Anche su Notapolitica e L'Opinione
L'intervento di Giovanni Orsina su La Stampa del 3 novembre ha il merito in indicare con precisione i tre dilemmi su cui si giocano l'identità e il futuro del centrodestra in Italia: bipolarismo, rivoluzione liberale, rapporti con l'Europa. Purtroppo, nel principale partito di centrodestra, il Pdl, sembra essere in corso una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi e ad esibirla nella propria teca, così da poter rivendicare il titolo di successore e garantirsi un futuro politico. Ma la leadership di Berlusconi è qualcosa che si può ereditare, o piuttosto si conquista sul campo incarnando ciò che di buono il berlusconismo ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra? Di fronte a questo spettacolo tra "falchi" e "colombe", "lealisti" e "governativi", è comprensibile guardare al dito anziché alla luna, e porsi dunque domande che Orsina definisce «miopi e contingenti».
Ma per quanto lo scontro in atto possa essere dominato da ambizioni (o miserie) personali, da una certa dose di reducismo e dai più futili motivi, è pur vero che ai diversi fronti contrapposti corrispondono in realtà altrettante visioni politiche su come dovrebbe essere il centrodestra italiano. Possiamo dunque ironizzare e dirci disgustati quanto vogliamo, ma qualcosa per cui valga la pena discutere e dividersi c'è eccome. Siamo infatti ad un crocevia. Con la rara e brevissima parentesi della destra storica l'Italia non aveva mai conosciuto una destra di governo, nonostante gli italiani "non di sinistra" siano probabilmente da sempre un'ampia maggioranza nel paese. La stessa idea di destra, o di centrodestra, è stata messa immediatamente al bando dopo il fascismo. Durante la Prima Repubblica abbiamo avuto prima un centro, poi un centrosinistra.
Silvio Berlusconi ha sdoganato l'idea di una destra di governo non solo e non tanto perché ha sdoganato gli ex-Msi, ma perché per la prima volta nella storia della Repubblica è riuscito a vincere le elezioni e a governare per molti anni a capo di una coalizione di centrodestra, in grado di non lasciare rilevanti vuoti politici né alla sua destra né al centro. Ora questa eredità è a rischio a causa dell'inevitabile tramonto della sua leadership: sia per errori suoi, sia per un'incessante opera di criminalizzazione giudiziaria e demonizzazione politico-culturale nei suoi confronti, non solo in quanto leader vincente ma forse soprattutto in quanto incarnazione di un centrodestra di governo, idea di per sé scandalosa e insopportabile agli occhi di molta parte dell'establishment, sia pubblico che privato, e della sinistra reduce del comunismo, ancora prigioniera del mito della resistenza tradita.
Ecco, dunque, il bivio: ipotesi a) torniamo verso un sistema (più simile a quello della Prima Repubblica) con un partito di centro e di governo, com'era la Dc, cioè incline ad una gestione consociativa e concertativa dello status quo, e una destra anche rilevante elettoralmente ma politicamente marginale. Si tratterebbe di un sistema potenzialmente a misura di Pd: avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili"). Ipotesi b) andiamo verso un sistema più compiutamente bipolare (una sorta di evoluzione e maturazione della Seconda Repubblica), in cui al di fuori di una coalizione o di un partito unitario di centrodestra non resta pressoché alcuno spazio politico.
Entrambi i blocchi che si stanno confrontando in questo momento nel Pdl sembrano puntare dritti verso il primo scenario, anche se ciascuno, in cuor suo, forse s'illude di lavorare al secondo. Il Pdl nella versione degli "alfaniani", "defalchizzandosi" e inseguendo il mito della stabilità a scapito del merito delle politiche, aprirebbe un fossato alla sua destra rischiando di ritrovarsi elettoralmente rilevante ma subalterno alla sinistra, in sostanza un avversario da battere agilmente o, al massimo, da cooptare in un governo di "larghe intese" qualora il Pd non trovasse alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, europea e di governo, c'è tutto.
Ciò che gli uni e gli altri dovrebbero capire è che se l'obiettivo è davvero un centrodestra maggioritario in un sistema bipolare, il Pdl (o Forza Italia, o comunque si chiamerà) ha bisogno sia dei falchi che delle colombe, dei moderati come degli intransigenti. Come ogni altro grande partito in una democrazia bipolare. Certo, poi non si possono non segnalare le contraddizioni delle attuali categorie, per cui gli esponenti di spicco degli "alfaniani" sono tra i più estremisti (vedi Giovanardi, Sacconi, Quagliariello, Formigoni, Roccella) su temi rispetto ai quali ormai qualsiasi destra con vocazione maggioritaria nel mondo occidentale non può più permettersi di arroccarsi. Se con il termine "moderati" si intende moderazione nelle politiche e una tendenza al compromesso, e con il termine "radicali" una maggiore nettezza identitaria e intransigenza, un partito di centrodestra che abbia vocazione maggioritaria e di governo in un sistema bipolare non può fare a meno né degli uni né degli altri.
A patto però - e torniamo ai «dilemmi» di cui parlava Orsina - che ci sia chiarezza sulle condizioni, riguardanti sia l'assetto del sistema politico sia l'identità del partito, alle quali può esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Insomma, tutti gli ingredienti del miglior berlusconismo, quello del '94. Non è che non possa esistere un centrodestra senza Berlusconi in persona. Ma o fa rima con il berlusconismo, nel senso degli ingredienti appena citati, o semplicemente non è. Diversamente, avremmo solo un centro e una destra, l'uno subalterno l'altra marginale.
La scelta bipolarista e presidenzialista dev'essere quindi netta e perseguita con determinazione, e su questo purtroppo l'ala governativa del Pdl è spesso ambigua. Non si tratta solo di sistemi elettorali o istituzionali: ad un esito neocentrista si può arrivare anche se ci si proclama (come da sempre Casini) alternativi alla sinistra, qualora una linea troppo compromissoria e rinunciataria su questioni fortemente identitarie finisca con il provocare una scissione, o del partito o dell'elettorato di centrodestra. E' vero che Berlusconi non ha mantenuto la grande promessa della "rivoluzione liberale", ma nell'elettorato la richiesta di vera e propria liberazione dall'oppressione fiscale e burocratica si è semmai accresciuta, assumendo toni esasperati. Tasse e giustizia sono forse i volti più emblematici e intollerabili dell'insano rapporto fra Stato e cittadini, che in Italia somiglia più al rapporto tra Sovrano assoluto e sudditi. Di qui la centralità delle tasse (da tagliare, tagliando la spesa pubblica) e della giustizia (da riformare).
Il problema dei "governativi" del Pdl è che accettando che l'esperienza delle "larghe intese" prosegua nonostante la decadenza di Berlusconi (per mano del partito alleato, prim'ancora che per effetto della mera applicazione di una sentenza di condanna), e mostrandosi disponibili a sacrificare sull'altare della "stabilità" anche temi centrali come tasse e giustizia, fino alla rottura con il proprio partito, hanno ridotto il loro potere contrattuale al tavolo del governo e alimentato nel Pd la tentazione di giocare sugli "strappi" per provocare la spaccatura del Pdl.
Quasi tutti i provvedimenti del Governo Letta prevedono nuove tasse come coperture finanziarie, anche la cancellazione delle rate Imu per il 2013, e la legge di stabilità per il 2014 prevede il ritorno dell'Imu sulla prima casa e un aggravio generale della tassazione sugli immobili e sul risparmio (una patrimoniale ormai vicina a 40 miliardi), a fronte di sgravi più che altro redistributivi, che a giudizio della Banca d'Italia non compensano nemmeno l'effetto del fiscal drag. La legge di stabilità, così com'è, è davvero invotabile per chiunque abbia in mente un futuro di centrodestra. D'altronde, sulle tasse la disponibilità al compromesso richiesta da Letta e Saccomanni, e che Alfano sembra pronto ad accordare, appare davvero incompatibile con lo spirito "rivoluzionario" del '94 (e del 2001) a cui tutti a parole dichiarano di voler tornare. Ai livelli a cui siamo giunti, un approccio radicale al tema delle tasse in Italia è l'unico plausibile per mantenere un rapporto con l'elettorato di centrodestra, a costo di venire accusati di populismo e irresponsabilità dalla sinistra.
La sensazione è che l'ala governativa del Pdl abbia anteposto la "stabilità" non solo alla difesa del suo leader da una prematura decadenza, ma anche al merito delle politiche e, ciò che è peggio, agli assi fondanti del berlusconismo, per il semplice calcolo che sopravvenendo a breve l'incandidabilità di Berlusconi proprio la durata del governo avrebbe di per sé garantito un morbido passaggio della leadership del partito ad Alfano, ancora segretario.
Riguardo l'Europa il discorso è più complesso. Sia "lealisti" che "governativi" sono ambigui. Come ha osservato Panebianco sul Corriere, occorre «evitare di esorcizzare l'ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passepartout (che non spiegano nulla) come il termine populista». Ma un centrodestra con vocazione maggioritaria e di governo non può nemmeno "flirtare" con pulsioni "no euro" e anti-tedesche, né con irrealistici isolazionismi dal sapore autarchico. Dunque, contestare la retorica europeista "mainstream", rappresentare con forza il più che fondato malcontento verso l'Europa che stiamo costruendo, un moloch burocratico e iper-statalista, ma la critica all'austerità da parte del centrodestra non può tradursi in nostalgia per le politiche fiscali lassiste e inflazionistiche, dovrebbe puntare a smontare la cultura economica dominante sia a Bruxelles che a Roma, per la quale tassare è l'unico modo per rispettare i vincoli di bilancio e gli investimenti pubblici l'unico per crescere.
Concludendo, la questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra o un centrodestra vincente e di governo, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte non solo degli avversari politici ma anche di poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro neo-democristiano culturalmente subalterno.
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Friday, November 08, 2013
Thursday, July 04, 2013
Letta brinda ma non ci serve più spesa
Anche su L'Opinione e Notapolitica
Altro che brindisi! Sarà un successo forse per il governo Letta, e per l'ex premier Monti, ma per l'Italia è una beffa, l'ennesima occasione sprecata. Cerco di spiegare perché. L'apertura del presidente della Commissione europea Barroso ad una maggiore flessibilità di bilancio (ma sempre al di sotto del tetto del 3%) per quei paesi usciti dalla procedura di deficit eccessivo sembra una buona notizia, ma al di là delle apparenze è la conferma del dramma continentale che stiamo vivendo. Un'Europa che impone ai paesi in crisi un'austerità cieca, perché incapace di distinguere, ferma restando la necessità di consolidamento dei conti pubblici, tra diverse politiche economiche, tra i diversi percorsi al risanamento, più o meno recessivi, che esistono e che vengono indicati anche dal presidente della Bce Draghi.
In questo senso, le parole di Barroso sono sintomatiche di un'Europa che non sa immaginare politiche per la crescita se non all'interno della cornice della spesa pubblica: più spesa, più crescita, è l'unica equazione che sembrano conoscere non solo a Roma, ma anche a Bruxelles. Ma leggiamole attentamente le dichiarazioni di Barroso: «Quando la Commissione valuterà i bilanci nazionali per il 2014 e i risultati di bilancio del 2013, deciderà caso per caso se permettere, sempre nel pieno rispetto del Patto di stabilità, deviazioni temporanee del deficit strutturale dal suo percorso verso gli obiettivi di medio termine fissati nelle raccomandazioni specifiche per Paese». Tali "deviazioni", cioè la maggiore flessibilità di bilancio concessa, ha precisato Barroso, «dovranno essere collegate alla spesa nazionale su progetti cofinanziati dall'Ue nell'ambito della politica di coesione, delle reti transeuropee Ten o di Connecting Europe, con un effetto sul bilancio positivo, diretto, verificabile e di lungo termine».
Innanzitutto, nulla di nuovo: sapevamo già che come premio per l'uscita dalla procedura di deficit eccessivo ci sarebbe stato concesso di discostarci dagli obiettivi di medio termine per il pareggio di bilancio, ma sempre restando al di sotto del tetto del 3% imposto dal Patto di stabilità. Il che in termini concreti per noi significa - se le previsioni del Pil e del fabbisogno pubblico saranno rispettate, e se il mercato dei nostri titoli di Stato non subirà scossoni - che avremo nel 2014, tra il deficit previsto al 2,4% e il tetto del 3%, comunque da rispettare, un margine di manovra di circa lo 0,5% del Pil, ossia 7-8 miliardi.
Dove sta la beffa, dunque? Ci viene sì concesso un margine di manovra, ma ci viene anche detto come dobbiamo utilizzarlo: non per la riduzione delle tasse di cui la nostra economia ha disperato bisogno, ma per fantomatici «investimenti produttivi». E il principale criterio per attribuirgli o meno questa patente di "produttività" sarà l'essere "agganciati" a progetti cofinanziati dall'Ue, nell'ambito della politica di coesione e delle reti. Ma se gli investimenti pubblici di cui si parla fossero davvero produttivi, in quest'ultimo decennio di programmi europei il nostro Pil sarebbe schizzato alle stelle.
L'Italia ha certamente bisogno di investimenti, ma non dei cosiddetti «investimenti pubblici produttivi», che alla fin dei conti non si sono mai rivelati tali. Sia per la lentezza nell'avvio di questi progetti, e per le note difficoltà dell'Italia a spendere i fondi europei, sia perché gli "investimenti" finiscono il più delle volte ai soliti attori economici, che o sono inefficienti o non ne avrebbero bisogno. Per richiamare investimenti privati, e perché siano davvero produttivi, lo Stato deve alleggerire il suo peso sull'economia, deve abbassare le sue pretese fiscali e burocratiche. Non ci sono scorciatoie.
A parte il fatto che stiamo festeggiando, ma quel margine dobbiamo ancora conquistarcelo (ed è a rischio se la stima del Pil dovesse peggiorare ancora), oggi il premier Letta brinda, insieme ai ministri del Pdl, perché l'Ue ci concede di spendere di più quando l'Italia sta morendo proprio di questo, di troppa spesa, quindi dovrebbe esigere dall'Europa di poter utilizzare qualsiasi flessibilità di bilancio dovesse manifestarsi per ridurre la pressione fiscale, per esempio il costo del lavoro. E il Pdl non sembra accorgersi che proprio alle direttive di Barroso farà ricorso Letta per spiegare che i ristrettissimi margini che ci saranno nel 2014 non potranno essere usati per tagliare le tasse.
Altro che brindisi! Sarà un successo forse per il governo Letta, e per l'ex premier Monti, ma per l'Italia è una beffa, l'ennesima occasione sprecata. Cerco di spiegare perché. L'apertura del presidente della Commissione europea Barroso ad una maggiore flessibilità di bilancio (ma sempre al di sotto del tetto del 3%) per quei paesi usciti dalla procedura di deficit eccessivo sembra una buona notizia, ma al di là delle apparenze è la conferma del dramma continentale che stiamo vivendo. Un'Europa che impone ai paesi in crisi un'austerità cieca, perché incapace di distinguere, ferma restando la necessità di consolidamento dei conti pubblici, tra diverse politiche economiche, tra i diversi percorsi al risanamento, più o meno recessivi, che esistono e che vengono indicati anche dal presidente della Bce Draghi.
In questo senso, le parole di Barroso sono sintomatiche di un'Europa che non sa immaginare politiche per la crescita se non all'interno della cornice della spesa pubblica: più spesa, più crescita, è l'unica equazione che sembrano conoscere non solo a Roma, ma anche a Bruxelles. Ma leggiamole attentamente le dichiarazioni di Barroso: «Quando la Commissione valuterà i bilanci nazionali per il 2014 e i risultati di bilancio del 2013, deciderà caso per caso se permettere, sempre nel pieno rispetto del Patto di stabilità, deviazioni temporanee del deficit strutturale dal suo percorso verso gli obiettivi di medio termine fissati nelle raccomandazioni specifiche per Paese». Tali "deviazioni", cioè la maggiore flessibilità di bilancio concessa, ha precisato Barroso, «dovranno essere collegate alla spesa nazionale su progetti cofinanziati dall'Ue nell'ambito della politica di coesione, delle reti transeuropee Ten o di Connecting Europe, con un effetto sul bilancio positivo, diretto, verificabile e di lungo termine».
Innanzitutto, nulla di nuovo: sapevamo già che come premio per l'uscita dalla procedura di deficit eccessivo ci sarebbe stato concesso di discostarci dagli obiettivi di medio termine per il pareggio di bilancio, ma sempre restando al di sotto del tetto del 3% imposto dal Patto di stabilità. Il che in termini concreti per noi significa - se le previsioni del Pil e del fabbisogno pubblico saranno rispettate, e se il mercato dei nostri titoli di Stato non subirà scossoni - che avremo nel 2014, tra il deficit previsto al 2,4% e il tetto del 3%, comunque da rispettare, un margine di manovra di circa lo 0,5% del Pil, ossia 7-8 miliardi.
Dove sta la beffa, dunque? Ci viene sì concesso un margine di manovra, ma ci viene anche detto come dobbiamo utilizzarlo: non per la riduzione delle tasse di cui la nostra economia ha disperato bisogno, ma per fantomatici «investimenti produttivi». E il principale criterio per attribuirgli o meno questa patente di "produttività" sarà l'essere "agganciati" a progetti cofinanziati dall'Ue, nell'ambito della politica di coesione e delle reti. Ma se gli investimenti pubblici di cui si parla fossero davvero produttivi, in quest'ultimo decennio di programmi europei il nostro Pil sarebbe schizzato alle stelle.
L'Italia ha certamente bisogno di investimenti, ma non dei cosiddetti «investimenti pubblici produttivi», che alla fin dei conti non si sono mai rivelati tali. Sia per la lentezza nell'avvio di questi progetti, e per le note difficoltà dell'Italia a spendere i fondi europei, sia perché gli "investimenti" finiscono il più delle volte ai soliti attori economici, che o sono inefficienti o non ne avrebbero bisogno. Per richiamare investimenti privati, e perché siano davvero produttivi, lo Stato deve alleggerire il suo peso sull'economia, deve abbassare le sue pretese fiscali e burocratiche. Non ci sono scorciatoie.
A parte il fatto che stiamo festeggiando, ma quel margine dobbiamo ancora conquistarcelo (ed è a rischio se la stima del Pil dovesse peggiorare ancora), oggi il premier Letta brinda, insieme ai ministri del Pdl, perché l'Ue ci concede di spendere di più quando l'Italia sta morendo proprio di questo, di troppa spesa, quindi dovrebbe esigere dall'Europa di poter utilizzare qualsiasi flessibilità di bilancio dovesse manifestarsi per ridurre la pressione fiscale, per esempio il costo del lavoro. E il Pdl non sembra accorgersi che proprio alle direttive di Barroso farà ricorso Letta per spiegare che i ristrettissimi margini che ci saranno nel 2014 non potranno essere usati per tagliare le tasse.
Tuesday, January 22, 2013
Mario vs Mario, è Draghi a smentire Monti
Falso che il premier non avesse altra scelta che aumentare le tasse
Anche su Notapolitica e L'Opinione
«Ridurre le esigenze di finanziamento dell'Italia era un imperativo, ma poteva esser fatto solo alzando le tasse». E' sull'idea che non avesse altra scelta che aumentare le tasse per affrontare l'emergenza finanziaria del novembre scorso che il premier Mario Monti fonda la sua difesa dalle critiche dell'editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau. Una linea difensiva però molto debole, perché già smentita non oggi, non ieri, ma quasi un anno fa, il 23 febbraio scorso, e non da un oppositore politico, né dai colleghi professori-editorialisti che tanto lo irritano, ma da un altro Mario, il presidente della Bce Draghi. Il quale, in una lunga intervista al Wall Street Journal ammetteva che «non c'è alternativa al consolidamento fiscale», cioè alle politiche di austerità, aggiungendo però che c'è modo e modo di consolidare i bilanci pubblici, c'è un'austerità «buona» e una «cattiva». E quale delle due ha perseguito Monti? Indovinato. «Un buon consolidamento è quello in cui le tasse sono più basse», spiegava Draghi, mentre «il cattivo consolidamento è in effetti più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri alzando le tasse e tagliando la spesa per investimenti, che è più facile da fare che tagliare la spesa corrente. In un certo senso è la via più facile, ma non è una buona via, perché deprime il potenziale di crescita». In numerose altre occasioni Draghi ha ripetuto che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse», ma su tagli alla spesa corrente.
Ecco confutata, dunque, in questo dialogo indiretto ma per nulla immaginario, la tesi del premier secondo cui non avrebbe avuto scelta, solo aumentando le tasse poteva salvare l'Italia. Un enorme equivoco falsa il dibattito pubblico sull'austerità. Senza rigore nei conti pubblici non solo non può esserci crescita, ma si rischia il default, e una crisi europea (e mondiale) catastrofica. Non emerge, però, che la disputa non è solo tra pro e contro l'austerità, ma anche tra due diverse politiche di austerità: aumentare le tasse o tagliare le spese. E «l'evidenza empirica - sostengono Alesina e Giavazzi - dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro, comportano costi di gran lunga inferiori rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l'austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave». Dunque, il premier aveva due strade tra cui optare, nell'ambito dell'austerità, ma ha scelto quella sbagliata.
«L'aggiustamento è stato progressivamente ribilanciato» sui tagli alla spesa, obietta ancora Monti. Ma anche questo non corrisponde al vero, perché nemmeno un centesimo dei timidi tagli previsti (non ancora prodotti) dalla spending review è stato destinato ad alleggerire la pressione fiscale, dunque non si può parlare di «ribilanciamento».
Nella sua intervista Draghi non negava che nel breve termine l'austerità comportasse effetti recessivi, ma avvertiva che se accompagnata da riforme strutturali, nel mercato dei servizi e del lavoro, avrebbe portato ad una crescita sostenibile nel medio-lungo termine. Ebbene, le riforme partorite dal governo Monti si sono rivelate un bluff: timide, ai limiti del patetico, le liberalizzazioni; controproducente la riforma del mercato del lavoro, che ha reintrodotto rigidità in entrata senza superare le incertezze giuridiche legate all'articolo 18.
Monti si giustifica chiamando in causa la «mancanza di una vera maggioranza in Parlamento». Un argomento che sfiora il ridicolo, avendo goduto di una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana: oltre l'80% delle forze parlamentari. E se è vero che partiti e lobby hanno opposto resistenza alle riforme, è anche vero che per almeno i primi sei mesi non avrebbero potuto mai e poi mai assumersi la responsabilità di mandare a casa Monti. Ciò significa che il premier aveva la forza politica e l'autorevolezza per imporre praticamente qualsiasi scelta di politica economica.
Nell'editoriale "riparatore" il Financial Times mostra di puntare, nonostante tutto, sulla coppia Bersani-Monti, ai quali però non risparmia una pesante critica di fondo: «Nessuno dei due ha ancora esposto una convincente visione economica del paese». A Berlusconi riconosce «elementi ragionevoli» nel programma elettorale, ma nessuna credibilità, mentre Bersani e Monti hanno entrambi «credibilità personale», ma il primo «deve dimostrare che non sarà ostaggio dalla sinistra, che si oppone a riformare un mercato del lavoro inefficiente», mentre al secondo fa notare che la nostra produttività è «stagnante» e che tra i paesi eurodeboli - Spagna, Portogallo e Irlanda - l'Italia è l'unico in cui il costo del lavoro non è diminuito.
Anche su Notapolitica e L'Opinione
«Ridurre le esigenze di finanziamento dell'Italia era un imperativo, ma poteva esser fatto solo alzando le tasse». E' sull'idea che non avesse altra scelta che aumentare le tasse per affrontare l'emergenza finanziaria del novembre scorso che il premier Mario Monti fonda la sua difesa dalle critiche dell'editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau. Una linea difensiva però molto debole, perché già smentita non oggi, non ieri, ma quasi un anno fa, il 23 febbraio scorso, e non da un oppositore politico, né dai colleghi professori-editorialisti che tanto lo irritano, ma da un altro Mario, il presidente della Bce Draghi. Il quale, in una lunga intervista al Wall Street Journal ammetteva che «non c'è alternativa al consolidamento fiscale», cioè alle politiche di austerità, aggiungendo però che c'è modo e modo di consolidare i bilanci pubblici, c'è un'austerità «buona» e una «cattiva». E quale delle due ha perseguito Monti? Indovinato. «Un buon consolidamento è quello in cui le tasse sono più basse», spiegava Draghi, mentre «il cattivo consolidamento è in effetti più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri alzando le tasse e tagliando la spesa per investimenti, che è più facile da fare che tagliare la spesa corrente. In un certo senso è la via più facile, ma non è una buona via, perché deprime il potenziale di crescita». In numerose altre occasioni Draghi ha ripetuto che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse», ma su tagli alla spesa corrente.
Ecco confutata, dunque, in questo dialogo indiretto ma per nulla immaginario, la tesi del premier secondo cui non avrebbe avuto scelta, solo aumentando le tasse poteva salvare l'Italia. Un enorme equivoco falsa il dibattito pubblico sull'austerità. Senza rigore nei conti pubblici non solo non può esserci crescita, ma si rischia il default, e una crisi europea (e mondiale) catastrofica. Non emerge, però, che la disputa non è solo tra pro e contro l'austerità, ma anche tra due diverse politiche di austerità: aumentare le tasse o tagliare le spese. E «l'evidenza empirica - sostengono Alesina e Giavazzi - dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro, comportano costi di gran lunga inferiori rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l'austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave». Dunque, il premier aveva due strade tra cui optare, nell'ambito dell'austerità, ma ha scelto quella sbagliata.
«L'aggiustamento è stato progressivamente ribilanciato» sui tagli alla spesa, obietta ancora Monti. Ma anche questo non corrisponde al vero, perché nemmeno un centesimo dei timidi tagli previsti (non ancora prodotti) dalla spending review è stato destinato ad alleggerire la pressione fiscale, dunque non si può parlare di «ribilanciamento».
Nella sua intervista Draghi non negava che nel breve termine l'austerità comportasse effetti recessivi, ma avvertiva che se accompagnata da riforme strutturali, nel mercato dei servizi e del lavoro, avrebbe portato ad una crescita sostenibile nel medio-lungo termine. Ebbene, le riforme partorite dal governo Monti si sono rivelate un bluff: timide, ai limiti del patetico, le liberalizzazioni; controproducente la riforma del mercato del lavoro, che ha reintrodotto rigidità in entrata senza superare le incertezze giuridiche legate all'articolo 18.
Monti si giustifica chiamando in causa la «mancanza di una vera maggioranza in Parlamento». Un argomento che sfiora il ridicolo, avendo goduto di una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana: oltre l'80% delle forze parlamentari. E se è vero che partiti e lobby hanno opposto resistenza alle riforme, è anche vero che per almeno i primi sei mesi non avrebbero potuto mai e poi mai assumersi la responsabilità di mandare a casa Monti. Ciò significa che il premier aveva la forza politica e l'autorevolezza per imporre praticamente qualsiasi scelta di politica economica.
Nell'editoriale "riparatore" il Financial Times mostra di puntare, nonostante tutto, sulla coppia Bersani-Monti, ai quali però non risparmia una pesante critica di fondo: «Nessuno dei due ha ancora esposto una convincente visione economica del paese». A Berlusconi riconosce «elementi ragionevoli» nel programma elettorale, ma nessuna credibilità, mentre Bersani e Monti hanno entrambi «credibilità personale», ma il primo «deve dimostrare che non sarà ostaggio dalla sinistra, che si oppone a riformare un mercato del lavoro inefficiente», mentre al secondo fa notare che la nostra produttività è «stagnante» e che tra i paesi eurodeboli - Spagna, Portogallo e Irlanda - l'Italia è l'unico in cui il costo del lavoro non è diminuito.
Tuesday, December 11, 2012
Per le riforme serve un mandato politico
«Ci dice qualcosa sulla situazione della politica italiana che ciò che i mercati sembrano temere di più è una fiammata di democrazia. Ma forse la vera lezione qui è che l'Italia - e il resto d'Europa - ha bisogno di una classe politica capace di generare consenso popolare per le riforme, piuttosto che cercare costantemente di imporle dall'alto».Saggia riflessione quella del Wall Street Journal nell'edizione odierna. Lo slancio riformatore di un governo tecnico, anche il più autorevole, non è durevole, le sue riforme non irreversibili e comunque parziali e insufficienti. Il quotidiano però boccia l'attuale offerta politica: Bersani resta inaffidabile, nonostante la rassicurante intervista proprio al WSJ, perché troppo «dipendente» dall'estrema sinistra, e di Berlusconi si ricorda «il fallimento nel mantenere le promesse», nonostante il «chiaro mandato» per le riforme liberali, e che oggi, elettoralmente, secondo i sondaggi, il suo partito vale la metà di quello di Bersani.
«Qualcuno - conclude il WSJ - ha visto in Monti un'occasione per realizzare con mezzi tecnocratici ciò che il corso ordinario della politica italiana aveva mancato di realizzare». Ma una vasta riforma dell'economia, perché sia accettata in democrazia, deve avere un «mandato». «Monti non ne ha mai avuto uno e quindi è stato limitato in ciò che ha potuto fare. Adesso, grazie alla credibilità a pezzi di Berlusconi, la destra riformista è priva di un serio leader proprio nel momento in cui l'Italia ne ha più bisogno».
Anche l'altro autorevole quotidiano finanziario, il Financial Times, non mostra il minimo rimpianto per la stagione dei tecnici, anzi «il ritorno della politica a Roma è benvenuto». «La parentesi tecnocratica era necessaria per aiutare l'Italia a restaurare la sua credibilità, ma solo un governo eletto avrà la legittimazione per completare le riforme di cui l'Italia ha bisogno». Certo, «sfortunatamente» l'offerta politica sembra «inadeguata allo scopo». Per diversi motivi, che possiamo facilmente intuire, il quotidiano boccia Berlusconi, Grillo, ma anche Bersani. Vede invece uno «spazio politico» per Monti: «La sua presenza nella contesa elettorale darebbe agli elettori maggiore scelta e porterebbe la qualità necessaria nella politica italiana». Da "grand commis" è preoccupato di perdere il suo ruolo super-partes. «Ma in questo passaggio critico, i suoi istinti liberali potrebbero essere un'alternativa vincente al populismo di Berlusconi e un utile contrappeso al dubbio spirito riformista dei Democratici», conclude il Ft, dando l'impressione di protendere per un Monti alternativo a Berlusconi ma complementare, invece, a Bersani.
Anti-montiano, invece, fino al punto di concedere all'odiato Berlusconi qualche ragione, l'editoriale di Wolfganf Munchau, per il quale Monti è stato «una bolla» - un bluff, insomma, quante volte l'ho scritto su questo blog - buona finché politica e mercati ci credono, ma non si tarderà a scoprire che «nell'anno trascorso poco è davvero cambiato, tranne il fatto che l'economia è caduta in una profonda depressione».
I problemi dell'Italia si possono risolvere solo "politicamente" e «per quanto Berlusconi possa essere stato incapace e comico nel suo ultimo mandato, la sua diagnosi dei problemi dell'Italia è esatta», riconosce Munchau, coerente con la sua linea anti-austerità. Quindi suggerisce 1) di ribaltare l'operato di Monti (gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa); 2) di contrapporsi ad Angela Merkel, cosa che Monti non ha voluto, o è stato incapace di fare.
Curiosamente c'è una linea sottile che sembra unire certi autorevoli commentatori ed economisti, nostrani e non, il politico più screditato del continente (Berlusconi) e la sinistra più conservatrice: il rifiuto dell'austerity in qualsiasi forma si presenti, senza distinguere tra un rigore solo depressivo e una via virtuosa - possibile - al risanamento.
Monti, che si prepara a guardare da bordo campo la partita, pur senza rinunciare a "orientare" le scelte dei cittadini, dovrebbe riflettere su quanto scrivono WSJ e Ft circa la necessità di un mandato politico forte per le riforme economiche. Se pensa che basti tornare a Palazzo Chigi anche senza prima accettare il giudizio/raccogliere il consenso degli italiani, sostenuto da una coalizione post-voto tra progressisti e moderati, o addirittura di "garantire" per essa dal Colle, si sbaglia di grosso e sciupa un'occasione storica.
Di segno opposto il suggerimento di Angelo Panebianco: candidarsi per intercettare l'elettorato deluso da Berlusconi ma che non si rassegna ad affidarsi alla sinistra (o ad un'offerta di centro che odora di alleanza con la sinistra, aggiungo io). A quel punto la «misteriosa agenda Monti» dovrebbe diventare un programma, facendo cadere parecchi alibi: si potrebbe valutare la vera cifra riformatrice del professore e di chi oggi chiede voti in suo nome ma non su un programma concreto. Ma senza un'indicazione precisa, avverte Panebianco, sull'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese, e sul "come", marcando quindi una discontinuità rispetto alla politica fiscale di questi 12 mesi, difficilmente Monti potrebbe conquistare quell'elettorato.
Thursday, November 15, 2012
In piazza l'ideologia non il disagio
Le buone ragioni di chi - famiglie e imprese - è massacrato di tasse da uno Stato che non vuole dimagrire, da un governo che interpreta l'austerità come dieta da infliggere ai cittadini (mentre il risanamento dev'essere centrato su riduzioni della spesa e non su aumenti delle tasse, ripete Draghi), non si difendono confondendole con gli slogan dei manifestanti di ieri, scesi in piazza per preservare un modello sociale insostenibile e rivendicarne uno ancor più insostenibile, da finanziare ovviamente con più patrimoniali, e le cui proteste - per altro violente - hanno a che fare più con vecchie ideologie, rigurgiti dalla pattumiera della storia, che con un reale disagio sociale, come l'esperienza degli anni passati dovrebbe insegnarci. Passato solo un anno, già ci siamo scordati la lezione del 15 ottobre scorso a Roma e vengono poste sullo stesso piano le «due violenze», quella dei manifestanti e quella delle forze dell'ordine.
Ancora una volta si torna a distinguere, come fa Giannini su la Repubblica, tra «le intemperanze di una minoranza facinorosa, anarco-insurrezionalista», e le «ragioni di una maggioranza rumorosa», in una sorta di riedizione dei "compagni che sbagliano". Ovviamente i violenti - minoritari ma non così pochi - meritano solo manganellate, mentre il diritto a manifestare pacificamente è sacrosanto. Ma l'ideologia, molto più che il disagio sociale, che muove gli uni e gli altri, è la stessa: è l'ideologia statalista e assistenzialista, dunque conservatrice e regressiva. Diciamolo forte e chiaro: non è che quelli che distruggono banche e assaltano le forze dell'ordine, o inneggiano a Saddam Hussein, hanno torto solo perché sono violenti, mentre gli altri hanno ragione. Hanno torto entrambi, perché entrambi la pensano allo stesso modo, si differenziano solo nell'"azione", nelle modalità della loro lotta al "sistema". Una generazione, ma forse più d'una, è stata «derubata del futuro», non c'è dubbio, ma non a causa delle politiche di austerità, bensì del debito pubblico e della scarsa crescita economica causati proprio dal modello sociale che con forme di protesta come l'Eurostrike di ieri si vuole difendere.
Ciò per cui lottano i manifestanti scesi in piazza ieri è esattamente ciò che ci ha portati in questa crisi, è parte, almeno una gran parte del problema, non della soluzione. Non chiedono meno Stato e meno tasse, chiedono istruzione e sanità gratuite, posto fisso e ben retribuito (perché il lavoro è un diritto, non una merce), di andare in pensione prima possibile, insomma un percorso di vita, dalla culla alla tomba, in cui tutto è dovuto, garantito, a prescindere da meriti e responsabilità individuali, e naturalmente a spese di qualcun altro (e se i soldi non bastano, che si stampi moneta fasulla).
Gli studenti veri - quelli che studiano davvero, o vorrebbero studiare, e non i fancazzisti, baby professionisti della protesta permanente - sono «umiliati» non da «anni di tagli alla scuola pubblica» (ma de' che?), ma da un'istruzione che costa tanto (anche alla famiglia che non manderà mai i suoi figli all'università!) e produce poco, di qualità scadente, e non perché manchino le risorse ma perché vengono gestite male, in modo improduttivo e anti-meritocratico da una casta di irresponsabili.
La cosa più avvilente, però, è vedere come pur di prendersela con Monti e con le istituzioni europee anche giornali e commentatori di destra, sedicenti liberali o dell'establishment arrivino ad attribuire dignità di «disagio», di «scontro sociale», a scioperi e manifestazioni che da sempre prendono a pretesto qualsiasi cosa per sfogare una rabbia ideologica, strumentalizzando un'ignoranza di massa abissale. Naturalmente Monti e le istituzioni europee sono criticabilissimi - e su questo blog non ho certo risparmiato critiche - ma per motivi esattamente opposti a quelli sbandierati in piazza ieri.
Ancora una volta si torna a distinguere, come fa Giannini su la Repubblica, tra «le intemperanze di una minoranza facinorosa, anarco-insurrezionalista», e le «ragioni di una maggioranza rumorosa», in una sorta di riedizione dei "compagni che sbagliano". Ovviamente i violenti - minoritari ma non così pochi - meritano solo manganellate, mentre il diritto a manifestare pacificamente è sacrosanto. Ma l'ideologia, molto più che il disagio sociale, che muove gli uni e gli altri, è la stessa: è l'ideologia statalista e assistenzialista, dunque conservatrice e regressiva. Diciamolo forte e chiaro: non è che quelli che distruggono banche e assaltano le forze dell'ordine, o inneggiano a Saddam Hussein, hanno torto solo perché sono violenti, mentre gli altri hanno ragione. Hanno torto entrambi, perché entrambi la pensano allo stesso modo, si differenziano solo nell'"azione", nelle modalità della loro lotta al "sistema". Una generazione, ma forse più d'una, è stata «derubata del futuro», non c'è dubbio, ma non a causa delle politiche di austerità, bensì del debito pubblico e della scarsa crescita economica causati proprio dal modello sociale che con forme di protesta come l'Eurostrike di ieri si vuole difendere.
Ciò per cui lottano i manifestanti scesi in piazza ieri è esattamente ciò che ci ha portati in questa crisi, è parte, almeno una gran parte del problema, non della soluzione. Non chiedono meno Stato e meno tasse, chiedono istruzione e sanità gratuite, posto fisso e ben retribuito (perché il lavoro è un diritto, non una merce), di andare in pensione prima possibile, insomma un percorso di vita, dalla culla alla tomba, in cui tutto è dovuto, garantito, a prescindere da meriti e responsabilità individuali, e naturalmente a spese di qualcun altro (e se i soldi non bastano, che si stampi moneta fasulla).
Gli studenti veri - quelli che studiano davvero, o vorrebbero studiare, e non i fancazzisti, baby professionisti della protesta permanente - sono «umiliati» non da «anni di tagli alla scuola pubblica» (ma de' che?), ma da un'istruzione che costa tanto (anche alla famiglia che non manderà mai i suoi figli all'università!) e produce poco, di qualità scadente, e non perché manchino le risorse ma perché vengono gestite male, in modo improduttivo e anti-meritocratico da una casta di irresponsabili.
La cosa più avvilente, però, è vedere come pur di prendersela con Monti e con le istituzioni europee anche giornali e commentatori di destra, sedicenti liberali o dell'establishment arrivino ad attribuire dignità di «disagio», di «scontro sociale», a scioperi e manifestazioni che da sempre prendono a pretesto qualsiasi cosa per sfogare una rabbia ideologica, strumentalizzando un'ignoranza di massa abissale. Naturalmente Monti e le istituzioni europee sono criticabilissimi - e su questo blog non ho certo risparmiato critiche - ma per motivi esattamente opposti a quelli sbandierati in piazza ieri.
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