Certo non bastano tre buone iniziative concrete per far dimenticare un'esperienza di governo a dir poco fallimentare. Ma da qualcosa bisogna pur ricominciare. Ed è apprezzabile che il Pdl stia tentando di riconquistare i suoi elettori delusi ripartendo dall'economia. Tre tavoli tematici - lavoro, fisco, debito - da cui sono scaturite altrettante proposte, alcune già pronte per diventare emendamenti ai testi di legge presentati dal governo. Ed è incoraggiante la filosofia cui sono ispirate: «Ora deve dimagrire lo Stato, i cittadini hanno già dato». Segno che Alfano è consapevole del terreno su cui il partito ha maggiormente perso il suo appeal e si gioca tutto o quasi il suo futuro. Recuperare la credibilità perduta non sarà facile, per molto tempo aleggerà la critica di fondo "perché non l'avete fatto quando eravate al governo", ma non ci sono alternative: riconoscere i propri errori e risalire la china, magari allontanando dalla cabina di regia coloro che nel precedente governo hanno tirato il freno a mano sulle riforme economiche.
(...)
Non solo temi-bandiera, non richieste provocatorie per alimentare lo scontro politico, ma proposte fattibili - ne parlano autorevoli economisti sui giornali e online - il cui scopo è cominciare a ricostruire quel profilo, quella visione di politica economica che aveva portato il Pdl ad essere il partito di maggioranza relativa nel 2008 e nel 2009, ma che è stata clamorosamente tradita, quasi del tutto cancellata e sostituita con il suo opposto, dai suoi esponenti di governo.
Laddove invece il Pdl appare ancora confuso è sulla riforma della legge elettorale. In attesa di conoscere i particolari della bozza, sembra intenzionato ad avallare un sostanziale ritorno al proporzionale, che aggraverebbe l'instabilità dei governi e metterebbe a rischio la sua stessa ragion d'essere.
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Friday, April 13, 2012
Thursday, April 12, 2012
La giornata: prosegue offensiva Pdl su lavoro e piovono consigli a Giarda
E' andata malino, ma non in modo disastroso, l'asta odierna dei nostri Btp triennali: i rendimenti sono saliti al 3,89%, rispetto al 2,76% dell'asta di marzo. Il viceministro Grilli ha spiegato che nonostante la domanda fosse buona il Tesoro non l'ha accolta tutta, perché si pretendevano tassi persino superiori, ritenuti però «non giusti». Piazza affari respira (+1,23%) e lo spread sui decennali si raffredda (361).
Nel suo bollettino mensile intanto la Bce spiega che sul debito sovrano di Italia e Spagna pesano i timori sulla crescita e l'occupazione e avverte che il «contesto radicalmente mutato» dei mercati finanziari mondiali impone ai Paesi dell'area euro di tagliare i debiti pubblici a livelli «decisamente inferiori al 60%» del Pil, il che per molti (Italia compresa, ovviamente) significherà «conseguire avanzi di bilancio primario pari o superiori al 4% del Pil».
Mi sa che Giarda e i tecnici dovranno abbandonare l'idea di preservare la «way of life» italiana della spesa pubblica. Ai «profeti» dei tagli alla spesa il sottosegretario aveva ironicamente chiesto indicazioni precise su dove tagliare, visto che lui sta facendo la spending review ma non vede nient'altro da tagliare. Ebbene, è stato più che accontentato.
Prima da Oscar Giannino, che indica sanità (20 miliardi in tre anni), massa salariale pubblica (35 miliardi in tre anni, senza buttare per strada nessuno) e trasferimenti alle imprese (25 miliardi). Totale: 80 miliardi, più di 5 punti di Pil in tre anni, e si mette a disposizione per una consulenza anche gratis. Poi da Bisin e De Nicola, che su la Repubblica suggeriscono di tagliare contributi alle imprese (14 miliardi), di vendere la Rai (3-4 miliardi) e asset pubblici (20 miliardi), e in più di risparmiare altri miliardi dall'accorpamento di scuole e tribunali, dall'attuazione dei costi standard nella sanità, dal taglio dei costi della politica e dallo sfoltimeno di organici pletorici. Il loro articolo ha il pregio di escludere, sia pure ironicamente, le riforme cosiddette liberiste, e di limitarsi a segnalare quei tagli alla spesa che «non cambiano l'impianto sociale del Paese», quindi senza rinunciare ai servizi garantiti (in qualche modo) dallo Stato tanto cari a Giarda e ai suoi compagni di governo. Infine, anche Michele Boldrin vuole togliere qualsiasi alibi a Giarda e a Monti: tagliare i costi della casta politico-burocratica (5-7 miliardi), gli stipendi pubblici riportandoli ai livelli del 1995 (0,8-0,9% del Pil); e i sussidi alle imprese (20 miliardi). Per un totale del 3% del Pil.
Insomma, grasso da tagliare ce n'è, cari Giarda e Monti, non avete scuse, men che mai quella dei pericolosi "liberisti" alle porte: quella che manca è la volontà politica.
Mentre il governo fa uno sforzo e ritira l'assurda tassa sugli sms (anche se al suo posto si profila un nuovo aumento sulla benzina) e tira fuori il numero degli esodati, per i quali ci sarebbe la benedetta «copertura finanziaria», Monti è costretto a riaprire, per l'ennesima volta, il capitolo riforma del lavoro. Ovviamente il premier è contrariato, irritato, ma se la deve far passare: è stato lui a dismettere il metodo di presentare ai partiti riforme prendere o lasciare. Oggi Alfano e la presidente uscente di Confindustria si sono incontrati per mettere a punto gli emendamenti al testo e Monti ha dovuto ricevere per un'oretta il segretario del Pdl. Ha ceduto alle richieste di Pd e Cgil sull'articolo 18? Alla fine dovrà cedere anche a quelle sulla flessibilità in entrata - tra l'altro sensate - dell'asse Pdl-Marcegaglia, che può ancora fare molto male all'immagine internazionale del governo e al cammino parlamentare della riforma e degli altri provvedimenti.
A Casini interessa poco il merito, lui è per il compromesso "a prescindere", mentre Bersani teme «manovre dilatorie». Il Pdl non cerca la crisi con Monti, ma il risultato politico. E sa che ci sono tutte le condizioni per ottenerlo, conseguendo un successo politico e parlamentare dal quale cominciare a riaccreditarsi agli occhi dei mercati e dei suoi elettori delusi.
RIFORME O NON RIFORME - Spaventati da un nuovo tsunami di antipolitica provocata dal terremoto in casa Lega i partiti sono corsi subito ai ripari, ma è la solita pezza: trasparenza sui bilanci, controlli, sanzioni. Ma ovviamente non tagliano il vero nodo: l'abolizione del finanziamento pubblico che si nasconde dietro i cosiddetti «rimborsi» elettorali. E inoltre si prendono tutto il tempo per far calmare le acque. Dichiarato inammissibile l'emendamento al dl fiscale (manifestamente estraneo alla materia), infatti, le misure sono affidate ad una normale pdl, a firma di ABC, che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe seguire un iter accelerato, venendo assegnata alle commissioni affari costituzionali in sede legislativa (cioè senza passaggio in aula). Ma solo in teoria, visto che ci vuole l'unanimità per procedere in questo senso.
Pronto invece il ddl sulle riforme costituzionali, che contiene però una serie di improbabili procedure che rischiano di aumentare la confusione sistemica. Il presidente del Consiglio potrà chiedere (solo chiedere) al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e chiedere (solo chiedere, per carità) lo scioglimento delle Camere, o di una Camera, quando queste gli neghino la fiducia, a meno che le Camere, entro 20 giorni, non approvino a maggioranza assoluta e in seduta comune una mozione di sfiducia costruttiva, in cui cioè si indica un nuovo premier. Verrebbe ridotto di un 20% il numero dei parlamentari - 508 deputati (da 630) e 254 senatori (da 315) - e introdotta la non meglio precisata nozione di «bicameralismo eventuale».
Nel suo bollettino mensile intanto la Bce spiega che sul debito sovrano di Italia e Spagna pesano i timori sulla crescita e l'occupazione e avverte che il «contesto radicalmente mutato» dei mercati finanziari mondiali impone ai Paesi dell'area euro di tagliare i debiti pubblici a livelli «decisamente inferiori al 60%» del Pil, il che per molti (Italia compresa, ovviamente) significherà «conseguire avanzi di bilancio primario pari o superiori al 4% del Pil».
Mi sa che Giarda e i tecnici dovranno abbandonare l'idea di preservare la «way of life» italiana della spesa pubblica. Ai «profeti» dei tagli alla spesa il sottosegretario aveva ironicamente chiesto indicazioni precise su dove tagliare, visto che lui sta facendo la spending review ma non vede nient'altro da tagliare. Ebbene, è stato più che accontentato.
Prima da Oscar Giannino, che indica sanità (20 miliardi in tre anni), massa salariale pubblica (35 miliardi in tre anni, senza buttare per strada nessuno) e trasferimenti alle imprese (25 miliardi). Totale: 80 miliardi, più di 5 punti di Pil in tre anni, e si mette a disposizione per una consulenza anche gratis. Poi da Bisin e De Nicola, che su la Repubblica suggeriscono di tagliare contributi alle imprese (14 miliardi), di vendere la Rai (3-4 miliardi) e asset pubblici (20 miliardi), e in più di risparmiare altri miliardi dall'accorpamento di scuole e tribunali, dall'attuazione dei costi standard nella sanità, dal taglio dei costi della politica e dallo sfoltimeno di organici pletorici. Il loro articolo ha il pregio di escludere, sia pure ironicamente, le riforme cosiddette liberiste, e di limitarsi a segnalare quei tagli alla spesa che «non cambiano l'impianto sociale del Paese», quindi senza rinunciare ai servizi garantiti (in qualche modo) dallo Stato tanto cari a Giarda e ai suoi compagni di governo. Infine, anche Michele Boldrin vuole togliere qualsiasi alibi a Giarda e a Monti: tagliare i costi della casta politico-burocratica (5-7 miliardi), gli stipendi pubblici riportandoli ai livelli del 1995 (0,8-0,9% del Pil); e i sussidi alle imprese (20 miliardi). Per un totale del 3% del Pil.
Insomma, grasso da tagliare ce n'è, cari Giarda e Monti, non avete scuse, men che mai quella dei pericolosi "liberisti" alle porte: quella che manca è la volontà politica.
Mentre il governo fa uno sforzo e ritira l'assurda tassa sugli sms (anche se al suo posto si profila un nuovo aumento sulla benzina) e tira fuori il numero degli esodati, per i quali ci sarebbe la benedetta «copertura finanziaria», Monti è costretto a riaprire, per l'ennesima volta, il capitolo riforma del lavoro. Ovviamente il premier è contrariato, irritato, ma se la deve far passare: è stato lui a dismettere il metodo di presentare ai partiti riforme prendere o lasciare. Oggi Alfano e la presidente uscente di Confindustria si sono incontrati per mettere a punto gli emendamenti al testo e Monti ha dovuto ricevere per un'oretta il segretario del Pdl. Ha ceduto alle richieste di Pd e Cgil sull'articolo 18? Alla fine dovrà cedere anche a quelle sulla flessibilità in entrata - tra l'altro sensate - dell'asse Pdl-Marcegaglia, che può ancora fare molto male all'immagine internazionale del governo e al cammino parlamentare della riforma e degli altri provvedimenti.
A Casini interessa poco il merito, lui è per il compromesso "a prescindere", mentre Bersani teme «manovre dilatorie». Il Pdl non cerca la crisi con Monti, ma il risultato politico. E sa che ci sono tutte le condizioni per ottenerlo, conseguendo un successo politico e parlamentare dal quale cominciare a riaccreditarsi agli occhi dei mercati e dei suoi elettori delusi.
RIFORME O NON RIFORME - Spaventati da un nuovo tsunami di antipolitica provocata dal terremoto in casa Lega i partiti sono corsi subito ai ripari, ma è la solita pezza: trasparenza sui bilanci, controlli, sanzioni. Ma ovviamente non tagliano il vero nodo: l'abolizione del finanziamento pubblico che si nasconde dietro i cosiddetti «rimborsi» elettorali. E inoltre si prendono tutto il tempo per far calmare le acque. Dichiarato inammissibile l'emendamento al dl fiscale (manifestamente estraneo alla materia), infatti, le misure sono affidate ad una normale pdl, a firma di ABC, che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe seguire un iter accelerato, venendo assegnata alle commissioni affari costituzionali in sede legislativa (cioè senza passaggio in aula). Ma solo in teoria, visto che ci vuole l'unanimità per procedere in questo senso.
Pronto invece il ddl sulle riforme costituzionali, che contiene però una serie di improbabili procedure che rischiano di aumentare la confusione sistemica. Il presidente del Consiglio potrà chiedere (solo chiedere) al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e chiedere (solo chiedere, per carità) lo scioglimento delle Camere, o di una Camera, quando queste gli neghino la fiducia, a meno che le Camere, entro 20 giorni, non approvino a maggioranza assoluta e in seduta comune una mozione di sfiducia costruttiva, in cui cioè si indica un nuovo premier. Verrebbe ridotto di un 20% il numero dei parlamentari - 508 deputati (da 630) e 254 senatori (da 315) - e introdotta la non meglio precisata nozione di «bicameralismo eventuale».
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Wednesday, April 11, 2012
La giornata: anche il sobrio Monti s'innervosisce; Pdl redivivo su lavoro, fisco e debito
SOLE TRA I MONTI - Dopo il tonfo di ieri quello di oggi è poco più di un rimbalzo per Piazza affari (+1,6%) e per i nostri titoli decennali (385 lo spread). Sui giornali è ripartita la caccia agli speculatori, purtroppo anche dalle pagine del Sole24Ore. Sul principale quotidiano economico del nostro Paese, organo di Confindustria, tocca leggere una inutile difesa d'ufficio di Monti, il quale non dovrebbe prendersela se per il WSJ non è una Thatcher, «come se il paragone fosse un complimento», ironizza l'autore dell'articolo. Per il quotidiano del "Fate presto" ora "La scommessa è sul lungo periodo". Vabbè.
CATTIVA AUSTERITA' - Si dà la colpa all'austerity, che aggrava la recessione nei Paesi eurodeboli e li allontana dagli obiettivi di bilancio. Vero, ma di che tipo di austerity si tratta? L'approccio austerità più riforme per la crescita è l'unico per sperare di uscire dalla crisi. Il problema sono la finta, o "cattiva" austerità (più tasse anziché tagli alla spesa pubblica) e le finte riforme. Purtroppo è l'approccio - conclamato, dopo l'intervista di Giarda e la «resa» sull'articolo 18 - del governo italiano, e i mercati lo stanno sanzionando.
ASTA - Con le aste di oggi abbiamo purtroppo già incorporato nei rendimenti l'aumento dello spread. Anche se la domanda è risultata «sostenuta, come nelle attese», osserva Bankitalia, i titoli semestrali sono andati via con un rendimento al 2,84%, ai massimi da dicembre e il doppio dell'ultima asta (1,40%); i trimestrali all'1,25% rispetto allo 0,5% del collocamento dello scorso mese, oltre il doppio quindi, e per di più con bid-to-cover in calo dal 2,23 all'1,81%.
PIL E BANCHE - Le brutte notizie non finiscono qui. Il viceministro Grilli ha confermato che il governo è pronto a rivedere al ribasso le stime del Pil per il 2012 (da -0,4% a -1,3%, un punto percentuale in meno dopo solo un trimestre) e ha reso noto che per effetto dei prestiti della Bce nella pancia delle nostre banche sono finiti ulteriori 60 miliardi di titoli di Stato (dai 209 miliardi nel dicembre 2011 ai 267 di febbraio). Il che vuol dire che i loro portafogli sono ancora più gonfi di rischio sovrano, e potrebbe essere questo uno dei motivi delle perdite in Borsa, e che il calo dello spread nelle ultime settimane è principalmente dovuto ad acquisti "nostrani", e gli investitori esteri se ne stanno accorgendo.
STRESS MONTI - Monti se l'è dovuta rimangiare quella frase pronunciata in Asia - la crisi dell'Eurozona è «superata» - e alla nuova, inattesa impennata dei rendimenti, con l'esaurirsi della spinta riformatrice del governo, affiora un certo nervosismo anche nei tecnici, aumentano le assonanze con i politici. Il sobrio, il controllato Monti reagisce nello stesso modo che rimproveravano a Berlusconi: puntando l'indice verso gli altri Paesi - oggi il «contagio spagnolo» - e persino verso le critiche interne (delle imprese e dei suoi colleghi professori, i soliti Alesina e Giavazzi). Il tecnico per eccellenza, preso dallo sconforto per i dati economici, cede anche allo strumento politico per eccellenza, il vecchio caro retroscena, per far filtrare tutta la sua arrabbiatura nei confronti della Marcegaglia per le dichiarazioni sulla riforma del lavoro («very bad»). Ma è preoccupante che possa apparire verosimile, nonostante la competenza e l'intelligenza attribuite al professore della Bocconi, che Monti creda davvero che Wall Street Journal, Financial Times, e infine gli investitori, si siano tutti fatti influenzare dalle opinioni della Marcegaglia e non abbiano, piuttosto, bocciato loro stessi la pessima riforma del lavoro varata dal governo.
In giornata Palazzo Chigi ha smentito che in questi giorni il premier abbia commentato «direttamente o indirettamente» le cause che sarebbero all'origine della risalita dello spread, ma a confermare la versione dei retroscenisti è il ministro Passera, che a margine di un convegno sul digitale chiama in causa «Germania e Spagna», a cui si sarebbero aggiunti «i dati non buoni di Usa e Cina». Fatto sta che a Madrid si sono risentiti e Rajoy, pur senza nominare Monti, ha chiesto ai leader europei di «essere prudenti» nelle dichiarazioni sulle responsabilità della crisi. Non c'entrerebbe niente, invece, assicura il ministro, la riforma del lavoro.
PDL REDIVIVO - Riforma che questa mattina ha iniziato il suo iter in commissione al Senato. Il ministro Fornero ha spiegato che «non è un testo definitivo, si possono fare dei cambiamenti per migliorare l'equilibrio nel suo complesso, senza però arretramenti», ha avvertito. Il Pdl però offre una sponda alle imprese chiedendo una «profonda revisione» del ddl. Parole che suonano come un vero e proprio stop. Nel mirino la troppa rigidità reintrodotta nei contratti di ingresso nel mercato del lavoro. Domani seguirà un incontro con gli imprenditori prima di definire gli emendamenti. Pdl attivo anche sul fronte del debito, con la richiesta di dismettere asset pubblici non strategici, immobiliari e non, e fiscale, con gli emendamenti per l'Imu rateizzabile e una tantum e per evitare l'aumento dell'Iva di due punti, previsto per ottobre. Buona fortuna.
ORA VENDOLA - Infine, si allarga il fronte giudiziario: dopo Bossi, ecco Vendola indagato a Bari, per abuso d'ufficio nella nomina di un primario. Sarà un caso che la magistratura sta decapitando i vertici delle uniche opposizioni a Monti e alla "Grande Coalizione"?
CATTIVA AUSTERITA' - Si dà la colpa all'austerity, che aggrava la recessione nei Paesi eurodeboli e li allontana dagli obiettivi di bilancio. Vero, ma di che tipo di austerity si tratta? L'approccio austerità più riforme per la crescita è l'unico per sperare di uscire dalla crisi. Il problema sono la finta, o "cattiva" austerità (più tasse anziché tagli alla spesa pubblica) e le finte riforme. Purtroppo è l'approccio - conclamato, dopo l'intervista di Giarda e la «resa» sull'articolo 18 - del governo italiano, e i mercati lo stanno sanzionando.
ASTA - Con le aste di oggi abbiamo purtroppo già incorporato nei rendimenti l'aumento dello spread. Anche se la domanda è risultata «sostenuta, come nelle attese», osserva Bankitalia, i titoli semestrali sono andati via con un rendimento al 2,84%, ai massimi da dicembre e il doppio dell'ultima asta (1,40%); i trimestrali all'1,25% rispetto allo 0,5% del collocamento dello scorso mese, oltre il doppio quindi, e per di più con bid-to-cover in calo dal 2,23 all'1,81%.
PIL E BANCHE - Le brutte notizie non finiscono qui. Il viceministro Grilli ha confermato che il governo è pronto a rivedere al ribasso le stime del Pil per il 2012 (da -0,4% a -1,3%, un punto percentuale in meno dopo solo un trimestre) e ha reso noto che per effetto dei prestiti della Bce nella pancia delle nostre banche sono finiti ulteriori 60 miliardi di titoli di Stato (dai 209 miliardi nel dicembre 2011 ai 267 di febbraio). Il che vuol dire che i loro portafogli sono ancora più gonfi di rischio sovrano, e potrebbe essere questo uno dei motivi delle perdite in Borsa, e che il calo dello spread nelle ultime settimane è principalmente dovuto ad acquisti "nostrani", e gli investitori esteri se ne stanno accorgendo.
STRESS MONTI - Monti se l'è dovuta rimangiare quella frase pronunciata in Asia - la crisi dell'Eurozona è «superata» - e alla nuova, inattesa impennata dei rendimenti, con l'esaurirsi della spinta riformatrice del governo, affiora un certo nervosismo anche nei tecnici, aumentano le assonanze con i politici. Il sobrio, il controllato Monti reagisce nello stesso modo che rimproveravano a Berlusconi: puntando l'indice verso gli altri Paesi - oggi il «contagio spagnolo» - e persino verso le critiche interne (delle imprese e dei suoi colleghi professori, i soliti Alesina e Giavazzi). Il tecnico per eccellenza, preso dallo sconforto per i dati economici, cede anche allo strumento politico per eccellenza, il vecchio caro retroscena, per far filtrare tutta la sua arrabbiatura nei confronti della Marcegaglia per le dichiarazioni sulla riforma del lavoro («very bad»). Ma è preoccupante che possa apparire verosimile, nonostante la competenza e l'intelligenza attribuite al professore della Bocconi, che Monti creda davvero che Wall Street Journal, Financial Times, e infine gli investitori, si siano tutti fatti influenzare dalle opinioni della Marcegaglia e non abbiano, piuttosto, bocciato loro stessi la pessima riforma del lavoro varata dal governo.
In giornata Palazzo Chigi ha smentito che in questi giorni il premier abbia commentato «direttamente o indirettamente» le cause che sarebbero all'origine della risalita dello spread, ma a confermare la versione dei retroscenisti è il ministro Passera, che a margine di un convegno sul digitale chiama in causa «Germania e Spagna», a cui si sarebbero aggiunti «i dati non buoni di Usa e Cina». Fatto sta che a Madrid si sono risentiti e Rajoy, pur senza nominare Monti, ha chiesto ai leader europei di «essere prudenti» nelle dichiarazioni sulle responsabilità della crisi. Non c'entrerebbe niente, invece, assicura il ministro, la riforma del lavoro.
PDL REDIVIVO - Riforma che questa mattina ha iniziato il suo iter in commissione al Senato. Il ministro Fornero ha spiegato che «non è un testo definitivo, si possono fare dei cambiamenti per migliorare l'equilibrio nel suo complesso, senza però arretramenti», ha avvertito. Il Pdl però offre una sponda alle imprese chiedendo una «profonda revisione» del ddl. Parole che suonano come un vero e proprio stop. Nel mirino la troppa rigidità reintrodotta nei contratti di ingresso nel mercato del lavoro. Domani seguirà un incontro con gli imprenditori prima di definire gli emendamenti. Pdl attivo anche sul fronte del debito, con la richiesta di dismettere asset pubblici non strategici, immobiliari e non, e fiscale, con gli emendamenti per l'Imu rateizzabile e una tantum e per evitare l'aumento dell'Iva di due punti, previsto per ottobre. Buona fortuna.
ORA VENDOLA - Infine, si allarga il fronte giudiziario: dopo Bossi, ecco Vendola indagato a Bari, per abuso d'ufficio nella nomina di un primario. Sarà un caso che la magistratura sta decapitando i vertici delle uniche opposizioni a Monti e alla "Grande Coalizione"?
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Thursday, April 05, 2012
La giornata: l'addio di Bossi e la non riforma che smaschera il Bluff-Italia
La notiziona del giorno sono senz'altro le dimissioni di Bossi (al suo posto il triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago), che chiudono un'era politica, anche se quella che si apre non è detto abbia le caratteristiche del nuovo che avanza. Evito di riportare particolari che troverete su siti molto più autorevoli, e mi limito a un interrogativo e ad una considerazione. Mi e vi chiedo: come mai, se i beneficiari della truffa e dell'appropriazione indebita contestate al tesoriere della Lega Belsito sono Bossi e i suoi figli, non risultano ancora indagati? Una curiosa anomalia. La riflessione - amara - è che in Italia funziona così il ricambio delle classi dirigenti: tutti hanno scheletri negli armadi; quando è ora di sbarazzarsene, basta passare le chiavi alla magistratura. Chi sarà stato in questo caso? Ovvio che i sospetti si concentrino su Maroni, ex ministro degli interni. Nel caso di Bossi, inoltre, si ha la triste impressione che dopo la malattia qualcuno (anche in famiglia) se ne sia approfittato, ma questo sarà il processo a stabilirlo. Di certo non mi unisco allo sport nazionale: Piazzale Loreto.
Oscurati dallo tsunami in casa Lega lo spread, che torna a salire a livelli angoscianti, e le polemiche sulla riforma del lavoro. Monti non ha mai detto che la crisi è finita, ma come lui stesso ha precisato ieri in conferenza stampa, che la crisi dell'Eurozona era superata. Ecco, anche questa affermazione è stata in poche ore smentita, ma dai fatti. E' la febbre spagnola stavolta a tirare su lo spread (fino a 400), portandosi dietro Italia (369) e Francia (113). Ma non è escluso che il cedimento del governo sulla riforma del lavoro abbia potuto già influire sui mercati. Rispetto ai giorni scorsi, infatti, il differenziale tra i nostri btp e i bonos spagnoli si è ridotto da 40 a 30 punti, con minimi di giornata di 26.
Reintegro solo in casi «molto estremi e improbabili», assicura il premier sull'articolo 18. Ma è sempre stato così, non era (e non è) questo il punto. Il problema è l'incertezza, l'aumento dei ricorsi, la discrezionalità dei giudici. E a pensarlo non sono solo liberisti "selvaggi" come l'Istituto Bruno Leoni («rende solo più oneroso il lavoro flessibile, senza ridurre i costi del lavoro a tempo indeterminato») e Oscar Giannino («resta tutto il giro di vite alla flessibilità in entrata, mentre il giudice con la sua piena discrezionalità domina in ogni forma di licenziamento»), ma anche Tito Boeri («con le ultime correzioni la riforma dà ancora più poteri ai giudici. Aumenterà l'incertezza») e Linkiesta («i ricorsi ricominceranno a moltiplicarsi. E tanti saluti alla certezza e celerità del diritto, di cui investitori e lavoratori davvero avrebbero bisogno»), così come Pietro Ichino, di nuovo sconfitto nel suo partito («colpisce che il Pd abbia accettato di sacrificare gli interessi di un milione e mezzo di outsiders "collaboratori" pur di recuperare un pezzetto della job property degli insiders subordinati regolari»).
E scopriamo oggi che il ddl contiene anche una nuova stangata fiscale per finanziare la riforma (oltre 20 miliardi di euro preventivati per il periodo 2014-2021): 2 euro in più di diritti d'imbarco sugli aerei; dieci punti in più di aliquota per i proprietari di casa che non aderiscono alla cedolare secca sugli affitti; stretta sulla deducibilità delle auto aziendali.
Altro che punto d'equilibrio... l'esultanza di Bersani e dei sindacati (Cgil compresa) la dice lunga su chi sia uscito vincitore. E non illudiamoci che stampa e investitori esteri non abbiano colto il sostanziale cedimento del governo Monti alle forze della conservazione sociale. Il Financial Times già parla di «appeasement» e offre la propria homepage (in mondovisione) allo sfogo di Emma Marcegaglia. Che non più presidente di Confindustria bastona Monti non solo sulla riforma del lavoro. «Very bad», è la sua bocciatura senz'appello sul FT: «Il testo è pessimo. Non è quello che abbiamo concordato», «non è la riforma di cui il Paese ha bisogno». Le nuove norme sono giudicate così negativamente da ritenere che «sarebbe meglio che non ci fossero». Se restano così, avverte, «non solo le imprese non creano nuova occupazione, ma non rinnovano i contratti precari in essere». Giudizio negativo anche sul resto dell'operato del governo tecnico: «L'inizio è stato positivo. Eravamo così vicini all'abisso...». Ma per il resto tanta delusione: per la portata effettiva delle riforme, come le liberalizzazioni, e «sul fronte dei tagli alla spesa pubblica non abbiamo visto nulla». Poteva dirle prima queste cose, quando ancora guidava Confindustria.
Una reazione che ha quanto meno indotto Alfano a battere un colpo («sosteniamo Monti ma su lavoro e fisco serve un cambio di passo») e a impegnare il Pdl ad apportare modifiche e miglioramenti al testo in Parlamento, anche se ormai gli spazi di manovra saranno ridotti al minimo.
Oscurati dallo tsunami in casa Lega lo spread, che torna a salire a livelli angoscianti, e le polemiche sulla riforma del lavoro. Monti non ha mai detto che la crisi è finita, ma come lui stesso ha precisato ieri in conferenza stampa, che la crisi dell'Eurozona era superata. Ecco, anche questa affermazione è stata in poche ore smentita, ma dai fatti. E' la febbre spagnola stavolta a tirare su lo spread (fino a 400), portandosi dietro Italia (369) e Francia (113). Ma non è escluso che il cedimento del governo sulla riforma del lavoro abbia potuto già influire sui mercati. Rispetto ai giorni scorsi, infatti, il differenziale tra i nostri btp e i bonos spagnoli si è ridotto da 40 a 30 punti, con minimi di giornata di 26.
Reintegro solo in casi «molto estremi e improbabili», assicura il premier sull'articolo 18. Ma è sempre stato così, non era (e non è) questo il punto. Il problema è l'incertezza, l'aumento dei ricorsi, la discrezionalità dei giudici. E a pensarlo non sono solo liberisti "selvaggi" come l'Istituto Bruno Leoni («rende solo più oneroso il lavoro flessibile, senza ridurre i costi del lavoro a tempo indeterminato») e Oscar Giannino («resta tutto il giro di vite alla flessibilità in entrata, mentre il giudice con la sua piena discrezionalità domina in ogni forma di licenziamento»), ma anche Tito Boeri («con le ultime correzioni la riforma dà ancora più poteri ai giudici. Aumenterà l'incertezza») e Linkiesta («i ricorsi ricominceranno a moltiplicarsi. E tanti saluti alla certezza e celerità del diritto, di cui investitori e lavoratori davvero avrebbero bisogno»), così come Pietro Ichino, di nuovo sconfitto nel suo partito («colpisce che il Pd abbia accettato di sacrificare gli interessi di un milione e mezzo di outsiders "collaboratori" pur di recuperare un pezzetto della job property degli insiders subordinati regolari»).
E scopriamo oggi che il ddl contiene anche una nuova stangata fiscale per finanziare la riforma (oltre 20 miliardi di euro preventivati per il periodo 2014-2021): 2 euro in più di diritti d'imbarco sugli aerei; dieci punti in più di aliquota per i proprietari di casa che non aderiscono alla cedolare secca sugli affitti; stretta sulla deducibilità delle auto aziendali.
Altro che punto d'equilibrio... l'esultanza di Bersani e dei sindacati (Cgil compresa) la dice lunga su chi sia uscito vincitore. E non illudiamoci che stampa e investitori esteri non abbiano colto il sostanziale cedimento del governo Monti alle forze della conservazione sociale. Il Financial Times già parla di «appeasement» e offre la propria homepage (in mondovisione) allo sfogo di Emma Marcegaglia. Che non più presidente di Confindustria bastona Monti non solo sulla riforma del lavoro. «Very bad», è la sua bocciatura senz'appello sul FT: «Il testo è pessimo. Non è quello che abbiamo concordato», «non è la riforma di cui il Paese ha bisogno». Le nuove norme sono giudicate così negativamente da ritenere che «sarebbe meglio che non ci fossero». Se restano così, avverte, «non solo le imprese non creano nuova occupazione, ma non rinnovano i contratti precari in essere». Giudizio negativo anche sul resto dell'operato del governo tecnico: «L'inizio è stato positivo. Eravamo così vicini all'abisso...». Ma per il resto tanta delusione: per la portata effettiva delle riforme, come le liberalizzazioni, e «sul fronte dei tagli alla spesa pubblica non abbiamo visto nulla». Poteva dirle prima queste cose, quando ancora guidava Confindustria.
Una reazione che ha quanto meno indotto Alfano a battere un colpo («sosteniamo Monti ma su lavoro e fisco serve un cambio di passo») e a impegnare il Pdl ad apportare modifiche e miglioramenti al testo in Parlamento, anche se ormai gli spazi di manovra saranno ridotti al minimo.
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Monday, March 19, 2012
Riforma del lavoro, giù le carte
Anche su Notapolitica
Si apre una settimana decisiva per la riforma del mercato del lavoro – se il governo intenderà far rispettare la scadenza del 23 marzo. Al tavolo dei negoziati con le parti sociali verrà girata l’ultima carta, proprio come nel poker alla texana. Martedì il premier e il ministro Fornero incontreranno sindacati e imprese con l’intenzione di tirare le fila del discorso e giungere ad un accordo di massima su tutti i dossier aperti. Sabato al convegno di Confindustria Monti ha confermato per questa settimana la chiusura delle trattative, facendo appello allo «spirito di coesione» delle parti e chiedendo a ciascuna di «cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte». Nel vertice di giovedì sera con il presidente del Consiglio l’ABC – il tridente dei leader di partito alle spalle di Monti, la prima punta – aveva sostanzialmente espresso il proprio via libera all’impostazione della riforma, rimettendosi comunque all’eventuale accordo tra il governo e le parti sociali. Una concordia, immortalata dallo scatto fotografico di Casini, che aveva autorizzato un certo entusiasmo, come se ormai l’accordo fosse cosa fatta. Un pressing però non molto gradito dalle parti sociali, che tra venerdì e sabato hanno bruscamente frenato. Tutti sono tornati a rimarcare i punti di distanza tra di loro e con le proposte avanzate dal governo. L’accordo, insomma, è ancora possibile ma né scontato né facile.
Sull’articolo 18 «tutte le soluzioni» appaiono «lontane da ogni possibile ipotesi di un accordo», ha messo le mani avanti la Camusso dal palco del convegno di Confindustria, poco prima che prendesse la parola il presidente del Consiglio. «Fondare tutto sul tema dell’articolo 18 – lamentava la leader della Cgil – significa far passare l’idea che l’unico problema sia quello di licenziare». Poi la doccia gelata: «Siamo belli lontani» dal raggiungere l’accordo, «impossibile chiudere martedì». Dagli incontri informali di sabato mattina «sono emersi estremismi», ha commentato Bonanni, della Cisl, avvertendo che senza accordo «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura» e spiegando di comprendere la posizione delle imprese ma «non quella di altri», riferendosi senza citarla alla Cgil. Dubbioso anche Angeletti della Uil, che non scommetterebbe soldi sull’accordo perché «allo stato attuale non ci sono soluzioni condivise».
L’impressione tuttavia è che per la Cgil, e in misura minore per gli altri sindacati, meno oltranzisti, ormai non sia questione di trattare, ma di trattare una resa onorevole. Il tabù dell’articolo 18 in un modo o nell’altro verrà infranto. I mercati hanno probabilmente già scontato la riforma, sulla fiducia nel professor Monti, e una delusione costerebbe al governo la sua credibilità. Ma il premier si sforzerà di offrire un compromesso che non abbia il sapore dell’umiliazione per i sindacati, in modo da poter esibire la loro firma sulla riforma, che addolcirebbe enormemente la pillola per il Pd facilitando, quindi, i passaggi parlamentari; per i sindacati si tratta di arrivare all’accordo, se accordo ci dev’essere, in frenata, puntando i piedi, per non dare alla base, intransigente nel denunciare gli "inciuci" con i "padroni", l’impressione di una resa.
D’altra parte Emma Marcegaglia non ci sta ad un «compromesso al ribasso», se è così «meglio non farla, o quanto meno non avrà la firma di Confindustria». Nel suo intervento conclusivo sabato ha ripetuto le obiezioni della laconica nota diffusa venerdì sera da Abi, Cooperative, Ania, Confindustria, Rete Imprese Italia: «La riforma del lavoro che il governo va delineando non pare ancora in grado di individuare le giuste soluzioni». Diverse le preoccupazioni degli imprenditori: la restrizione e il significativo aumento di oneri e vincoli burocratici delle forme "buone" di flessibilità in entrata; l’aumento del costo del lavoro che dovranno sopportare per finanziare i nuovi ammortizzatori, che non sarebbero comunque in grado di agevolare i processi di ristrutturazione; e la mancanza di chiarezza sulle soluzioni, «che anche l’Europa chiede all’Italia, per migliorare la flessibilità in uscita». Il rischio che paventano le imprese italiane è, quindi, di trovarsi «indebolite di fronte alla concorrenza internazionale», ma al tempo stesso rinnovano la disponibilità a lavorare per raggiungere «un accordo pienamente condiviso».
Il ministro Fornero ribadisce che un accordo con le parti sociali è «imprescindibile», perché darebbe «un valore aggiunto di notevole importanza alla qualità della riforma», ma ci sono molte ragioni per dubitarne: una buona riforma con l’accordo di tutti i sindacati è come i neutrini più veloci della luce, come sfidare le leggi della fisica. Se infatti non si può disconoscere il valore politico e sociale di un accordo tra le parti, ciò che dovrebbe essere imprescindibile, al di sopra degli interessi di parte, è l’efficacia della riforma rispetto agli obiettivi che si prefigge per favorire la crescita economica e dell’occupazione. E sono essenzialmente tre: ridurre il dualismo del mercato del lavoro superando la logica del posto fisso, quindi aumentando la flessibilità in uscita; semplificare la selva di contratti flessibili senza irrigidire il mercato in entrata; passare gradualmente ma in modo incisivo dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore che perde il posto. Il tutto, se possibile, senza aumentare il cuneo fiscale, già a livelli massimi e fuori mercato.
Un approccio punitivo nei confronti delle forme di flessibilità "buona", così come il mantenimento della centralità della cassa integrazione chissà per quanti anni ancora, contraddirebbero gli obiettivi proclamati della riforma. Sull’articolo 18, il riferimento al modello tedesco è pericoloso: in Germania funziona perché storicamente i sindacati, più coinvolti nella gestione delle aziende, si comportano più responsabilmente, e la giustizia del lavoro viene amministrata in modo ultra-rapido e pragmatico. In Italia lasciare alla discrezione dei giudici del lavoro la scelta tra reintegro e indennizzo significherebbe non liberare i licenziamenti dalla roulette di lungaggini e ideologismi, cioè da tutte quelle incertezze che fungono da deterrente ad assumere. Il ricorso al modello tedesco quindi può prestarsi ad una doppia interpretazione: un assist offerto ai sindacati per incoraggiarli a sottoscrivere una riforma che si richiama esplicitamente ad un sistema produttivo in cui i sindacati svolgono un ruolo centrale e in cui non vige certo il licenziamento facile; oppure un espediente, che si rivelerebbe ben presto velleitario, per nascondere ai mercati, dietro il riferimento all’efficienza germanica, una piccola riforma e per compiacere il partner tedesco.
Si apre una settimana decisiva per la riforma del mercato del lavoro – se il governo intenderà far rispettare la scadenza del 23 marzo. Al tavolo dei negoziati con le parti sociali verrà girata l’ultima carta, proprio come nel poker alla texana. Martedì il premier e il ministro Fornero incontreranno sindacati e imprese con l’intenzione di tirare le fila del discorso e giungere ad un accordo di massima su tutti i dossier aperti. Sabato al convegno di Confindustria Monti ha confermato per questa settimana la chiusura delle trattative, facendo appello allo «spirito di coesione» delle parti e chiedendo a ciascuna di «cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte». Nel vertice di giovedì sera con il presidente del Consiglio l’ABC – il tridente dei leader di partito alle spalle di Monti, la prima punta – aveva sostanzialmente espresso il proprio via libera all’impostazione della riforma, rimettendosi comunque all’eventuale accordo tra il governo e le parti sociali. Una concordia, immortalata dallo scatto fotografico di Casini, che aveva autorizzato un certo entusiasmo, come se ormai l’accordo fosse cosa fatta. Un pressing però non molto gradito dalle parti sociali, che tra venerdì e sabato hanno bruscamente frenato. Tutti sono tornati a rimarcare i punti di distanza tra di loro e con le proposte avanzate dal governo. L’accordo, insomma, è ancora possibile ma né scontato né facile.
Sull’articolo 18 «tutte le soluzioni» appaiono «lontane da ogni possibile ipotesi di un accordo», ha messo le mani avanti la Camusso dal palco del convegno di Confindustria, poco prima che prendesse la parola il presidente del Consiglio. «Fondare tutto sul tema dell’articolo 18 – lamentava la leader della Cgil – significa far passare l’idea che l’unico problema sia quello di licenziare». Poi la doccia gelata: «Siamo belli lontani» dal raggiungere l’accordo, «impossibile chiudere martedì». Dagli incontri informali di sabato mattina «sono emersi estremismi», ha commentato Bonanni, della Cisl, avvertendo che senza accordo «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura» e spiegando di comprendere la posizione delle imprese ma «non quella di altri», riferendosi senza citarla alla Cgil. Dubbioso anche Angeletti della Uil, che non scommetterebbe soldi sull’accordo perché «allo stato attuale non ci sono soluzioni condivise».
L’impressione tuttavia è che per la Cgil, e in misura minore per gli altri sindacati, meno oltranzisti, ormai non sia questione di trattare, ma di trattare una resa onorevole. Il tabù dell’articolo 18 in un modo o nell’altro verrà infranto. I mercati hanno probabilmente già scontato la riforma, sulla fiducia nel professor Monti, e una delusione costerebbe al governo la sua credibilità. Ma il premier si sforzerà di offrire un compromesso che non abbia il sapore dell’umiliazione per i sindacati, in modo da poter esibire la loro firma sulla riforma, che addolcirebbe enormemente la pillola per il Pd facilitando, quindi, i passaggi parlamentari; per i sindacati si tratta di arrivare all’accordo, se accordo ci dev’essere, in frenata, puntando i piedi, per non dare alla base, intransigente nel denunciare gli "inciuci" con i "padroni", l’impressione di una resa.
D’altra parte Emma Marcegaglia non ci sta ad un «compromesso al ribasso», se è così «meglio non farla, o quanto meno non avrà la firma di Confindustria». Nel suo intervento conclusivo sabato ha ripetuto le obiezioni della laconica nota diffusa venerdì sera da Abi, Cooperative, Ania, Confindustria, Rete Imprese Italia: «La riforma del lavoro che il governo va delineando non pare ancora in grado di individuare le giuste soluzioni». Diverse le preoccupazioni degli imprenditori: la restrizione e il significativo aumento di oneri e vincoli burocratici delle forme "buone" di flessibilità in entrata; l’aumento del costo del lavoro che dovranno sopportare per finanziare i nuovi ammortizzatori, che non sarebbero comunque in grado di agevolare i processi di ristrutturazione; e la mancanza di chiarezza sulle soluzioni, «che anche l’Europa chiede all’Italia, per migliorare la flessibilità in uscita». Il rischio che paventano le imprese italiane è, quindi, di trovarsi «indebolite di fronte alla concorrenza internazionale», ma al tempo stesso rinnovano la disponibilità a lavorare per raggiungere «un accordo pienamente condiviso».
Il ministro Fornero ribadisce che un accordo con le parti sociali è «imprescindibile», perché darebbe «un valore aggiunto di notevole importanza alla qualità della riforma», ma ci sono molte ragioni per dubitarne: una buona riforma con l’accordo di tutti i sindacati è come i neutrini più veloci della luce, come sfidare le leggi della fisica. Se infatti non si può disconoscere il valore politico e sociale di un accordo tra le parti, ciò che dovrebbe essere imprescindibile, al di sopra degli interessi di parte, è l’efficacia della riforma rispetto agli obiettivi che si prefigge per favorire la crescita economica e dell’occupazione. E sono essenzialmente tre: ridurre il dualismo del mercato del lavoro superando la logica del posto fisso, quindi aumentando la flessibilità in uscita; semplificare la selva di contratti flessibili senza irrigidire il mercato in entrata; passare gradualmente ma in modo incisivo dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore che perde il posto. Il tutto, se possibile, senza aumentare il cuneo fiscale, già a livelli massimi e fuori mercato.
Un approccio punitivo nei confronti delle forme di flessibilità "buona", così come il mantenimento della centralità della cassa integrazione chissà per quanti anni ancora, contraddirebbero gli obiettivi proclamati della riforma. Sull’articolo 18, il riferimento al modello tedesco è pericoloso: in Germania funziona perché storicamente i sindacati, più coinvolti nella gestione delle aziende, si comportano più responsabilmente, e la giustizia del lavoro viene amministrata in modo ultra-rapido e pragmatico. In Italia lasciare alla discrezione dei giudici del lavoro la scelta tra reintegro e indennizzo significherebbe non liberare i licenziamenti dalla roulette di lungaggini e ideologismi, cioè da tutte quelle incertezze che fungono da deterrente ad assumere. Il ricorso al modello tedesco quindi può prestarsi ad una doppia interpretazione: un assist offerto ai sindacati per incoraggiarli a sottoscrivere una riforma che si richiama esplicitamente ad un sistema produttivo in cui i sindacati svolgono un ruolo centrale e in cui non vige certo il licenziamento facile; oppure un espediente, che si rivelerebbe ben presto velleitario, per nascondere ai mercati, dietro il riferimento all’efficienza germanica, una piccola riforma e per compiacere il partner tedesco.
Friday, February 03, 2012
Meglio soli che male accompagnati
Un colpo di reni del ministro Fornero,
che al tavolo di oggi con le parti sociali sulla riforma del lavoro
chiarisce le intenzioni del governo: dialogo sì, ma la riforma
s'ha da fare (ce
lo ha ricordato anche la cancelliera Merkel la scorsa
settimana) e il governo la farà «nel volgere di poche
settimane», anche senza l'accordo con sindacati e
Confindustria.
I messaggi lanciati ieri dal premier
Mario Monti durante le sue apparizioni sulle reti Mediaset,
prima al Tg5 poi a Matrix, confermano che l'articolo 18
è sul tavolo: «Non è un tabù» e «può
essere pernicioso per lo sviluppo in certi contesti», quali
l'Italia, ha fatto capire. Da sempre sull'articolo 18 si scontrano
due visioni diametralmente opposte: chi lo ritiene una tutela
fondamentale, il baluardo dei diritti sociali; e chi invece un
potente feticcio che frena le assunzioni e ostacola la crescita
dimensionale delle imprese. In questa chiave bisogna leggere il
proposito, annunciato ieri sera dal premier, di «ridurre il
terribile apartheid che esiste nel mercato del lavoro tra chi è
già dentro e chi fa fatica a entrare o entra in condizioni
precarie». Siccome è impossibile obbligare le imprese ad
assumere a tempo indeterminato – al limite, se si aboliscono tutte
le altre tipologie di contratto, non assumeranno affatto – l'unico
modo per rimuovere o per lo meno ridurre l'apartheid è rendere
meno inamovibili gli insider, così che gli outsider
possano beneficiare della maggiore mobilità.
Confindustria ha preso la palla al
balzo. La presidente Marcegaglia si è detta «d'accordo»
sul fatto che la riforma vada fatta e trova «ragionevole»
che il governo vada avanti, anche perché «non è
un accordo sindacale, su un contratto che deve vedere le parti
sociali assolutamente coinvolte». Mercati ed Europa sono alla
finestra, «aspettano di vedere come faremo questa riforma, che
dimostrerà la capacità di cambiamento del Paese».
Gli industriali sembrano finalmente aver preso coraggio nel sostenere
anche il superamento dell'articolo 18: «Siamo totalmente
d'accordo che non deve essere più un tabù, crea una
dicotomia drammatica, pesantissima all'interno del mercato del
lavoro. Quindi il tema è sul tavolo e noi lo sosteniamo».
In particolare sul tavolo il ministro Fornero avrebbe portato lo stop
al reintegro dei lavoratori licenziati per motivi economici nei casi
di crisi aziendale.
Ma su un altro punto fondamentale della
riforma, il passaggio dal sistema di ammortizzatori attuale, che
tutela il posto di lavoro, anche se improduttivo, ad uno universale
che tuteli il singolo lavoratore, in qualsiasi settore sia impiegato,
che favorirebbe una più rapida ristrutturazione delle aziende
o riallocazione degli investimenti produttivi, Confindustria mostra
una certa resistenza, condivisa dai sindacati.
Sull'articolo 18 i sindacati sono
pronti alla levata di scudi ma sono cauti nelle loro reazioni per non
danneggiare la trattativa in corso. «Confindustria si fa
prendere un po' la mano sulla scorciatoia dei licenziamenti», è
la battuta della segretaria della Cgil Camusso, la quale piuttosto
che i toni ultimativi di oggi preferisce «apprezzare, pur
usando i condizionali d'obbligo, la dichiarazione del governo secondo
cui l'intento è di lavorare per raggiungere un accordo».
Bonanni della Cisl si augura che «in una situazione così
nessuno si metta in testa in modo così pervicace la questione
della flessibilità in uscita» e vede nell'articolo 18 un
modo «per coprire le reticenze del sistema, un ballon d'essai
per coprire altro». Ma il suo è un invito alla cautela:
«Non daremo l'esca a nessun estremista che aizzi allo scontro.
Il governo faccia lo stesso», suggerisce Bonanni.
Un tema, quello dell'articolo 18, che
promette di diventare dilaniante all'interno del Pd, dove si
scontrano la linea largamente maggioritaria, impersonata dall'ex
ministro Damiano e dal responsabile economico Fassina, allineata a
quella dei sindacati, e quella invece “liberale” di Ichino e dei
50 senatori che hanno sottoscritto la sua proposta. In mezzo Bersani,
che dovrà sostenere le scelte del governo Monti, anche nel
caso di un boccone amaro sull'art. 18.
Come prevedibile però la
polemica si è scatenata in particolare su un'affermazione del
premier Monti, quando ieri sera, ospite a Matrix, ha bollato
come «monotono» il posto fisso. Apriti cielo! Dal Pd
reazioni tra l'irritazione e lo scandalizzato, mentre Bersani tenta
di gettare acqua sul fuoco (il pensiero di Monti, «ed io un po'
lo conosco, è un po' più articolato» di quella
battuta). Nel Pdl Sacconi e Gelmini danno ragione al premier, mentre
Casini considera la sua una provocazione efficace, che non può
scandalizzare, e Della Vedova una battuta infelice. L'intenzione del
professore era quella di offrire un momento di verità nel
dibattito spesso pieno di ipocrisie sulla precarietà. Monotono
o meno, il posto fisso non esiste più, o esiste sempre meno,
dunque sarebbe sbagliato indicarlo ancora oggi ai giovani come
modello, come punto d'arrivo. L'unico modo per rendere meno precari i
nuovi lavoratori, senza irrigidire il mercato peggiorando così
il nostro gap competitivo, è rendere un po' meno inamovibili i
vecchi.
Thursday, January 26, 2012
Meglio nessuna riforma che una cattiva riforma
Anche su Notapolitica
Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.
Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.
La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.
Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?
Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.
Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.
Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.
Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.
Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.
La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.
Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?
Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.
Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.
Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.
Tuesday, October 18, 2011
Da che parte sta Confindustria
Sembra Nicola Porro del Giornale, invece è il prof. Francesco Giavazzi, che non può essere certo accusato di essere berlusconiano o filo-govenativo. Anzi. Eppure bastona Emma che inciucia coi sindacati: Confindustria è uno dei «mille interessi particolari che da decenni impediscono le riforme».
«Finché Confindustria parteciperà al tavolo della concertazione, giustamente i sindacati nazionali reclameranno il diritto di sedersi anch'essi a quel tavolo. E le politiche continueranno a essere concertate non per il bene dei cittadini, ma dei gruppi di interesse che Confindustria e sindacati rappresentano. In un decennio Confindustria è cambiata, ma nel senso opposto: le cinque maggiori imprese associate oggi sono monopoli, pubblici o privati: Ferrovie, Poste, Enel, Telecom, Eni. In Confindustria comandano, ma con quale credibilità rappresentano gli interessi delle mille piccole e medie imprese che tengono in piedi questo Paese? Con quale credibilità si può parlare di liberalizzazioni e privatizzazioni, dalla distribuzione di gas ed energia elettrica, alle farmacie, alle professioni? La vicenda dell'articolo 8 della recente manovra finanziaria è sintomatico. La proposta originale del ministro Sacconi prevedeva che imprenditori e lavoratori potesserofirmare accordi aziendali senza sottostare ai vincoli imposti dai contratti nazionali. La norma approvata consente ancora la deroga ai contratti nazionali, ma richiede che l'accordo fra lavoratori e impresa sia negoziato e approvato da un sindacato nazionale. Si dice per proteggere i lavoratori delle piccole imprese. Io penso che sia piuttosto per garantire la sopravvivenza dei sindacati nazionali. E da che parte è stata Confindustria? Da quella dei sindacati, evidentemente. Non credo perché improvvisamente abbia a cuore i lavoratori delle piccole aziende, ma perché un'associazione degli industriali si giustifica solo se vi sono dei sindacati nazionali altrettanto potenti».
Monday, October 03, 2011
Marchionne smaschera Confindustria
Con la lettera di oggi, in cui annuncia l'uscita della Fiat da Confindustria, Marchionne di fatto cestina il manifesto presentato venerdì scorso dalla Marcegaglia, che pur contenendo tante proposte condivisibili, rischia soltanto di fungere da cavallo di troia per la patrimoniale.
A prescindere dal giudizio che si può avere della Fiat del passato come azienda assistita, oggi bisogna guardare a Marchionne come ad un vero innovatore, che mostra di non temere il conflitto anche radicale con le forze della conservazione, mentre gli industriali italiani e la loro associazione tendono storicamente ad evitarlo accontentandosi dei dividendi della "pax corporativa". Le sue potrebbero essere le parole e le considerazioni di un qualsiasi manager di una qualsiasi multinazionale straniera che vorrebbe investire in Italia ma teme che il suo investimento non sia economicamente sostenibile. Ecco perché dovremmo dargli ascolto. Non solo per mantenere in Italia gli investimenti Fiat, ma perché quella via potrebbe portarne molti altri.
E agli occhi dell'ad di Fiat Confindustria non fa gli interessi della sua azienda nel momento in cui da una parte elabora manifesti politici (anche in molta parte condivisibili), ma dall'altra si prepara a sabotare nei fatti, con l'accordo del 21 settembre, l'accordo interconfederale del 28 giugno scorso e le norme contenute nell'articolo 8 - quelle sì tra le poche della manovra finanziaria di agosto davvero in linea con quanto richiesto dalla Bce - che prevedono «importanti strumenti di flessibilità» e sanciscono la validità delle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Norme che di conseguenza permetterebbero «a tutte le imprese italiane di affrontare la competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti». Insomma, Confindustria predica bene ma razzola male, mostrandosi in questo non diversa dalle altre forze politiche e sociali del nostro Paese, al dunque più interessata a mantenere le proprie quote di potere corporativo, senza quindi scegliere fino in fondo le logiche della contrattazione decentrata e un quadro di certezze nei rapporti sindacali.
Tre giorni dopo il manifesto riformatore di Emma, l'uscita della Fiat di Marchionne mostra il vero volto di Confindustria.
A prescindere dal giudizio che si può avere della Fiat del passato come azienda assistita, oggi bisogna guardare a Marchionne come ad un vero innovatore, che mostra di non temere il conflitto anche radicale con le forze della conservazione, mentre gli industriali italiani e la loro associazione tendono storicamente ad evitarlo accontentandosi dei dividendi della "pax corporativa". Le sue potrebbero essere le parole e le considerazioni di un qualsiasi manager di una qualsiasi multinazionale straniera che vorrebbe investire in Italia ma teme che il suo investimento non sia economicamente sostenibile. Ecco perché dovremmo dargli ascolto. Non solo per mantenere in Italia gli investimenti Fiat, ma perché quella via potrebbe portarne molti altri.
E agli occhi dell'ad di Fiat Confindustria non fa gli interessi della sua azienda nel momento in cui da una parte elabora manifesti politici (anche in molta parte condivisibili), ma dall'altra si prepara a sabotare nei fatti, con l'accordo del 21 settembre, l'accordo interconfederale del 28 giugno scorso e le norme contenute nell'articolo 8 - quelle sì tra le poche della manovra finanziaria di agosto davvero in linea con quanto richiesto dalla Bce - che prevedono «importanti strumenti di flessibilità» e sanciscono la validità delle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Norme che di conseguenza permetterebbero «a tutte le imprese italiane di affrontare la competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti». Insomma, Confindustria predica bene ma razzola male, mostrandosi in questo non diversa dalle altre forze politiche e sociali del nostro Paese, al dunque più interessata a mantenere le proprie quote di potere corporativo, senza quindi scegliere fino in fondo le logiche della contrattazione decentrata e un quadro di certezze nei rapporti sindacali.
Tre giorni dopo il manifesto riformatore di Emma, l'uscita della Fiat di Marchionne mostra il vero volto di Confindustria.
Friday, September 30, 2011
Cavallo di Troia per la patrimoniale?
Abbiamo dato la pagella a governo e opposizione sulla base della lettera di agosto della Bce, pubblicata ieri dal Corriere. Oggi proviamo a dare i voti al documento di Confindustria, che appare innanzitutto costruttivo nel metodo, dunque nessuna invasione di campo ma un contributo trasparente, limpido, seppur tardivo. Finalmente Confindustria si espone e dice chiaramente come la pensa, le misure che vorrebbe venissero varate dal governo. Nel merito è in larga parte condivisibile, diciamo all'80%. Bene i punti 1, 3, 4 e in parte 5. Mentre nel punto 2, quello sulla riforma fiscale, mi pare di aver capito che in sostanza si propone una tassa patrimoniale per pagare crediti d'imposta et similia. Ma vediamo le proposte nel dettaglio.
Alcuni dei dati riportati sono emblematici, soprattutto dovrebbero far riflettere chi si lamenta dei «tagli» e i cittadini che magari si convincono che si sta facendo «macelleria sociale». Dimostrano come la spesa pubblica sia aumentata esponenzialmente nell'ultimo decennio (2000-2010), ben oltre crescita del Pil e inflazione. In particolare, la spesa sanitaria è cresciuta «da 67,5 miliardi a 113,5 miliardi». Eppure non si ricordano terribili pestilenze. Possibile che dieci anni fa il sistema funzionasse in modo più o meno identico ma con il 40% delle risorse in meno? La spesa per acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione è salita «da 87,4 a 137 miliardi» (aumento del 56,8% in termini nominali e del 45,7% in termini reali). E sulle pensioni, fa letteralmente rabbrividire che stando agli ultimi dati disponibili, relativi al 2008, paghiamo ben 55 miliardi l'anno a persone con meno di 64 anni di età, e di questi ben 17 miliardi sono erogati a persone fra i 40 e i 59 anni!
Sotto la voce riforma delle pensioni, Confindustria propone di «eliminare rapidamente le pensioni di anzianità», «accelerare l'aumento dell'età di pensionamento di vecchiaia», «equiparare l'età di pensionamento delle donne a quella degli uomini anche nel settore privato», e «abrogare tutti i regimi speciali». Voto: 10.
Riguardo la riforma fiscale, chiede nuove deduzioni Irap, crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e innovazione delle imprese, decontribuzione dei premi produttività e l'«avvio della revisione dell'Irpef». Interventi che costerebbero 6 miliardi, calcola Confindustria, da finanziare interamente con una tassa patrimoniale ordinaria: un prelievo annuale sul patrimonio delle persone fisiche ad aliquota contenuta (1,5 per mille) e con una soglia di esenzione (1,5 milioni di euro). In pratica, la proposta Abete. Per combattere l'evasione fiscale le associazioni delle imprese propongono di abbassare a 500 euro il limite per l'utilizzo del contante e di ricorrere a misure di contrasto di interessi, cioè altre detrazioni, come quelle del 36% per gli interventi in edilizia e del 55% per l'efficienza energetica. Voto: 4.
Al punto 3) del documento Confindustria suggerisce privatizzazioni immobiliari e dei servizi pubblici locali. Voto: 10. Al punto 4) la liberalizzazione delle professioni e semplificazioni normative e amministrative. Voto: 10. Infine, il punto 5) è dedicato alle «grandi priorità infrastrutturali» e agli incentivi alle fonti di energia rinnovabili e alle tecnologie per l'efficienza energetica. Voto: 6.
La parte fiscale è quella meno convincente. Se reperire da una vera riforma delle pensioni le risorse per ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa è la cosa giusta da fare, del tutto superflua invece, anzi pericolosa, è una patrimoniale di 6 miliardi che finanziarebbe solo per 1/3 l'«avvio della revisione dell'Irpef» (costo previsto 2 miliardi) e per 2/3 nuovi sgravi Irpef e Irap. E' pur sempre vero che si tratterebbe di finanziare meno tasse su famiglie e imprese, ma sarebbe in realtà una mera redistribuzione del carico fiscale, non una sua riduzione netta. Trovo che anche quei 6 miliardi di nuovi sgravi dovrebbero venire da tagli alla spesa. Considerato l'elevatissimo livello generale di pressione fiscale, soprattutto dopo le ultime due manovre, non un euro in più dovrebbe arrivare da nuove entrate. Anche perché il rischio, con questo Stato rapace, è che una volta introdotta la patrimoniale alla prima occasione se ne faccia un altro uso.
Vista la resistenza tetragona dei sindacati, della Lega e degli altri partiti di opposizione sulle pensioni, e quella degli enti locali e delle corporazioni sulle liberalizzazioni, il punto del documento che rischia di conquistarsi l'attenzione della politica e dei commentatori nei prossimi giorni, anche perché l'unica novità di rilievo nelle posizioni di Confindustria, è l'apertura degli industriali alla tassa patrimoniale. Il ruolo politico che rischia quindi di giocare questo documento - al di là delle intenzioni dei promotori ovviamente - è quello di cavallo di Troia per la patrimoniale e basta. Nonostante ciò, al governo converrebbe comunque farsi forte sia della lettera della Bce, sia del documento di Confindustria, per riproporre riforma delle pensioni e liberalizzazioni. Può prendere atto dei due interventi con fastidio, oppure aggrapparsi ad essi per non lasciarsi sfuggire forse l'ultima occasione per cambiare il Paese.
Alcuni dei dati riportati sono emblematici, soprattutto dovrebbero far riflettere chi si lamenta dei «tagli» e i cittadini che magari si convincono che si sta facendo «macelleria sociale». Dimostrano come la spesa pubblica sia aumentata esponenzialmente nell'ultimo decennio (2000-2010), ben oltre crescita del Pil e inflazione. In particolare, la spesa sanitaria è cresciuta «da 67,5 miliardi a 113,5 miliardi». Eppure non si ricordano terribili pestilenze. Possibile che dieci anni fa il sistema funzionasse in modo più o meno identico ma con il 40% delle risorse in meno? La spesa per acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione è salita «da 87,4 a 137 miliardi» (aumento del 56,8% in termini nominali e del 45,7% in termini reali). E sulle pensioni, fa letteralmente rabbrividire che stando agli ultimi dati disponibili, relativi al 2008, paghiamo ben 55 miliardi l'anno a persone con meno di 64 anni di età, e di questi ben 17 miliardi sono erogati a persone fra i 40 e i 59 anni!
Sotto la voce riforma delle pensioni, Confindustria propone di «eliminare rapidamente le pensioni di anzianità», «accelerare l'aumento dell'età di pensionamento di vecchiaia», «equiparare l'età di pensionamento delle donne a quella degli uomini anche nel settore privato», e «abrogare tutti i regimi speciali». Voto: 10.
Riguardo la riforma fiscale, chiede nuove deduzioni Irap, crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e innovazione delle imprese, decontribuzione dei premi produttività e l'«avvio della revisione dell'Irpef». Interventi che costerebbero 6 miliardi, calcola Confindustria, da finanziare interamente con una tassa patrimoniale ordinaria: un prelievo annuale sul patrimonio delle persone fisiche ad aliquota contenuta (1,5 per mille) e con una soglia di esenzione (1,5 milioni di euro). In pratica, la proposta Abete. Per combattere l'evasione fiscale le associazioni delle imprese propongono di abbassare a 500 euro il limite per l'utilizzo del contante e di ricorrere a misure di contrasto di interessi, cioè altre detrazioni, come quelle del 36% per gli interventi in edilizia e del 55% per l'efficienza energetica. Voto: 4.
Al punto 3) del documento Confindustria suggerisce privatizzazioni immobiliari e dei servizi pubblici locali. Voto: 10. Al punto 4) la liberalizzazione delle professioni e semplificazioni normative e amministrative. Voto: 10. Infine, il punto 5) è dedicato alle «grandi priorità infrastrutturali» e agli incentivi alle fonti di energia rinnovabili e alle tecnologie per l'efficienza energetica. Voto: 6.
La parte fiscale è quella meno convincente. Se reperire da una vera riforma delle pensioni le risorse per ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa è la cosa giusta da fare, del tutto superflua invece, anzi pericolosa, è una patrimoniale di 6 miliardi che finanziarebbe solo per 1/3 l'«avvio della revisione dell'Irpef» (costo previsto 2 miliardi) e per 2/3 nuovi sgravi Irpef e Irap. E' pur sempre vero che si tratterebbe di finanziare meno tasse su famiglie e imprese, ma sarebbe in realtà una mera redistribuzione del carico fiscale, non una sua riduzione netta. Trovo che anche quei 6 miliardi di nuovi sgravi dovrebbero venire da tagli alla spesa. Considerato l'elevatissimo livello generale di pressione fiscale, soprattutto dopo le ultime due manovre, non un euro in più dovrebbe arrivare da nuove entrate. Anche perché il rischio, con questo Stato rapace, è che una volta introdotta la patrimoniale alla prima occasione se ne faccia un altro uso.
Vista la resistenza tetragona dei sindacati, della Lega e degli altri partiti di opposizione sulle pensioni, e quella degli enti locali e delle corporazioni sulle liberalizzazioni, il punto del documento che rischia di conquistarsi l'attenzione della politica e dei commentatori nei prossimi giorni, anche perché l'unica novità di rilievo nelle posizioni di Confindustria, è l'apertura degli industriali alla tassa patrimoniale. Il ruolo politico che rischia quindi di giocare questo documento - al di là delle intenzioni dei promotori ovviamente - è quello di cavallo di Troia per la patrimoniale e basta. Nonostante ciò, al governo converrebbe comunque farsi forte sia della lettera della Bce, sia del documento di Confindustria, per riproporre riforma delle pensioni e liberalizzazioni. Può prendere atto dei due interventi con fastidio, oppure aggrapparsi ad essi per non lasciarsi sfuggire forse l'ultima occasione per cambiare il Paese.
Friday, October 08, 2010
"Secondo te chi c'è dietro Fini?"
Si tratta di alcuni passaggi estratti dall'audio di una conversazione telefonica tra Nicola Porro e il portavoce della Marcegaglia, Rinaldo Arpisella, pubblicato sul sito del Fatto quotidiano. Non è la trascrizione integrale della telefonata (che dura più di 12 minuti), e nulla di penalmente rilevante ovviamente, un normale scambio di vedute, un po' dietrologico e cifrato, tra un giornalista e un portavoce, ma alcuni spunti mi sembravano curiosi. Lascio a voi trarre eventuali conclusioni.
Rinaldo Arpisella: "Sono incazzati con voi che se potessero impalarvi... Sono molto incazzati (a Mediaset? ndr), anche quello in alto (Berlusconi? ndr)".
Nicola Porro: "In effetti, siamo molto preoccupati".
NP: "Ma dimmi una cosa. E' una cosa intelligente far chiamare Feltri da Confalonieri? Tu non conosci Feltri..."
RA: "Sì, ma mettiti nei panni di un Confalonieri o di un Berlusconi".
NP: "Vedi i casini che gli sta facendo ora sulla questione di Fini, secondo te... quello lì... si diverte dieci volte di più..."
RA: "Ci sono sovrastrutture che ci pisciano in testa, che non ci considerano... Non hai capito una cosa. Se c'è un gioco di sponda, e credo che tu l'abbia capito, su tutta questa vicenda politica, 'il governo deve andare avanti', è chiaro che è un gioco di sponda concordato".
NP: "Lui è il padrone del suo giornale, finché non lo cacciano... cosa che non è esclusa... lo possono anche cacciare".
NP: "La questione è che vorrei che tu capissi una roba. Se, ti faccio un esempio, Riotta ha deciso di rompere con la Marcegalia, ti faccio un'ipotesi dell'assurdo, e di rompere, al contrario di quanto sta facendo Riotta, non perdendo 50 mila copie ma nel momento in cui ne ha guadagnate 60 (70? ndr) mila, in maniera tale da farsi liquidare e uscire...".
RA: "E' il suo disegno".
NP: "Eeeeh allora, Rinaldo, di che cazzo stiamo parlando...".
NP: "Ti stavo raccontando un ragionamento ampio, ti stavo dicendo che un certo piano con lui (Feltri, ndr) non serve, non perché gli editori non debbano svolgere il loro ruolo, ma perché lui sta in una fase diversa".
NP: "Devo dire che c'è un punto francamente di sottovalutazione di Confindustria nei nostri confronti che a me personalmente un po è seccato".
RA: "Ma, senti, se a un certo punto ci dicono tutti che siamo sdraiati su questo governo, ragiona, tu che cosa vai fare, vai a fare anche le interviste sul Giornale, dài, ragiona, mettiti nei nostri panni".
RA: "Tu non sai che cazzo c'è altro in giro. Secondo me, davvero scusami, ma ti parlo da amico, è un ottica corta. Allora il cerchio sovrastrutturale va oltre me, va oltre Feltri, va oltre Berlusconi, va oltre... ci sono logiche che non riguardano i Fini, i Casini, i Buttiglione, questo o quell'altro, sono altri..."
NP: "Non so cosa tu voglia dire... non capisco".
RA: "Secondo te, chi c'è dietro Fini?"
NP: "Tu lo sai? Io no".
RA: "Ci sono quelli che c'eran dietro la D'Addario, dài su...".
Rinaldo Arpisella: "Sono incazzati con voi che se potessero impalarvi... Sono molto incazzati (a Mediaset? ndr), anche quello in alto (Berlusconi? ndr)".
Nicola Porro: "In effetti, siamo molto preoccupati".
NP: "Ma dimmi una cosa. E' una cosa intelligente far chiamare Feltri da Confalonieri? Tu non conosci Feltri..."
RA: "Sì, ma mettiti nei panni di un Confalonieri o di un Berlusconi".
NP: "Vedi i casini che gli sta facendo ora sulla questione di Fini, secondo te... quello lì... si diverte dieci volte di più..."
RA: "Ci sono sovrastrutture che ci pisciano in testa, che non ci considerano... Non hai capito una cosa. Se c'è un gioco di sponda, e credo che tu l'abbia capito, su tutta questa vicenda politica, 'il governo deve andare avanti', è chiaro che è un gioco di sponda concordato".
NP: "Lui è il padrone del suo giornale, finché non lo cacciano... cosa che non è esclusa... lo possono anche cacciare".
NP: "La questione è che vorrei che tu capissi una roba. Se, ti faccio un esempio, Riotta ha deciso di rompere con la Marcegalia, ti faccio un'ipotesi dell'assurdo, e di rompere, al contrario di quanto sta facendo Riotta, non perdendo 50 mila copie ma nel momento in cui ne ha guadagnate 60 (70? ndr) mila, in maniera tale da farsi liquidare e uscire...".
RA: "E' il suo disegno".
NP: "Eeeeh allora, Rinaldo, di che cazzo stiamo parlando...".
NP: "Ti stavo raccontando un ragionamento ampio, ti stavo dicendo che un certo piano con lui (Feltri, ndr) non serve, non perché gli editori non debbano svolgere il loro ruolo, ma perché lui sta in una fase diversa".
NP: "Devo dire che c'è un punto francamente di sottovalutazione di Confindustria nei nostri confronti che a me personalmente un po è seccato".
RA: "Ma, senti, se a un certo punto ci dicono tutti che siamo sdraiati su questo governo, ragiona, tu che cosa vai fare, vai a fare anche le interviste sul Giornale, dài, ragiona, mettiti nei nostri panni".
RA: "Tu non sai che cazzo c'è altro in giro. Secondo me, davvero scusami, ma ti parlo da amico, è un ottica corta. Allora il cerchio sovrastrutturale va oltre me, va oltre Feltri, va oltre Berlusconi, va oltre... ci sono logiche che non riguardano i Fini, i Casini, i Buttiglione, questo o quell'altro, sono altri..."
NP: "Non so cosa tu voglia dire... non capisco".
RA: "Secondo te, chi c'è dietro Fini?"
NP: "Tu lo sai? Io no".
RA: "Ci sono quelli che c'eran dietro la D'Addario, dài su...".
Thursday, May 21, 2009
Tutti d'accordo ma non si muove una foglia
Faranno più notizia le accuse ai magistrati, meritatissime, visto che il caso Mills è l'ultimo e solo il più ridicolo dei processi politici contro Berlusconi (l'origine dei 600 mila dollari è stata da tempo accertata dal fisco britannico, come ricostruito tempo fa da Filippo Facci), e il vero o presunto attacco al Parlamento (anche se non si può negare che sia nelle dimensioni che nel suo funzionamento il nostro Parlamento sia «pletorico e dannoso»). Tra l'altro, non si capisce perché, pur essendo quasi unanimemente condivisa la necessità di ridurre il numero di parlamentari e rivedere il bicameralismo perfetto, quando lo dice Berlusconi non va più bene.
A Berlusconi si dovrebbe invece far notare che da Confindustria oggi è giunto un appello forte a fare prima possibile le riforme di cui l'Italia ha bisogno; e che ha una solida maggioranza in Parlamento - per quanto sia lento e «pletorico» - per farle.
«Presidente, il consenso che lei ha saputo conquistarsi è un patrimonio politico straordinario. Lo metta a frutto. Usi quel patrimonio per le riforme che sono necessarie. Lo faccia ora. Perché questa è l'ora di fare le riforme». Un appello condivisibilissimo quello della Marcegaglia, perché le riforme si fanno ad inizio legislatura, soprattutto se si gode di un ampio consenso. «Sono d'accordo su tutto quello che ha detto Emma - ha esordito Berlusconi intervenendo dopo di lei - Tutto l'intervento, perché fa una fotografia precisa della crisi e delle cose che dovremmo fare, tutte cose che vogliamo fare». Epperò, finora poco si è mosso e c'è nel governo (Tremonti e Sacconi su tutti) chi ripete che durante la crisi non bisogna toccare nulla, sennò alla gente viene l'ansia.
Ma anche altre parti della relazione della Marcegaglia sono condivisibili, come il passaggio in cui ha avvertito che «lo Stato dovrà poi rientrare nei suoi confini, lasciando all'impresa e al mercato il compito di guidare l'investimento, l'innovazione, la creazione di ricchezza. Sarebbe un tragico errore pensare che la crisi apra una nuova epoca, nella quale sia la politica, per riaffermare la propria supremazia, ad indicare le priorità nell'allocazione delle risorse, a condurre lo sviluppo, a scegliere le nuove tecnologie e i vincitori della competizione... Non devono vincere le forze che tendono sempre a statalizzare l'economia, il pendolo tra stato e mercato deve tornare a oscillare verso il mercato».
UPDATE: La risposta alla Marcegaglia arriva da Tremonti: c'è da aspettare... fa capire il ministro rivolgendosi alla Cisl:
A Berlusconi si dovrebbe invece far notare che da Confindustria oggi è giunto un appello forte a fare prima possibile le riforme di cui l'Italia ha bisogno; e che ha una solida maggioranza in Parlamento - per quanto sia lento e «pletorico» - per farle.
«Presidente, il consenso che lei ha saputo conquistarsi è un patrimonio politico straordinario. Lo metta a frutto. Usi quel patrimonio per le riforme che sono necessarie. Lo faccia ora. Perché questa è l'ora di fare le riforme». Un appello condivisibilissimo quello della Marcegaglia, perché le riforme si fanno ad inizio legislatura, soprattutto se si gode di un ampio consenso. «Sono d'accordo su tutto quello che ha detto Emma - ha esordito Berlusconi intervenendo dopo di lei - Tutto l'intervento, perché fa una fotografia precisa della crisi e delle cose che dovremmo fare, tutte cose che vogliamo fare». Epperò, finora poco si è mosso e c'è nel governo (Tremonti e Sacconi su tutti) chi ripete che durante la crisi non bisogna toccare nulla, sennò alla gente viene l'ansia.
Ma anche altre parti della relazione della Marcegaglia sono condivisibili, come il passaggio in cui ha avvertito che «lo Stato dovrà poi rientrare nei suoi confini, lasciando all'impresa e al mercato il compito di guidare l'investimento, l'innovazione, la creazione di ricchezza. Sarebbe un tragico errore pensare che la crisi apra una nuova epoca, nella quale sia la politica, per riaffermare la propria supremazia, ad indicare le priorità nell'allocazione delle risorse, a condurre lo sviluppo, a scegliere le nuove tecnologie e i vincitori della competizione... Non devono vincere le forze che tendono sempre a statalizzare l'economia, il pendolo tra stato e mercato deve tornare a oscillare verso il mercato».
UPDATE: La risposta alla Marcegaglia arriva da Tremonti: c'è da aspettare... fa capire il ministro rivolgendosi alla Cisl:
«C'è un tempo per gestire la crisi e c’è un tempo per fare le riforme. La gestione della crisi è una cosa, gestire le riforme è una cosa in più. Siamo convinti che si devono fare, ma è una cosa dura e complessa, devi fare un patto tra generazioni, devi dire ai giovani a che età vai in pensione. Le riforme le faremo nel tempo giusto e nel modo giusto, ma soprattutto con le persone giuste, noi le faremo e le faremo con voi [la Cisl]».Rispondiamo con le parole della Marcegaglia, sempre dal suo discorso di oggi:
«Senza le riforme, al passo corto che l'economia italiana ha mostrato negli ultimi dieci anni, il ritorno sui livelli produttivi pre-crisi non avverrebbe prima del 2013. Un arco di tempo troppo lungo per non avere conseguenze negative sulla vita dei lavoratori e delle imprese e sulla stessa coesione sociale».
Friday, May 23, 2008
E' "luna di miele", il momento di agire
Dopo i primi passi mossi dal governo Berlusconi, cui sono seguiti i promettenti annunci sul nucleare (qui dovranno valere i piani concreti) e il ponte sullo Stretto, si può parlare di vera e propria "luna di miele". I grandi giornali legati al mondo della borghesia e dell'impresa si sono manifestati con gli editoriali di Stefano Folli, per il Sole 24 Ore, e di Massimo Franco, per il Corriere della Sera; con il suo bel discorso di investitura (anche se ci ha infastidito il silenzio omertoso di tutti i maggiori organi d'informazione, stampa e tv, sull'incidente mortale avvenuto in una delle sue fabbriche) Emma Marcegaglia ha schierato Confindustria al fianco del governo, garantendo un atteggiamento non collusivo ma collaborativo per superare la «malattia dell'Italia, la crescita zero».
Una quasi "luna di miele" persino con le banche, che si sono rese disponibili all'idea della rinegoziazione dei mutui. Si può parlare di "luna di miele" anche con il Quirinale, con i ministri che lo informano e lo coinvolgono nelle scelte (vedi Maroni e Frattini) e il presidente Napolitano che ricambia emanando con celerità i decreti sicurezza e rifiuti. Ed è "luna di miele" addirittura con l'opposizione, pronta al dialogo su riforme istituzionali e legge elettorale, ma che mostra un approccio costruttivo anche su temi come la sicurezza, le tasse, i rifiuti, il federalismo fiscale.
A questo punto, Berlusconi deve saper cogliere il vento in poppa e gonfiare le vele del suo governo; sta a lui decidere se vuole passare per colui che gestì il declino, magari addolcendolo, come un Andreotti o un Fanfani, o se vuol essere ricordato come una Thatcher, cambiando il paradigma e i connotati socio-economici al Paese.
Dell'opposizione, del Partito democratico, parleremo più ampiamente in seguito, ma i nodi sono stati ben posti da Andrea Romano, su La Stampa, e si possono riassumere nella domanda: alleanze o contenuti?
Una quasi "luna di miele" persino con le banche, che si sono rese disponibili all'idea della rinegoziazione dei mutui. Si può parlare di "luna di miele" anche con il Quirinale, con i ministri che lo informano e lo coinvolgono nelle scelte (vedi Maroni e Frattini) e il presidente Napolitano che ricambia emanando con celerità i decreti sicurezza e rifiuti. Ed è "luna di miele" addirittura con l'opposizione, pronta al dialogo su riforme istituzionali e legge elettorale, ma che mostra un approccio costruttivo anche su temi come la sicurezza, le tasse, i rifiuti, il federalismo fiscale.
A questo punto, Berlusconi deve saper cogliere il vento in poppa e gonfiare le vele del suo governo; sta a lui decidere se vuole passare per colui che gestì il declino, magari addolcendolo, come un Andreotti o un Fanfani, o se vuol essere ricordato come una Thatcher, cambiando il paradigma e i connotati socio-economici al Paese.
Dell'opposizione, del Partito democratico, parleremo più ampiamente in seguito, ma i nodi sono stati ben posti da Andrea Romano, su La Stampa, e si possono riassumere nella domanda: alleanze o contenuti?
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