Falso che il premier non avesse altra scelta che aumentare le tasse
Anche su Notapolitica e L'Opinione
«Ridurre le esigenze di finanziamento dell'Italia era un imperativo, ma poteva esser fatto solo alzando le tasse». E' sull'idea che non avesse altra scelta che aumentare le tasse per affrontare l'emergenza finanziaria del novembre scorso che il premier Mario Monti fonda la sua difesa dalle critiche dell'editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau. Una linea difensiva però molto debole, perché già smentita non oggi, non ieri, ma quasi un anno fa, il 23 febbraio scorso, e non da un oppositore politico, né dai colleghi professori-editorialisti che tanto lo irritano, ma da un altro Mario, il presidente della Bce Draghi. Il quale, in una lunga intervista al Wall Street Journal ammetteva che «non c'è alternativa al consolidamento fiscale», cioè alle politiche di austerità, aggiungendo però che c'è modo e modo di consolidare i bilanci pubblici, c'è un'austerità «buona» e una «cattiva». E quale delle due ha perseguito Monti? Indovinato. «Un buon consolidamento è quello in cui le tasse sono più basse», spiegava Draghi, mentre «il cattivo consolidamento è in effetti più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri alzando le tasse e tagliando la spesa per investimenti, che è più facile da fare che tagliare la spesa corrente. In un certo senso è la via più facile, ma non è una buona via, perché deprime il potenziale di crescita». In numerose altre occasioni Draghi ha ripetuto che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse», ma su tagli alla spesa corrente.
Ecco confutata, dunque, in questo dialogo indiretto ma per nulla immaginario, la tesi del premier secondo cui non avrebbe avuto scelta, solo aumentando le tasse poteva salvare l'Italia. Un enorme equivoco falsa il dibattito pubblico sull'austerità. Senza rigore nei conti pubblici non solo non può esserci crescita, ma si rischia il default, e una crisi europea (e mondiale) catastrofica. Non emerge, però, che la disputa non è solo tra pro e contro l'austerità, ma anche tra due diverse politiche di austerità: aumentare le tasse o tagliare le spese. E «l'evidenza empirica - sostengono Alesina e Giavazzi - dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro, comportano costi di gran lunga inferiori rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l'austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave». Dunque, il premier aveva due strade tra cui optare, nell'ambito dell'austerità, ma ha scelto quella sbagliata.
«L'aggiustamento è stato progressivamente ribilanciato» sui tagli alla spesa, obietta ancora Monti. Ma anche questo non corrisponde al vero, perché nemmeno un centesimo dei timidi tagli previsti (non ancora prodotti) dalla spending review è stato destinato ad alleggerire la pressione fiscale, dunque non si può parlare di «ribilanciamento».
Nella sua intervista Draghi non negava che nel breve termine l'austerità comportasse effetti recessivi, ma avvertiva che se accompagnata da riforme strutturali, nel mercato dei servizi e del lavoro, avrebbe portato ad una crescita sostenibile nel medio-lungo termine. Ebbene, le riforme partorite dal governo Monti si sono rivelate un bluff: timide, ai limiti del patetico, le liberalizzazioni; controproducente la riforma del mercato del lavoro, che ha reintrodotto rigidità in entrata senza superare le incertezze giuridiche legate all'articolo 18.
Monti si giustifica chiamando in causa la «mancanza di una vera maggioranza in Parlamento». Un argomento che sfiora il ridicolo, avendo goduto di una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana: oltre l'80% delle forze parlamentari. E se è vero che partiti e lobby hanno opposto resistenza alle riforme, è anche vero che per almeno i primi sei mesi non avrebbero potuto mai e poi mai assumersi la responsabilità di mandare a casa Monti. Ciò significa che il premier aveva la forza politica e l'autorevolezza per imporre praticamente qualsiasi scelta di politica economica.
Nell'editoriale "riparatore" il Financial Times mostra di puntare, nonostante tutto, sulla coppia Bersani-Monti, ai quali però non risparmia una pesante critica di fondo: «Nessuno dei due ha ancora esposto una convincente visione economica del paese». A Berlusconi riconosce «elementi ragionevoli» nel programma elettorale, ma nessuna credibilità, mentre Bersani e Monti hanno entrambi «credibilità personale», ma il primo «deve dimostrare che non sarà ostaggio dalla sinistra, che si oppone a riformare un mercato del lavoro inefficiente», mentre al secondo fa notare che la nostra produttività è «stagnante» e che tra i paesi eurodeboli - Spagna, Portogallo e Irlanda - l'Italia è l'unico in cui il costo del lavoro non è diminuito.
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Tuesday, January 22, 2013
Monday, January 21, 2013
Monti un bluff conclamato
Il discusso editoriale di Wolfgang Münchau sul Financial Times va letto innanzitutto in chiave anti-austerità e anti-Merkel. E' in base a tali criteri che giudica le tre principali offerte politiche in Italia, evidenziandone i limiti e giungendo a conclusioni pessimistiche (e purtroppo fondate). A Monti essenzialmente rimprovera di aver «sottovalutato il prevedibile impatto dell'austerità» e di non essersi opposto ad Angela Merkel. Ma questo non deve suonare come un endorsement a favore di Berlusconi. Tutt'altro. All'ex premier riconosce una «buona campagna», all'insegna di un «messaggio anti-austerità», ma non la credibilità necessaria: sono solo slogan. Piuttosto, è a Bersani che Münchau sembra guardare con più indulgenza: di recente il segretario del Pd ha provato a prendere le distanze dalle politiche di austerità e c'è una possibilità leggermente superiore che riesca a tenere testa alla Merkel, «perché in una posizione migliore per fare squadra con Hollande».
Comunque sia, che la vediate "da destra" o "da sinistra", che vi iscriviate alla prima, alla seconda o alla terza delle tre opzioni anti-crisi delineate da Münchau (restare nell'euro e sopportare da soli l'intero peso dell'aggiustamento, fiscale ed economico; restare nell'euro, a condizione di un aggiustamento condiviso e simmetrico tra paesi debitori e creditori; uscire dall'euro), un paio di verità incontestabili e senza attenuanti su Monti emergono: 1) ha solo aumentato le tasse, mentre le timide riforme strutturali che ha cercato di introdurre sono state «annacquate fino all'irrilevanza macroeconomica»; 2) racconta di aver salvato l'Italia dal baratro, ma il calo dello spread e dei rendimenti si deve alle iniziative di un altro Mario - Draghi, presidente della Bce - e gli italiani lo sanno bene.
Che siate acerrimi oppositori delle politiche di austerità imposte da Berlino, come Seminerio, per intenderci, o che invece vi convinca di più la prima opzione (la via "virtuosa" al risanamento attraverso tagli di spesa, debito e tasse - quella di Giannino), da qualsiasi punto di vista, insomma, Monti è stato un fallimento, o un bluff, come scrivo ormai da mesi. Riconoscerlo non significa essere berlusconiani né di sinistra.
Monti non si è opposto alla Merkel - se pensate come Münchau che avrebbe dovuto farlo - né ha realizzato le necessarie riforme strutturali (nemmeno in campagna elettorale, finora, ha proposto qualcosa di concreto). Si è limitato ad alzare le tasse per aggiustare i conti nel breve termine e guadagnare tempo in attesa che la tempesta finisse. Quella che l'editorialista del FT chiama la «quarta opzione», in realtà una falsa pista che presto o tardi riporta alle prime tre opzioni.
Comunque sia, che la vediate "da destra" o "da sinistra", che vi iscriviate alla prima, alla seconda o alla terza delle tre opzioni anti-crisi delineate da Münchau (restare nell'euro e sopportare da soli l'intero peso dell'aggiustamento, fiscale ed economico; restare nell'euro, a condizione di un aggiustamento condiviso e simmetrico tra paesi debitori e creditori; uscire dall'euro), un paio di verità incontestabili e senza attenuanti su Monti emergono: 1) ha solo aumentato le tasse, mentre le timide riforme strutturali che ha cercato di introdurre sono state «annacquate fino all'irrilevanza macroeconomica»; 2) racconta di aver salvato l'Italia dal baratro, ma il calo dello spread e dei rendimenti si deve alle iniziative di un altro Mario - Draghi, presidente della Bce - e gli italiani lo sanno bene.
Che siate acerrimi oppositori delle politiche di austerità imposte da Berlino, come Seminerio, per intenderci, o che invece vi convinca di più la prima opzione (la via "virtuosa" al risanamento attraverso tagli di spesa, debito e tasse - quella di Giannino), da qualsiasi punto di vista, insomma, Monti è stato un fallimento, o un bluff, come scrivo ormai da mesi. Riconoscerlo non significa essere berlusconiani né di sinistra.
Monti non si è opposto alla Merkel - se pensate come Münchau che avrebbe dovuto farlo - né ha realizzato le necessarie riforme strutturali (nemmeno in campagna elettorale, finora, ha proposto qualcosa di concreto). Si è limitato ad alzare le tasse per aggiustare i conti nel breve termine e guadagnare tempo in attesa che la tempesta finisse. Quella che l'editorialista del FT chiama la «quarta opzione», in realtà una falsa pista che presto o tardi riporta alle prime tre opzioni.
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