Anche su Notapolitica e L'Opinione
Si raccoglie quello che si semina: se è vento, allora sarà tempesta. Se fino ad un minuto prima si è seminato antiberlusconismo, se l'unico pensiero che scalda il cuore è "smacchiare il giaguaro", è poi difficile spiegare ai propri elettori, e ai propri eletti, che bisogna far scegliere il nome del nuovo presidente della Repubblica agli "impresentabili", come premessa di chissà quale altro accordo per far nascere un governicchio.
«Siamo ostaggi di uno psicodramma tutto interno alla sinistra e di una scissione latente nel Pd che è sul punto di esplodere», scrivevamo su queste pagine all'indomani del voto. E il naufragio della candidatura Marini alla prima votazione per il Quirinale ne è l'ennesima dimostrazione. Sulla scelta del prossimo inquilino del Colle un Pd balcanizzato sta svolgendo il suo congresso, in pratica una guerra tra bande. E sono giunti a maturazione i frutti velenosi di vent'anni di antiberlusconismo, l'eterna maledizione che la sinistra e i suoi leader si sono auto-inflitti.
La radicalizzazione del Pd in questi anni è tale che la pancia del partito non può reggere ad alcuna concessione a Berlusconi, nemmeno ad un nome condiviso per il Quirinale, nemmeno se è un esponente storico dello stesso Pd. Una personalità come Marini, che 7 anni fa un centrosinistra compatto imponeva come seconda carica dello Stato a colpi di maggioranza, oggi lo spacca a metà come una mela. La linea politica di questi anni, di demonizzazione deresponsabilizzante dell'avversario, ai danni dell'immagine stessa del paese, e l'insensato inseguimento dei grillini di queste ultime settimane, hanno finito per aggravare, anziché sanarla, la contraddizione, la frattura storica interna sia al popolo che ai partiti di sinistra: quella tra riformisti e massimalisti, tra partito di governo e partito di lotta.
Il risultato che si tocca con mano oggi è una quantità di parlamentari, anche vicini al segretario del Pd, semplicemente "impolitici", per i quali ogni compromesso è a prescindere un inciucio da demonizzare - anche quando è l'unica via realistica per un governo di cui il paese ha disperatamente bisogno, o è soltanto per mettere a capo della Repubblica una figura di garanzia - e che vagheggiano un governo con il M5S propiziato dall'elezione di Rodotà al Quirinale, dimostrando un'idea ingenua, immatura, ottusa e al tempo stesso pericolosa di democrazia. Se Bersani credeva di poter fare scouting tra i grillini, in queste ore si sta amaramente accorgendo che è Grillo ad avergli già sfilato Vendola e a fare scouting persino tra i suoi fedelissimi.
E adesso? Quella di Franco Marini è una candidatura che nasce per un'elezione rapida e largamente condivisa, con i 2/3 dell'assemblea alla prima votazione. Che senso avrebbe eleggerlo a maggioranza, con più voti dal centrodestra che dal Pd? Tra l'altro, sarebbe un suicidio portarlo, o riproporlo, al quarto scrutinio, considerando che i 521 voti presi oggi sono pericolosamente vicini al quorum di 504.
Dall'inizio di questa crisi entrare a Palazzo Chigi è stato l'unico scopo che ha guidato l'azione di Bersani. Fallito il tentativo con Grillo, e dovendosi piegare di fronte alle resistenze di Napolitano, ha provato la strada del dialogo con Berlusconi a partire dall'elezione del presidente della Repubblica, ma così facendo ha spaccato il suo partito, nemmeno i suoi hanno digerito la svolta di 180°. Ad uscire vincitore dal naufragio del segretario è senz'altro Renzi, che dall'inizio ha sparato ad alzo zero sull'ipotesi Marini. Fondati i suoi argomenti contro l'ex presidente del Senato, ma pretestuosi, visto che si possono applicare anche alle figure ritenute preferibili.
Prodi e Rodotà non fanno forse parte di foto di 20 o 30 anni fa? Esattamente come Marini, corrispondono al profilo di politico che secondo i canoni renziani sarebbe ora di rottamare. Il primo, due volte presidente del Consiglio, controverso manager di Stato, collante di una fallimentare coalizione di governo. E Rodotà? Parlamentare per ben quattro legislature (da quando ancora c'era il Pci), primo presidente del Pds, 7 anni come garante della privacy, con una pensione d'oro di poco inferiore a quella leggendaria di Amato, e anche lui ottantenne come Marini. Prodi e Rodotà rappresentano forse la "visione di paese" che ha in mente Renzi? Sono forse il segnale di "cambiamento" che gli italiani aspettano?
No, è che anche il sindaco di Firenze è entrato nella partita per il Colle con due occhi alle sue ambizioni e con una massiccia dose di tatticismo da vecchio politico. Aveva spiegato che le strade dinanzi a Bersani erano due: un accordo con il Pdl o il voto subito. L'elezione di Marini avrebbe prefigurato la prima ipotesi, ma evidentemente per Renzi esiste solo la seconda, illudendosi di poter essere lui il candidato premier. Dunque, sostiene per il Colle candidati antiberlusconiani, nonostante siano anch'essi vecchi e rappresentino politicamente tutto ciò che della sinistra ha sempre dichiarato di voler superare. L'importante è sabotare Bersani e togliersi di dosso l'immagine di cripto-berlusconiano disponibile all'inciucio. Anche il Renzi del "fate presto", insomma, pur di non perdere il suo tram è pronto a precipitare il paese nel caos di nuove elezioni, e pazienza se il prezzo è l'elezione di un presidente che rischia di alimentare, anziché ricomporre, le divisioni tra gli italiani.
Un'altra lezione da trarre da questa vicenda è che finché l'elezione del presidente della Repubblica è in mano ai partiti è del tutto naturale che il prescelto sia innanzitutto un loro garante, e non il favorito degli italiani. Chi vuole un presidente "del popolo" abbia la coerenza di sostenere il presidenzialismo, o taccia per sempre. L'impressione è che coloro che oggi si scandalizzano per la scelta di Marini e sostengono Rodotà, o altri nomi più originali, non accetterebbero di affidarsi totalmente alla volontà del popolo in una elezione diretta. Pretendono semplicemente che i partiti ascoltino un'avanguardia illuminata interprete dei suoi presunti voleri.
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Thursday, April 18, 2013
Wednesday, April 17, 2013
E' ora che gli italiani scelgano da soli il loro presidente
Anche su Notapolitica e L'Opinione
Mentre Milena Gabanelli si chiama fuori (dopo una riflessione così prolungata da far trasparire scarso senso del ridicolo), e Rodotà dunque, alla fine, dovrebbe essere il nome scelto dal M5S per sfidare il Pd, e mentre Prodi sembra ormai uscito dalla partita, con il deludente ottavo posto ottenuto alle "Quirinarie", sembra Giuliano Amato il fortunato (o sfortunato) destinato ad entrare Papa nel Conclave presidenziale (con D'Alema nient'affatto rinunciatario). Rodotà, quindi, se il Pd intende ancora proseguire sulla via penitenziale e gravida di umiliazioni predisposta da Grillo. Amato, se invece prevarrà la linea di una qualche forma di dialogo e collaborazione con il Pdl. Cassese l'outsider, ma sarebbe il colmo se Berlusconi si facesse convincere a mandare al Colle un giudice della Consulta.
Queste le indicazioni dei retroscena della vigilia, che come si sa lasciano il tempo che trovano. Anche perché stentiamo a credere che davvero Pd e Pdl intendano puntare su Amato. Sarebbe una scelta politicamente suicida per entrambi e anche rischiosa per la tenuta del sistema, tanta è l'impopolarità dell'ex presidente del Consiglio socialista. Possibile che i partiti siano così sconnessi dalla realtà del paese da non cogliere la portata del risentimento anti-sistema che scatenerebbe l'elezione di Amato? Per gli italiani è, e sarà sempre, il parassita di Stato che si porta a casa più di 30 mila euro di pensioni al mese, nessuna delle quali ovviamente maturata con il sistema contributivo; colui che ha prelevato di notte i soldi dai conti corrente degli italiani e che continua a proporre nuove tasse patrimoniali; colui che per riciclarsi nella II Repubblica ha fatto finta di non conoscere Craxi, di cui fu sottosegretario e braccio destro. Insomma, Amato incarna tutto ciò che gli italiani disprezzano dello Stato e della casta: privilegi, tasse, trasformismo. Con la sua elezione anche il Quirinale, un'istituzione fino ad oggi solo marginalmente oggetto degli attacchi dell'antipolitica, potrebbe precipitare nella crisi di legittimazione e autorevolezza che stanno vivendo i partiti.
Ma al di là del merito, del "totonome", è il metodo di elezione del nostro presidente della Repubblica a meritare qualche riflessione. Si tratta infatti di un rito stucchevole e opaco, un bizantinismo ormai fuori dalla storia, con risvolti persino surreali. Basti pensare che la sola assenza di candidature ufficiali può portare ad un esito assurdo. Dove sta scritto, infatti, che il Giorgio Napolitano eletto nel 2006 fosse proprio "quel" Giorgio Napolitano e non un omonimo, e che non esistano altri Giuliano Amato o altre Emma Bonino?
Ma soprattutto, se è vero che gli ultimi presidenti hanno visto accrescere enormemente il loro peso politico pur senza esercitare poteri che non fossero previsti dalla nostra Costituzione, è indubbio che quello del capo dello Stato non è più il ruolo così neutro e imparziale come era stato concepito dai costituenti e interpretato dai primi 6/7 presidenti. Negli ultimi decenni si è trasformato. A causa della crisi dei partiti e dell'intero sistema politico-istituzionale, non certo di una volontà prevaricatrice da parte degli inquilini del Colle, è diventato un ruolo supremamente politico, "intra partes" piuttosto che super partes. Ormai è inutile, velleitario, aspettarsi una figura neutra e imparziale. Primo perché non c'è. Secondo, perché ormai il contesto storico e politico richiede tutt'altro che neutralità. Proprio quest'ultimo settennato ci insegna a non confondere la correttezza con la neutralità: sempre corretto dal punto di vista formale, e attento garante delle istituzioni, Napolitano ha interpretato in modo tutt'altro che neutro e imparziale il suo ruolo.
D'altra parte, i nostri costituenti avevano sì concepito una figura di capo dello Stato alla quale per decenni neutralità e imparzialità sono state indossolubilmente associate, sembrando inderogabili, ma l'hanno anche dotato di poteri potenzialmente molto incisivi, tipicamente "presidenzialisti" (come il potere di nomina del presidente del Consiglio o di scioglimento delle Camere), lasciando ampia discrezionalità interpretativa sul suo ruolo. E invece di consegnare ai cittadini le chiavi del Quirinale, temendo svolte populiste hanno preferito lasciarle in mano ai partiti. Per circa 40 anni tali poteri sono rimasti "in sonno", essendo il sistema politico bloccato. Ma pur nel rispetto del dettato costituzionale, i connotati "presidenzialisti" hanno finito per prevalere su quelli "notarili".
Pertini e Cossiga hanno sdoganato le "esternazioni presidenziali", al di fuori dei messaggi formali alle Camere previsti dalla Costituzione. Da quando è stata introdotta la democrazia dell'alternanza, i presidenti che si sono succeduti hanno interpretato il loro ruolo di garanzia come interposizione, se non contrapposizione alla maggioranza a loro non affine politicamente, trovando nella Costituzione i poteri per farlo e dando luogo quindi ad una forma di diarchia. Il risultato è che oggi in Italia il semipresidenzialismo c'è già: nei poteri, ma senza investitura popolare. Un semipresidenzialismo "a corrente alternata". Il Quirinale ha lavorato come uno studio notarile durante i governi di centrosinistra, mentre ha esercitato i suoi poteri in senso presidenzialista durante i governi di centrodestra, dando vita ad una sorta di "coabitazione".
Napolitano è il presidente che ha portato a compimento questo processo. Pur nel rispetto formale dei suoi poteri costituzionali, è diventato un "dominus" della scena politica, riempiendo uno spazio politico lasciato vuoto dalla debolezza sia del governo che del Parlamento. Con tempismo perfetto ha saputo inserirsi nel dibattito quotidiano e nella dialettica tra le forze politiche, offrendo autorevoli "coperture" istituzionali o lanciando dure reprimende, oscillando tra arbitro ineccepibile, indebita sponda e giocatore a tutti gli effetti. È arrivato a condividere con l'esecutivo importanti atti di indirizzo, esercitando di fatto un potere di veto e/o di vaglio preventivo sui decreti legge, spesso sottoposti ai suoi uffici addirittura prima di arrivare in Consiglio dei ministri. Ma è intervenuto pesantemente anche sul processo legislativo: contribuendo ad affossare provvedimenti (come il ddl intercettazioni); condizionando il calendario parlamentare e l'agenda politica; e qualche volta vagliando i testi di legge prima che uscissero dalle commissioni parlamentari. Sia pure spinto da circostanze eccezionali, è arrivato a scegliersi un premier.
Completare con gli opportuni poteri ed equilibri questa innovazione presidenzialista, dandogli legittimità costituzionale e investitura popolare diretta, come avviene, per esempio, in Francia, è ormai indispensabile e urgente, se non si vuole incrinare anche la fiducia degli italiani nel Quirinale. In un paese normale, Pd e Pdl saprebbero approfittare dell'impasse politico per avviare una fase "ri-costituente": rieleggendo Napolitano come garante di un rapido processo di riforma (basato sullo scambio tra doppio turno di collegio e semipresidenzialismo) da portare a compimento in 12 mesi.
Mentre Milena Gabanelli si chiama fuori (dopo una riflessione così prolungata da far trasparire scarso senso del ridicolo), e Rodotà dunque, alla fine, dovrebbe essere il nome scelto dal M5S per sfidare il Pd, e mentre Prodi sembra ormai uscito dalla partita, con il deludente ottavo posto ottenuto alle "Quirinarie", sembra Giuliano Amato il fortunato (o sfortunato) destinato ad entrare Papa nel Conclave presidenziale (con D'Alema nient'affatto rinunciatario). Rodotà, quindi, se il Pd intende ancora proseguire sulla via penitenziale e gravida di umiliazioni predisposta da Grillo. Amato, se invece prevarrà la linea di una qualche forma di dialogo e collaborazione con il Pdl. Cassese l'outsider, ma sarebbe il colmo se Berlusconi si facesse convincere a mandare al Colle un giudice della Consulta.
Queste le indicazioni dei retroscena della vigilia, che come si sa lasciano il tempo che trovano. Anche perché stentiamo a credere che davvero Pd e Pdl intendano puntare su Amato. Sarebbe una scelta politicamente suicida per entrambi e anche rischiosa per la tenuta del sistema, tanta è l'impopolarità dell'ex presidente del Consiglio socialista. Possibile che i partiti siano così sconnessi dalla realtà del paese da non cogliere la portata del risentimento anti-sistema che scatenerebbe l'elezione di Amato? Per gli italiani è, e sarà sempre, il parassita di Stato che si porta a casa più di 30 mila euro di pensioni al mese, nessuna delle quali ovviamente maturata con il sistema contributivo; colui che ha prelevato di notte i soldi dai conti corrente degli italiani e che continua a proporre nuove tasse patrimoniali; colui che per riciclarsi nella II Repubblica ha fatto finta di non conoscere Craxi, di cui fu sottosegretario e braccio destro. Insomma, Amato incarna tutto ciò che gli italiani disprezzano dello Stato e della casta: privilegi, tasse, trasformismo. Con la sua elezione anche il Quirinale, un'istituzione fino ad oggi solo marginalmente oggetto degli attacchi dell'antipolitica, potrebbe precipitare nella crisi di legittimazione e autorevolezza che stanno vivendo i partiti.
Ma al di là del merito, del "totonome", è il metodo di elezione del nostro presidente della Repubblica a meritare qualche riflessione. Si tratta infatti di un rito stucchevole e opaco, un bizantinismo ormai fuori dalla storia, con risvolti persino surreali. Basti pensare che la sola assenza di candidature ufficiali può portare ad un esito assurdo. Dove sta scritto, infatti, che il Giorgio Napolitano eletto nel 2006 fosse proprio "quel" Giorgio Napolitano e non un omonimo, e che non esistano altri Giuliano Amato o altre Emma Bonino?
Ma soprattutto, se è vero che gli ultimi presidenti hanno visto accrescere enormemente il loro peso politico pur senza esercitare poteri che non fossero previsti dalla nostra Costituzione, è indubbio che quello del capo dello Stato non è più il ruolo così neutro e imparziale come era stato concepito dai costituenti e interpretato dai primi 6/7 presidenti. Negli ultimi decenni si è trasformato. A causa della crisi dei partiti e dell'intero sistema politico-istituzionale, non certo di una volontà prevaricatrice da parte degli inquilini del Colle, è diventato un ruolo supremamente politico, "intra partes" piuttosto che super partes. Ormai è inutile, velleitario, aspettarsi una figura neutra e imparziale. Primo perché non c'è. Secondo, perché ormai il contesto storico e politico richiede tutt'altro che neutralità. Proprio quest'ultimo settennato ci insegna a non confondere la correttezza con la neutralità: sempre corretto dal punto di vista formale, e attento garante delle istituzioni, Napolitano ha interpretato in modo tutt'altro che neutro e imparziale il suo ruolo.
D'altra parte, i nostri costituenti avevano sì concepito una figura di capo dello Stato alla quale per decenni neutralità e imparzialità sono state indossolubilmente associate, sembrando inderogabili, ma l'hanno anche dotato di poteri potenzialmente molto incisivi, tipicamente "presidenzialisti" (come il potere di nomina del presidente del Consiglio o di scioglimento delle Camere), lasciando ampia discrezionalità interpretativa sul suo ruolo. E invece di consegnare ai cittadini le chiavi del Quirinale, temendo svolte populiste hanno preferito lasciarle in mano ai partiti. Per circa 40 anni tali poteri sono rimasti "in sonno", essendo il sistema politico bloccato. Ma pur nel rispetto del dettato costituzionale, i connotati "presidenzialisti" hanno finito per prevalere su quelli "notarili".
Pertini e Cossiga hanno sdoganato le "esternazioni presidenziali", al di fuori dei messaggi formali alle Camere previsti dalla Costituzione. Da quando è stata introdotta la democrazia dell'alternanza, i presidenti che si sono succeduti hanno interpretato il loro ruolo di garanzia come interposizione, se non contrapposizione alla maggioranza a loro non affine politicamente, trovando nella Costituzione i poteri per farlo e dando luogo quindi ad una forma di diarchia. Il risultato è che oggi in Italia il semipresidenzialismo c'è già: nei poteri, ma senza investitura popolare. Un semipresidenzialismo "a corrente alternata". Il Quirinale ha lavorato come uno studio notarile durante i governi di centrosinistra, mentre ha esercitato i suoi poteri in senso presidenzialista durante i governi di centrodestra, dando vita ad una sorta di "coabitazione".
Napolitano è il presidente che ha portato a compimento questo processo. Pur nel rispetto formale dei suoi poteri costituzionali, è diventato un "dominus" della scena politica, riempiendo uno spazio politico lasciato vuoto dalla debolezza sia del governo che del Parlamento. Con tempismo perfetto ha saputo inserirsi nel dibattito quotidiano e nella dialettica tra le forze politiche, offrendo autorevoli "coperture" istituzionali o lanciando dure reprimende, oscillando tra arbitro ineccepibile, indebita sponda e giocatore a tutti gli effetti. È arrivato a condividere con l'esecutivo importanti atti di indirizzo, esercitando di fatto un potere di veto e/o di vaglio preventivo sui decreti legge, spesso sottoposti ai suoi uffici addirittura prima di arrivare in Consiglio dei ministri. Ma è intervenuto pesantemente anche sul processo legislativo: contribuendo ad affossare provvedimenti (come il ddl intercettazioni); condizionando il calendario parlamentare e l'agenda politica; e qualche volta vagliando i testi di legge prima che uscissero dalle commissioni parlamentari. Sia pure spinto da circostanze eccezionali, è arrivato a scegliersi un premier.
Completare con gli opportuni poteri ed equilibri questa innovazione presidenzialista, dandogli legittimità costituzionale e investitura popolare diretta, come avviene, per esempio, in Francia, è ormai indispensabile e urgente, se non si vuole incrinare anche la fiducia degli italiani nel Quirinale. In un paese normale, Pd e Pdl saprebbero approfittare dell'impasse politico per avviare una fase "ri-costituente": rieleggendo Napolitano come garante di un rapido processo di riforma (basato sullo scambio tra doppio turno di collegio e semipresidenzialismo) da portare a compimento in 12 mesi.
Friday, October 03, 2008
McCain-Palin vincono in tv, ma perdono la campagna
Non ho visto il dibattito di ieri notte tra i due candidati alla vicepresidenza Usa, ma pare che l'abbia vinto Sarah Palin, stando ai post di Mario Sechi e Andrea Mancia. Se non altro perché i mainstream media hanno propagandato della Palin un ritratto troppo brutto per essere vero.
Ignorante, provinciale, impreparata. Animati da pesanti pregiudizi urban radical chic, i grandi giornali e i grandi network televisivi hanno di fatto aiutato la Palin, creando sulla sua performance televisiva aspettative così basse che alla candidata è bastato evitare tecnicismi e concentrarsi su messaggi semplici e concisi per rendersi credibile e presentabile. La Palin è apparsa diversa quanto basta rispetto a come i media la dipingevano, mentre Biden non è ancora chiaro se sia o no impagliato.
Maria Laura Rodotà, che oggi sul Corriere ha firmato un imbarazzante (per lei) articolo sul dibattito ("Svelato il segreto della cofana di Sarah Palin", il titolo), viene sistemata a dovere da Bazarov, senza null'altro da aggiungere.
Nonostante il ticket repubblicano si sia ben comportato nei due dibattiti televisivi tenuti fino ad oggi, la crisi finanziaria rischia di rendere inutile qualsiasi sforzo. Quasi impossibile che vinca il candidato del partito del presidente in carica mentre l'America è in pieno panico finanziario e sull'orlo della recessione. Obama può permettersi di restare immobile e appiattirsi sul piano di salvataggio approvato stasera dal Congresso, ma McCain deve prendere iniziative forti, indipendenti più che bipartisan. Forse s'illude che il piano possa portare ristoro al sistema finanziario a tal punto da far passare in secondo piano la crisi almeno in queste ultime settimane di campagna. Il rischio è che invece, dopo qualche giorno di calma, altri fallimenti siano inevitabili, accompagnati dalla recessione.
Ignorante, provinciale, impreparata. Animati da pesanti pregiudizi urban radical chic, i grandi giornali e i grandi network televisivi hanno di fatto aiutato la Palin, creando sulla sua performance televisiva aspettative così basse che alla candidata è bastato evitare tecnicismi e concentrarsi su messaggi semplici e concisi per rendersi credibile e presentabile. La Palin è apparsa diversa quanto basta rispetto a come i media la dipingevano, mentre Biden non è ancora chiaro se sia o no impagliato.
Maria Laura Rodotà, che oggi sul Corriere ha firmato un imbarazzante (per lei) articolo sul dibattito ("Svelato il segreto della cofana di Sarah Palin", il titolo), viene sistemata a dovere da Bazarov, senza null'altro da aggiungere.
Nonostante il ticket repubblicano si sia ben comportato nei due dibattiti televisivi tenuti fino ad oggi, la crisi finanziaria rischia di rendere inutile qualsiasi sforzo. Quasi impossibile che vinca il candidato del partito del presidente in carica mentre l'America è in pieno panico finanziario e sull'orlo della recessione. Obama può permettersi di restare immobile e appiattirsi sul piano di salvataggio approvato stasera dal Congresso, ma McCain deve prendere iniziative forti, indipendenti più che bipartisan. Forse s'illude che il piano possa portare ristoro al sistema finanziario a tal punto da far passare in secondo piano la crisi almeno in queste ultime settimane di campagna. Il rischio è che invece, dopo qualche giorno di calma, altri fallimenti siano inevitabili, accompagnati dalla recessione.
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