo da parte del governo approvare il federalismo anche senza il parere positivo del Parlamento, ma non si rende conto di fare il gioco della maggioranza (in vista l'ennesima "fiducia" in aula) e, in particolare, di ripagare la Lega con voti sonanti.

Non so se anche questa volta la strategia di difesa e contrattacco scelta da Berlusconi avrà successo, ma è l'unica sensata da tentare: governare, governare, governare. Ha sbagliato tutto su Fini, ma su questo Ferrara ci ha visto giusto: l'unica risposta ai "guardoni" è governare, o almeno provarci contro tutto e tutti. Contro le procure politicizzate, contro il fango dei media; contro le opposizioni pregiudiziali che hanno fallito l'ennesimo colpo del ko (non votando il parere sul federalismo qualcuno pensava di indurre Bossi a staccare la spina, ma il leader leghista ha fiutato e sembra essersi convinto della strategia di Berlusconi); e, da ultimo, nonostante il presidente Napolitano.

Il "racconto" che sta già andando in scena, per l'ennesima volta, e che rischia di caratterizzare un'eventuale campagna elettorale - lascio a voi giudicare se e quanto verosimile o frutto solo di abilità comunicativa - è quello solito di un Berlusconi che tenta di "fare" contro tutto e tutti, ma non lo fanno governare perché "è tutto in mano alla sinistra". Di chi sarà la colpa se si tornerà al voto? Le opposizioni - e non solo - ci stanno cascando di nuovo. Se è questo lo scenario verso cui andiamo, la campagna elettorale sarà sì in salita per Berlusconi - e non è detto che rivinca, perché gli italiani sono esausti e lievemente incazzati - ma avrà dalla sua il suo argomento preferito: fondato o meno che sia, la persecuzione politico-mediatico-giudiziaria nei suoi confronti. E con la Lega pronta a capitalizzare - almeno al nord - i voti in uscita dal Pdl. Insomma, l'insistenza di Berlusconi nel voler andare avanti, il rilancio sulla crescita economica e la riforma del fisco, la sorprendente pazienza di Bossi, tutto va letto in questa chiave.

Se si riesce a governare, se passano le riforme, tanto meglio. Altrimenti, siano gli oppositori di ogni dove e rango (partiti, procure, giornali) ad assumersi la responsabilità del ritorno alle urne. Questo è il film che il centrodestra sta girando, e nel quale tutti - dal Pd al Terzo polo, dalle procure fino a Napolitano - sembrano essere già entrati nella parte più congeniale al protagonista: Berlusconi.

UPDATE:
Come volevasi dimostrare. Calderoli: «Se verranno presentati dei documenti sulle comunicazioni del governo sul federalismo municipale, allora io chiederò il voto di fiducia nel Consiglio dei ministri». Se passa, nuova vittoria del governo; se non passa, il governo cade sul federalismo. C'è altro da aggiungere sul capolavoro di Napolitano?

Thursday, December 02, 2010

Dalla presidenza della Camera attacco al Governo e al Senato

Uno scontro istituzionale senza precedenti, con il presidente della Camera che convoca nel suo ufficio a Montecitorio, che ha a disposizione in ragione della sua carica, i leader di altri tre partiti (Udc, Api e Mpa) per concordare una mozione di sfiducia contro il governo, spiegando che «l'assetto governativo che c'è adesso è un lusso che l'Italia non può permettersi». Una mozione di sfiducia che letteralmente parte dall'ufficio del presidente della Camera. Con lo stesso presidente della Camera che riceve, sempre nel suo ufficio istituzionale, membri del Senato (il 17 novembre il senatore Massidda, oggi persino il presidente della Commissione Antimafia Pisanu) per spingerli, pur non riuscendovi (per ora), a cambiare casacca per ribaltare la maggioranza nell'altro ramo del Parlamento così da condizionarne le votazioni ed avere i numeri per un altro governo.

Non più solo l'ingerenza di una carica istituzionale, che dovrebbe mostrarsi, oltre che essere, neutrale e imparziale nel gioco dei partiti, ma persino un'ingerenza del presidente di una Camera nei confronti dell'altra. Senza nemmeno preoccuparsi di salvare le apparenze, manovrando direttamente dal suo ufficio a Montecitorio. Siamo allo sconfinamento totale, al vero e proprio turbamento della vita di organi costituzionali. E' ora che Napolitano batta un colpo o sarà complice di uno strappo, di uno scempio costituzionale che costituirà un precedente pericolosissimo, se si accetta che dall'ufficio della presidenza di una Camera si possa tramare per destabilizzare il governo e l'altra Camera.

Wednesday, November 24, 2010

Assalto al Senato, Montezemolo esce dal recinto

Mentre va in scena un assalto squadrista al Senato, con il contorno di un giochetto disgustoso dei finiani alla Camera sulla riforma Gelmini, una delle poche cose appena decenti fatte da questo governo, e mentre Berlusconi, Bossi e l'Udc riempiono con i loro tatticismi i giorni che ci separano dalla verifica del 14, per la prima volta Montezemolo non risponde con un "no" secco a chi gli chiede se ha intenzione di entrare in politica e le sue parole suonano come la tanto attesa discesa in campo. Che si sia deciso? Che sia finalmente l'alba di questo Terzo polo? «Ho il dovere di fare qualcosa per il mio Paese», dichiara Luchino chiudendo un convegno di ItaliaFutura sui giovani, è ora di «uscire dal proprio particolare recinto per contribuire al bene comune», ma «il periodo dell'one man show è finito», avverte. E precisa di non riferirsi a Berlusconi o a qualcuno in particolare, ma anche a se stesso: «Anche quando chiedono a me di entrare in politica... entrare in politica da soli non vuol dire assolutamente niente, ci vuole una squadra».

E lui è fortunato, perché una squadra che lo aspetta già ce l'ha: Fini, Casini, Rutelli... Sai che squadra... Spero solo che non sia chiedere troppo che si presentino agli elettori e non cerchino improbabili ribaltoni. Vedremo, poi, come si comporteranno i media con il conflitto di interessi di Montezemolo, presidente di Ntv, il nuovo operatore che dal prossimo anno farà concorrenza a Trenitalia nel trasporto viaggiatori ad alta velocità.

Mentre Fini minimizza l'assalto squadrista al Senato («solo provocatori isolati» che non c'entrano con la «legittima protesta»), i suoi ragazzi alla Camera questo pomeriggio sono stati tentati di affossare la riforma dell'università, che avevano ripetuto di apprezzare e assicurato di sostenere. L'impressione è che per qualche ora siano stati sfiorati dall'idea di blandire i manifestanti (studenti e ricercatori) ed impedire al governo di portare a casa un prezioso risultato. Avevano chiesto che la riforma tornasse in Commissione perché, parole di Granata (Fli), priva delle risorse per «gli scatti meritocratici di anzianità» (?) di ricercatori e associati. Un miliardo evidentamente non basta, quando semmai la riforma andava fatta a costo zero, e possibilmente risparmiando qualcosa. Sono dell'idea che non un cent in più andrebbe versato all'università se prima non si riesce a dare una raddrizzata strutturale al sistema. L'ostacolo sembra superato, almeno per ora.

Nel frattempo, il premier chiede l'appoggio esterno dell'Udc, persino con il via libera di Bossi («sarebbe positivo»), ma Casini rifiuta senza pensarci due volte (ogni ipotesi è rimandata a dopo la caduta del Cav., passaggio inevitabile, agli occhi dei centristi, per aprire una nuova fase). Prospettiva inquietante sia per l'oggi che per il domani (in vista di elezioni anticipate) quella di sostituire i finiani con l'Udc, perché da un Berlusconi con logoramento di Fini, si passerebbe a un Berlusconi con logoramento di Casini. Ma probabilmente si tratta solo di tatticismi da una parte e dall'altra per riempire la scena nei giorni che ci separano dalla verifica del 14.

Eventuali piccoli spostamenti di voti alla Camera a favore del governo (a questi, e a blindare il Senato, probabilmente mirava Berlusconi con il suo appello all'Udc) non impediranno il ritorno alle urne. Anche se l'aggravarsi della crisi dell'eurodebito rischia di trasformarsi in un nuovo argomento per quanti sarebbero disposti a fare carte false pur di far fuori Berlusconi senza sottoporsi subito dopo al giudizio degli elettori. Già si leggono e si sentono gli appelli alla responsabilità di quanti, dopo aver contribuito irresponsabilmente a destabilizzare l'unico governo democraticamente legittimato, sosterrebbero un bel governo "tecnico" per non lasciare l'Italia senza guida in mesi cruciali per le sorti dell'euro e del patto di stabilità. Di fatto un commissariamento del nostro Paese.

Thursday, November 18, 2010

Doccia gelata sui bollenti spiriti

La giornata è all'insegna del raffreddamento degli ardenti spiriti dei finiani, che oggi, meno sicuri dei loro numeri, cominciano a temere di aver compiuto il classico passo più lungo della gamba. Giorni fa lasciavano intendere di non essere disponibili ad un reincarico del premier, oggi parlano di un Berlusconi-bis; oggi, nel suo videomessaggio, un confuso Fini non rinnova la richiesta di dimissioni, ma dice che Berlusconi ha il dovere - «l'onore e l'onere» - di governare (ma non doveva dimettersi?). Allo stato attuale la "maggioranza" che sostiene il governo Berlusconi potrebbe contare alla Camera su 309-310 seggi, al netto dei 36 finiani: ancora -6 dalla maggioranza assoluta, dunque. Francamente, ritengo ancora improbabile che il governo riesca a ottenere la fiducia anche alla Camera (mentre al Senato è molto probabile). E non è scontato che sia auspicabile, visto che comunque sarebbe troppo fragile per sostenere riforme di rilievo e durare fino alla fine della legislatura.

I numeri, però, contano rispetto agli scenari futuri. E con questi numeri alla Camera, e quanto più Berlusconi si avvicina a quota 316 (considerando che il Senato dovrebbe riconfermargli la fiducia), ogni ipotesi di governi ribaltonisti, "tecnici" o di transizione, sarebbe da escludere. Ed è ciò che più allarma i finiani, insieme all'atteggiamento del presidente Napolitano, che certo non ha offerto sponde nell'incontro dell'altro giorno al Quirinale sulla calendarizzazione dei lavori delle camere e dei dibattiti sulla fiducia. L'uscita dal governo non sembra aver provocato quel cedimento strutturale che forse qualcuno si aspettava.

E' passato quasi inosservato questo comunicato di ieri di Pannella, ripreso oggi solo dal Sole 24 Ore, che si è spinto a titolare "Premier a caccia di nove deputati. Pannella tratta: da noi sei voti". Sei sono i seggi che mancano a Berlusconi e proprio sei sono i deputati radicali. Il Sole corre troppo, ma cosa ha dichiarato il leader radicale? Questa volta il suo rimprovero a Berlusconi (per essersi azzardato a ribadire "o fiducia, o voto"), è in forma di «dialogo», non di «sterile polemica», ha premesso, in conclusione ribadendo che «quando ci si riconosce carattere e dignità di interlocutore politico, che sia Bersani, Berlusconi, Bossi o Di Pietro, noi lo riteniamo non solamente utile ma anche necessario. Che si tratti di capi o vice-capi della maggioranza o dell'opposizione».

Un segnale di disponibilità al dialogo, insomma. E che tra i leader citati manchino Fini e Casini (il cosiddetto Terzo polo) non sembra affatto una dimenticanza. Troppo presto per capire se ci troviamo di fronte ad una nuova "pannellata". Al momento, sembra più un segnale di avvertimento rivolto al Pd. Due giorni fa i gruppi parlamentari del Pd si sono riuniti con Bersani a Montecitorio e i radicali avevano chiesto che fosse invitato Pannella. Il niet dei democratici è stato vissuto come un nuovo schiaffo in un lungo record di indifferenza. E' dalle elezioni regionali che i vertici Democrat stanno scientemente ignorando i radicali, a cui in caso di elezioni anticpate non potrebbero certo assicurare 9 posti in lista sicuri (6 alla Camera e 3 al Senato).

Politicamente per i radicali (o meglio, i radicali di una volta) ci sarebbe una prateria. Basti pensare ai temi economici, alla grande questione della crisi dell'eurodebito e, in particolare, del debito italiano, o alla giustizia. Il problema è che ormai il loro encefalogramma politico è piatto. Da anni hanno puntato tutto sulla bioetica, sull'immigrazione (a porte spalancate, barconi compresi), sulle carceri, su Tarek Aziz e sulla montatura dell'esilio di Saddam, sulle battaglie pseudo-legali contro le liste di centrodestra, assumendo sempre più i toni e gli slogan dell'antiberlusconismo e i contenuti di una sinistra antagonista piuttosto che blairiana. Se prima la critica a Berlusconi e alla deriva clericale era riequilibrata da una sintonia di fondo con gli elettori del centrodestra, ormai la distanza è a livello antropologico, e c'è l'orgoglio di rimarcarlo, di vantarsene, come d'altronde il resto della sinistra.

E anche se Pannella volesse tornare a stupire, anche se avesse intuito uno spazio di manovra, i suoi non glielo consentirebbero - Bonino in primis («non c'è alcuna apertura di credito» in particolare a Berlusconi, e l'appello è in primo luogo a Bersani, ha subito corretto il tiro). Quindi, credo sia ancora una volta solo manfrina. Ottenere un po' di visibilità, un po' di titoli di giornali, per farsi ricevere da Bersani. Certo, resta il fatto che nessuno come loro teme le elezioni, e non essendo per nulla interessati a operazioni terzopoliste o ribaltoniste, arrivato il fatidico 14 dicembre potrebbe astenersi. Ma che il loro malessere nei confronti del Pd, e il loro interesse a che la legislatura prosegua, prenda le forme di un dialogo politico con Berlusconi e il centrodestra (sui temi e non sui posti, s'intende), ci credo poco.

Monday, November 15, 2010

La strettoia in cui sta cacciando Fini

Solo poco più di un mese fa avevano rinnovato la fiducia al governo sui cinque punti programmatici esposti dal premier in aula e nei prossimi giorni faranno passare uno degli atti più squisitamente politici di qualsiasi governo: la legge finanziaria. Eppure, ritirano ministro e sottosegretari e sono pronti a votare la sfiducia un minuto dopo la sessione di bilancio. Perché ormai non c'è più niente di "politico" che possa bastargli e le eventuali buone ragioni hanno lasciato il posto ad un unico reale obiettivo: far fuori Berlusconi. Domani sul Colle vedremo salire Fini non si sa bene in che veste, se da presidente della Camera o da leader di Fli. E comunque la si voglia pensare, difficilmente si può ignorare l'anomalia di un presidente della Camera che si presenta dal capo dello Stato a ragionare della crisi che lui stesso ha provocato. Le sue non saranno valutazioni da presidente della Camera. Punto.

L'impressione è che l'ipotesi avanzata da Berlusconi, di sciogliere solo la Camera, sia una mossa volta a serrare le fila dei suoi al Senato e quindi ad allontanare lo spettro di un governo "tecnico" (leggasi ribaltone) e ottenere il voto anticipato. E' vero, infatti, che l'artico 88 della Costituzione prevede che «il presidente della Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Ma ciò appare superato da quando, dagli anni '50, i mandati di Camera e Senato non sono più sfalzati (cinque e sei anni) come inizialmente previsto dai costituenti. Allora perché, si potrebbe obiettare, anche dopo l'allineamento dei mandati delle due camere il legislatore ha ritenuto di mantenere la facoltà in capo al presidente della Repubblica di scioglierne una sola?

Insomma, se dal punto di vista giuridico la questione è quanto meno controversa, è irrealistico aspettarsi che Napolitano decida di sciogliere solo la Camera. Credo che neanche Berlusconi ci creda davvero, piuttosto prova a mettere la pulce nell'orecchio dei senatori. Da quali saranno i numeri con cui verrà sfiduciato, infatti, dipenderanno le chance di un ipotetico nuovo governo. Se, come pare probabile, Berlusconi otterrà la fiducia, anche striminzita, del Senato, Napolitano si vedrà costretto a sciogliere le camere, ed è anche possibile che prima lo incarichi di tentare un Berlusconi-bis. Per ora appare quasi impossibile che riesca a strappare la fiducia anche alla Camera dividendo i finiani, ma in ogni caso quanto più ci arriva vicino tanto più si allontanano ipotesi diverse dal voto.

Credevo che in caso di elezioni Fini sarebbe andato da solo, massimizzando la sua figura di leader, la coerenza programmatica del suo nuovo partito e la sua rivendicata identità di destra (moderna ed europea, s'intende). Pare invece intenzionato ad imbarcarsi in un'impresa terzopolista (con Udc, Api, e con l'Mpa dell'inquisito Lombardo!), che nonostante la pretesa di rappresentare un nuovo centrodestra, apparirà un'operazione centrista, centralista e meridionalista. Dovrà dividersi con Casini la leadership; dovrà spiegare ai propri simpatizzanti che l'agenda laica è rinviata a data da destinarsi; spiegare molto bene agli italiani cosa lo unisce oggi all'ex arci-nemico Rutelli; e infine spiegare come mai, dopo tutto questo casino, non sarà neanche questa volta lui (probabilmente) il candidato premier di questo Terzo polo.

Come se non bastasse, stando alle parole di Bocchino - che fino ad oggi si è rivelato il migliore interprete, persino anticipatore, della linea e degli umori del suo capo - non è da escludere una sorta di "unità nazionale" con il Pd, talmente disperato da rivolgersi anche a Fini per non rimanere isolato dai giochi terzopolisti (il duetto Fini-Bersani di stasera a Vieni via con me potrebbe rivelarsi un boomerang se apparisse quasi impossibile distinguere tra valori di destra e di sinistra). Un Cln antiberlusconiano avrebbe chance di vittoria in misura direttamente proporzionale alla sensazione di pericolo per la democrazia che avvertono gli italiani con Berlusconi, quindi piuttosto basse. A occhio e croce, è più probabile che gli elettori respingano una simile santa alleanza per quello che è: un inaccettabile e indecente guazzabuglio.

Ad un'attenta analisi, inoltre, le possibilità di Berlusconi di conquistare la maggioranza anche nel prossimo Senato con l'attuale legge elettorale sono molto maggiori di quanto si creda. E' vero, se la rischia più che alla Camera, ma perché si ritrovi con meno dei 161 seggi di cui dispone oggi senza i finiani, Fini e i centristi dovrebbe compiere un'autentica impresa. E' possibile, ma molto molto difficile. Che ne siano o meno consapevoli, è ovvio che Fli, Udc e Pd non chiederebbero di meglio che un governo 'ribaltonista' per cambiare la legge elettorale, contando nel frattempo sui soliti aiutini della Corte costituzionale e della magistratura. Un sistema senza premio di maggioranza, con soglie di sbarramento più generose, metà proporzionale metà uninominale, pure che mantenga l'indicazione del premier, permetterebbe a tutti di arrivare in Parlamento e mettersi insieme solo dopo il voto, escludendo Berlusconi. Su Di Pietro (che teme la concorrenza di tanto antiberlusconismo a destra), oltre che su Napolitano, può contare il Cav. affinché la via scelta sia quella delle urne.