Mentre raffredda - e fa bene - la polemica con Londra per il ritardo nella comunicazione del fallito blitz in Nigeria, finalmente il ministro degli Affari esteri Giulio Terzi chiarisce in Parlamento come sono andate le cose nella vicenda dei nostri due marò prigionieri in India. Ci voleva tanto? In realtà crediamo di capire il perché della reticenza del ministro. I particolari sono di una gravità inaudita, e rivelati ufficialmente nelle prime ore avrebbero destato certamente un moto di indignazione molto più forte dall'Italia. Non si sarebbe trattato di una consegna, infatti, ma di un vero e proprio arresto sotto la minaccia delle armi. Ma a maggior ragione, proprio per la gravità del comportamento indiano, e per il manifesto e attuale pericolo di vita che i nostri uomini stavano correndo, «in un ambiente fortemente ostile che si era subito determinato nell'intero Stato del Kerala», la reazione del nostro governo doveva essere molto più dura, fino a prendere in considerazione l'ipotesi di una missione di recupero.
Ma andiamo con ordine. Stando a quanto riferito da Terzi, gli "allocchi" starebbero alla Difesa, e non agli Esteri come pensavamo. L'ingenuità dell'armatore si può perdonare, ma dei comandi militari, che non hanno fiutato la trappola, molto meno. L'ingresso del mercantile Enrica Lexie nelle acque territoriali indiane e quindi in porto è stato ottenuto con «un sotterfugio della polizia locale, in particolare del centro di coordinamento della sicurezza in mare di Bombay, che aveva richiesto al comandante della nave di dirigersi verso il porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati».
Il comandante della nave ha deciso di accogliere la richiesta, ovviamente su autorizzazione dell'armatore, ma con colpevole ingenuità «il comandante della squadra navale e il Centro operativo interforze della Difesa non avanzavano obiezioni, in ragione di una ravvisata esigenza di cooperazione antipirateria con le autorità indiane». «Da ministro degli Affari esteri - si giustifica Terzi - non avevo titolo, né autorità, né influenza per modificare la decisione del comandante» della nave. Forse, invece, se avessero esercitato pressioni congiunte in questo senso, Esteri e Difesa avrebbero potuto convincere l'armatore a cambiare idea.
Ma di chi è stata, abbiamo chiesto più volte in queste settimane, la decisione di far scendere i marò a terra? Ebbene, nonostante «la ferma opposizione delle nostre autorità presenti», sono stati costretti a scendere dalla nave da «un'azione coercitiva portata a compimento da oltre 30 uomini armati della sicurezza indiana, saliti a bordo per prelevarli e portarli a terra sotto la custodia della polizia locale». Un particolare fin qui inedito: gli indiani sono effettivamente saliti a bordo ad arrestare i nostri militari, un'azione di forza di una gravità inaudita che avrebbe meritato ben altra reazione da parte nostra.
Questa è una settimana fondamentale. Oltre all'esito dell'esame balistico, arriverà anche la sentenza sulla giurisdizione del caso e si svolgeranno le elezioni locali che condizionerebbero, irrigidendolo, l'atteggiamento delle autorità indiane. Se verrà confermata la giurisdizione indiana, la disfatta politica italiana sarà completa e la figuraccia irrimediabile, a prescindere dall'eventuale scagionamento dei due marò. Se entrambe le decisioni dovessero essere negative, oltre alla disfatta politica, prepariamoci all'idea che i nostri due marò dovranno affrontare il processo e quindi rimanere imprigionati in India ancora per molti mesi.
No comments:
Post a Comment