Anche su Notapolitica
Si candida o non si candida? Ormai è diventato come sfogliare i petali di una margherita. Non è da escludere che la suspense che si è creata nell'ultima settimana sulle intenzioni di Monti non sia destinata a sciogliersi nemmeno nella conferenza stampa di domenica mattina. Il professore, infatti, potrebbe esporre in quella sede la sua agenda-appello con le riforme da fare nella prossima legislatura e solo in un secondo momento, sulla base delle reazioni dei partiti (soprattutto del Pd di Bersani), prendere la sua decisione definitiva sulle modalità del suo impegno in politica: se defilato, sfruttando l'altissima "notiziabilità" che gli deriva dalla centralità della sua figura, e dai suoi appuntamenti para-istituzionali, per parlare al paese e cercare di influenzare "dall'alto" la campagna elettorale; o se da candidato premier, alla guida di una coalizione centrista.
Un passaggio intermedio, quello dell'agenda-appello, da interpretare come ultima chiamata rivolta ai "montiani" del Pdl e del Pd, perché Monti ha bisogno che la sua eventuale candidatura sia sostenuta da un arco il più possibile ampio e trasversale di posizioni e "storie" politiche, affinché non venga percepita come un mero soccorso dei centristi - Casini, Fini e Montezemolo - che navigano in una pozza di voti. Quanto "aperto", dunque, dovrà essere il suo appello? Fino al punto da tentare Berlusconi di aderirvi, dal momento che l'intesa con la Lega appare ancora in alto mare?
Di sicuro, da una parte Monti è tentato dalla discesa in campo in prima persona, perché a questo punto restare nelle retrovie significherebbe delegare la rappresentanza della propria agenda a personaggi non proprio freschissimi politicamente ed essere oggetto passivo delle «mistificazioni» altrui sull'operato del governo e sulle sue intenzioni future. Ma dall'altra la teme, perché potrebbe arrivare terzo o addirittura quarto.
La candidatura diretta del quasi ex premier può cambiare considerevolmente il risultato elettorale del cartello di liste centriste in suo nome - che faticherebbero ad arrivare al 10% senza di lui, mentre il professore in campo potrebbe puntare al 15-20% - ma non cambierebbe poi di molto lo scenario politico post-voto. Che si candidi o meno, che l'allenza Pd-Sel riesca o meno a conquistare la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere, un'intesa tra Monti e i centristi da una parte e il Pd dall'altra è praticamente obbligata (Bersani si è già pronunciato per un'apertura ai moderati in ogni caso). Se il premier incaricato sarà Bersani o Monti dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne, ma un'apertura di Bersani ai centristi per puntellare la maggioranza e un coinvolgimento di Monti, magari per il Colle, come copertura internazionale, è un esito più che probabile. D'altra parte, tanti o pochi che siano, Monti o chiunque in suo nome dovrà decidere dove portare i suoi voti, a quali sommarli per dar vita ad una coalizione di governo, e visto che nei confronti di Berlusconi e dei frammenti dell'ex centrodestra vige una vera e propria "conventio ad excludendum", i giochi sembrano fatti.
Dunque, il dubbio di Monti oggi è sulla formula che gli offre più chance di tornare a Palazzo Chigi senza precludersi, eventualmente, la strada per il Colle: se conquistandosi sul campo il suo gruzzolo di voti (e quanti dovrebbe essere in grado di raccoglierne), o se defilandosi facendo affidamento sulla non autosufficienza numerica e sulla ragionevolezza del Pd. Ma a meno di colpi di scena, e a prescindere da chi occuperà quali "caselle", il nuovo scenario politico sembra abbastanza delineato: una maggioranza di centro-centrosinistra, quindi centrodestra frammentato, diviso tra un centro "montiano" che difficilmente darà buona prova di sé al governo con la sinistra, e una destra post-berlusconiana marginalizzata, non tanto dal punto di vista numerico ma per le derive demagogiche, complottiste e anticapitaliste, per la perdita della cultura di governo.
Insomma, come abbiamo osservato in altre occasioni e come sottolineano oggi Andrea Mancia e Simone Bressan, finisce qui una certa idea di centrodestra, "fusionista", che negli ultimi vent'anni aveva dato prova di esistere nel paese e non solo nella mente di qualche ingenuo idealista, ma che è stata soffocata sul nascere dai «contrapposti egoismi», da un berlusconismo culturalmente miope e politicamente suicida da una parte, e dalle varianti di centro e di destra dell'antiberlusconismo. A decidere se in Italia è il caso di accontentarsi di un centro neo-democristiano, culturalmente subalterno alla sinistra e moderato nel senso di moderatamente socialista (come nella Prima Repubblica), o invece occorre spingere per qualcosa di diverso, più ambizioso e radicalmente alternativo, saranno gli elettori, ma probabilmente non il 24 febbraio 2013.
1 comment:
La cosa misteriosa è che qualcuno possa ancora utilizzare l'espressione "antiberlusconismo" con accezione negativa. Anzi, è incredibile che il termine "antiberlusconismo" esista ancora, come se servisse parlare di "antizanzarismo" per tacciare l'acquisto di Autan o di "anticancrismo" se uno vuole smettere di fumare.
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