Il Pd freme per tornare a Palazzo Chigi, sullo slancio delle amministrative, e a Monti non interessa tirare a campare. Quindi...
Niente da fare, la scelta del ddl invece del decreto per portare la riforma del lavoro in Parlamento, complice l'avvicinarsi delle elezioni amministrative, segna il ritorno dei partiti e Monti rischia grosso. Nei prossimi mesi si ballerà parecchio. La direzione del Pd ha dato un sostegno praticamente unanime alla linea di Bersani sulla necessità di modificare in Parlamento la riforma, in particolare sull'articolo 18. Monti ha prontamente e indirettamente risposto da Seul, in pratica minacciando di lasciare prima del 2013: «Se il Paese attraverso le sue forze sociali e politiche non si sente pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro non chiederemmo di continuare per arrivare a una certa data». Il professore rifiuta il «concetto stesso di crisi» e avverte che non gli interessa «tirare a campare». Ovviamente l'Udc si è subito allineato, il Pdl a condizione che il governo tiri dritto: «Siamo d'accordo con lui – ha commentato Alfano dalla conferenza nazionale del Pdl sul lavoro – o facciamo una buona riforma o niente riforma», meglio aspettare un anno, e «se alle politiche vincerà la sinistra farà la sua riforma dettata dalla Cgil. Se, come penso, vinceremo noi faremo la nostra riforma proseguendo il cammino delle idee di Marco Biagi».
Modifiche sono accettabili, ma punto irrinunciabile, ha fatto capire il ministro Fornero, è il no al reintegro nei licenziamenti per motivi economici, cioè proprio l'opzione che il Pd vorrebbe che restasse a discrezione del giudice. «Guai» se la scelta del ddl venisse letta come un «cedimento», ma il fatto è che proprio così è stata intesa dai partiti. Ed era inevitabile. D'altra parte, appare davvero poco convincente la spiegazione fornita da Monti: «Il decreto sarebbe venuto a valle di un processo più lungo, ma con qualità al ribasso». Nel caso della riforma delle pensioni e delle liberalizzazioni il premier non è sembrato dello stesso avviso.
Il governo ha rinviato la prova di forza, ma se non ha dimostrato oggi di avere i muscoli per imporre una soluzione più rapida e più blindata, difficilmente li troverà a fine luglio, quando ci sarà da riportare al suo disegno originario la riforma, nel frattempo sfigurata dall'iter parlamentare.
D'altro canto, dall'approvazione fulminea del decreto salva-Italia l'azione del governo sembra aver perso via via incisività e agilità. Rispetto alla riforma delle pensioni e al notevole aumento dell'imposizione fiscale decisi a dicembre, il dl liberalizzazioni è uscito da Palazzo Chigi meno rivoluzionario del previsto, persino contraddittorio in alcuni punti, e ha vissuto un iter parlamentare travagliato e non privo di arretramenti e rinvii. Così anche altri provvedimenti. Ora, rinunciando al decreto, una delle due riforme (dopo quella delle pensioni) più attese dai mercati Monti la rimette nelle mani dei partiti, insieme alla sua stessa credibilità. Il risultato è che delle riforme per la crescita su cui l'Italia si è impegnata con l'Ue e con i mercati, che nel frattempo stanno manifestando segni di insofferenza, dopo 6 mesi solo una è legge: quella delle pensioni. Le liberalizzazioni sono all'acqua di rose, o in attesa di attuazione (come la separazione Snam-Eni e i servizi pubblici locali), e la riforma del lavoro naviga ancora nell'incertezza, così come la stessa sopravvivenza del governo.
Monti e Napolitano devono aver pensato che un'accelerazione proprio alla vigilia delle elezioni amministrative avrebbe potuto esasperare le tensioni nel Pd, mettendo a rischio la tenuta del governo, mentre all'indomani del voto – che dovrebbe sorridere ai Democrat – sarebbe stato più facile ricondurre il partito di Bersani a più miti consigli e far digerire la "manutenzione" dell'articolo 18. Ma è un grosso rischio. Un successo, infatti, coniugato al calo dello spread, potrebbe anche persuadere il Pd che sia giunta l'ora di far scattare il piano di liquidazione del governo Monti-Napolitano, di cui ha parlato Sechi sul Tempo, e di andarsi a giocare l'intera posta stoppando sul nascere il progetto tecno-centrista.
Nei giorni scorsi, tra l'altro, abbiamo appreso che dietro la scelta di affidarsi ad un ddl e non ad un decreto, come il governo Monti aveva fatto fino ad oggi con le altre sue riforme, non ci sono solo le difficoltà del Pd e la moral suasion del presidente della Repubblica. Per la prima volta si sono intraviste delle pericolose crepe all'interno della compagine di governo, con ministri apertamente contrari non solo al tipo di soluzione legislativa, ma anche nel merito di una riforma espressamente parte del programma concordato con le istituzioni europee e attesa dai mercati.
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