E' andata malino, ma non in modo disastroso, l'asta odierna dei nostri Btp triennali: i rendimenti sono saliti al 3,89%, rispetto al 2,76% dell'asta di marzo. Il viceministro Grilli ha spiegato che nonostante la domanda fosse buona il Tesoro non l'ha accolta tutta, perché si pretendevano tassi persino superiori, ritenuti però «non giusti». Piazza affari respira (+1,23%) e lo spread sui decennali si raffredda (361).
Nel suo bollettino mensile intanto la Bce spiega che sul debito sovrano di Italia e Spagna pesano i timori sulla crescita e l'occupazione e avverte che il «contesto radicalmente mutato» dei mercati finanziari mondiali impone ai Paesi dell'area euro di tagliare i debiti pubblici a livelli «decisamente inferiori al 60%» del Pil, il che per molti (Italia compresa, ovviamente) significherà «conseguire avanzi di bilancio primario pari o superiori al 4% del Pil».
Mi sa che Giarda e i tecnici dovranno abbandonare l'idea di preservare la «way of life» italiana della spesa pubblica. Ai «profeti» dei tagli alla spesa il sottosegretario aveva ironicamente chiesto indicazioni precise su dove tagliare, visto che lui sta facendo la spending review ma non vede nient'altro da tagliare. Ebbene, è stato più che accontentato.
Prima da Oscar Giannino, che indica sanità (20 miliardi in tre anni), massa salariale pubblica (35 miliardi in tre anni, senza buttare per strada nessuno) e trasferimenti alle imprese (25 miliardi). Totale: 80 miliardi, più di 5 punti di Pil in tre anni, e si mette a disposizione per una consulenza anche gratis. Poi da Bisin e De Nicola, che su la Repubblica suggeriscono di tagliare contributi alle imprese (14 miliardi), di vendere la Rai (3-4 miliardi) e asset pubblici (20 miliardi), e in più di risparmiare altri miliardi dall'accorpamento di scuole e tribunali, dall'attuazione dei costi standard nella sanità, dal taglio dei costi della politica e dallo sfoltimeno di organici pletorici. Il loro articolo ha il pregio di escludere, sia pure ironicamente, le riforme cosiddette liberiste, e di limitarsi a segnalare quei tagli alla spesa che «non cambiano l'impianto sociale del Paese», quindi senza rinunciare ai servizi garantiti (in qualche modo) dallo Stato tanto cari a Giarda e ai suoi compagni di governo. Infine, anche Michele Boldrin vuole togliere qualsiasi alibi a Giarda e a Monti: tagliare i costi della casta politico-burocratica (5-7 miliardi), gli stipendi pubblici riportandoli ai livelli del 1995 (0,8-0,9% del Pil); e i sussidi alle imprese (20 miliardi). Per un totale del 3% del Pil.
Insomma, grasso da tagliare ce n'è, cari Giarda e Monti, non avete scuse, men che mai quella dei pericolosi "liberisti" alle porte: quella che manca è la volontà politica.
Mentre il governo fa uno sforzo e ritira l'assurda tassa sugli sms (anche se al suo posto si profila un nuovo aumento sulla benzina) e tira fuori il numero degli esodati, per i quali ci sarebbe la benedetta «copertura finanziaria», Monti è costretto a riaprire, per l'ennesima volta, il capitolo riforma del lavoro. Ovviamente il premier è contrariato, irritato, ma se la deve far passare: è stato lui a dismettere il metodo di presentare ai partiti riforme prendere o lasciare. Oggi Alfano e la presidente uscente di Confindustria si sono incontrati per mettere a punto gli emendamenti al testo e Monti ha dovuto ricevere per un'oretta il segretario del Pdl. Ha ceduto alle richieste di Pd e Cgil sull'articolo 18? Alla fine dovrà cedere anche a quelle sulla flessibilità in entrata - tra l'altro sensate - dell'asse Pdl-Marcegaglia, che può ancora fare molto male all'immagine internazionale del governo e al cammino parlamentare della riforma e degli altri provvedimenti.
A Casini interessa poco il merito, lui è per il compromesso "a prescindere", mentre Bersani teme «manovre dilatorie». Il Pdl non cerca la crisi con Monti, ma il risultato politico. E sa che ci sono tutte le condizioni per ottenerlo, conseguendo un successo politico e parlamentare dal quale cominciare a riaccreditarsi agli occhi dei mercati e dei suoi elettori delusi.
RIFORME O NON RIFORME - Spaventati da un nuovo tsunami di antipolitica provocata dal terremoto in casa Lega i partiti sono corsi subito ai ripari, ma è la solita pezza: trasparenza sui bilanci, controlli, sanzioni. Ma ovviamente non tagliano il vero nodo: l'abolizione del finanziamento pubblico che si nasconde dietro i cosiddetti «rimborsi» elettorali. E inoltre si prendono tutto il tempo per far calmare le acque. Dichiarato inammissibile l'emendamento al dl fiscale (manifestamente estraneo alla materia), infatti, le misure sono affidate ad una normale pdl, a firma di ABC, che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe seguire un iter accelerato, venendo assegnata alle commissioni affari costituzionali in sede legislativa (cioè senza passaggio in aula). Ma solo in teoria, visto che ci vuole l'unanimità per procedere in questo senso.
Pronto invece il ddl sulle riforme costituzionali, che contiene però una serie di improbabili procedure che rischiano di aumentare la confusione sistemica. Il presidente del Consiglio potrà chiedere (solo chiedere) al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e chiedere (solo chiedere, per carità) lo scioglimento delle Camere, o di una Camera, quando queste gli neghino la fiducia, a meno che le Camere, entro 20 giorni, non approvino a maggioranza assoluta e in seduta comune una mozione di sfiducia costruttiva, in cui cioè si indica un nuovo premier. Verrebbe ridotto di un 20% il numero dei parlamentari - 508 deputati (da 630) e 254 senatori (da 315) - e introdotta la non meglio precisata nozione di «bicameralismo eventuale».
No comments:
Post a Comment