Al termine della solita chilometrica conferenza stampa più simile ad una lezione universitaria, il governo ha annunciato la capitolazione alle pressioni del Pd e della Cgil (evidentemente non contrastate da Pdl e Terzo polo): l'opzione del reintegro resta in tutti i casi di licenziamento individuale senza giusta causa, anche nei casi di motivo economico. Sarà il giudice a decidere. L'unica novità rispetto al passato è che viene introdotta l'opzione dell'indennizzo (da 12 a 24 mesi), tranne che nei casi di discriminazione. Inoltre - e vista l'irrisolutezza della norma finisce per essere un bene - il nuovo articolo 18 non sarà esteso alle imprese sotto i 15 dipendenti, quindi resterà il dualismo tra una normativa semplice (al di sotto dei 15) e una complicata e di incerta applicazione (al di sopra), tale da disincentivare, come sempre è stato, il superamento della fatidica soglia.
Non solo il filtro giudiziale non viene abolito, ma la discrezionalità del giudice - e quindi l'indeterminatezza dell'esito della controversia - se possibile risulta persino accresciuta. Per salvare la faccia, infatti, il governo fa ricorso ad un vero e proprio sofisma: nei licenziamenti individuali senza giusta causa per motivo economico il giudice potrà reintegrare se valuta la «manifesta insussistenza» del motivo. Che vuol dire? Se la giusta causa è solamente insussistente, allora si applica l'indennizzo; se è manifestamente insussistente, allora il giudice può optare per il reintegro. Ma la «manifesta insussistenza» non equivale ad una discriminazione (nel qual caso il giudice sarebbe tenuto al reintegro), bensì copre «un'area grigia», ha precisato il ministro Fornero, così ammettendo implicitamente la completa discrezionalità del giudice. In questo la differenza con la bozza del 23 marzo è sottilissima ma sostanziale. Nella prima si prevedeva che per chiedere il reintegro il lavoratore avrebbe dovuto dimostrare che dietro le inesistenti ragioni economiche addotte dal datore di lavoro si nascondeva un motivo disciplinare o una discriminazione; nella nuova formulazione è sufficiente che il giudice ritenga «manifesta» l'insussistenza della ragione economica, presumendo un altro motivo che non è nemmeno tenuto a specificare. E' come un'inversione dell'onere della prova, quindi è netta la vittoria di Bersani.
Se per la Fornero il nuovo articolo 18 toglie definitivamente alle imprese l'alibi per non investire, secondo Monti questo sistema sarà comunque «più prevedibile» del precedente. Eppure, di fatto la condanna al reintegro sarà sempre possibile: non dipenderà solo dalla percezione personale del giudice - se l'insussistenza della giusta causa la vede manifesta o meno - ma persino dall'umore con il quale si sarà svegliato quella mattina.
In attesa di capire quali concessioni ha ottenuto il Pdl sulla flessibilità in entrata tali da indurlo a cedere sull'articolo 18, e se le associazioni di categoria delle imprese intendono reagire ad una riforma che rischia di alzare costi e rigidità anziché abbassarli, registriamo che dopo il Financial Times anche il Wall Street Journal sembra voltare le spalle a Monti, paragonato solo pochi giorni prima niente meno che alla Thatcher. I due quotidiani finanziari, dopo la sbornia montiana, tornano ad avere uno sguardo più obiettivo sull'Italia.
E se la luna di miele di Monti con l'opinione pubblica interna, osserva il primo, è finita per via delle stangate fiscali, esacerbate dall'aumento dei prezzi dei carburanti e della bolletta energetica, e dal pasticcio dell'Imu – da cui scopriamo oggi che sono incredibilmente esentate le fondazioni bancarie, ennesimo schiaffo ai contribuenti – l'annacquamento della riforma del lavoro rischia di decretare la fine anche della luna di miele con l'opinione internazionale. Fino ad ora Monti ha goduto di un'apertura di credito basata soprattutto sul curriculum personale e la sobrietà, che nulla possono però di fronte ai dati nudi e crudi dell'economia italiana e degli effetti concreti, misurabili, delle sue politiche. L'unica riforma di un certo rilievo resta quella delle pensioni, per il resto solo tasse che hanno depresso l'economia, aggravando una recessione che rischia di compromettere gli impegni di risanamento. E ora questo flop sull'articolo 18, che rischia di smascherare il Bluff-Italia.
Secondo il Financial Times, tuttavia, dalla sua visita in Asia il premier avrebbe dedotto che gli investitori temono più l'instabilità politica che riforme non proprio incisive, e questo avrebbe convinto Monti a cedere al compromesso sull'articolo 18, piuttosto che rischiare di spaccare il Pd e perdere la sua maggioranza. Ma così facendo Monti finisce esattamente laddove solo pochi giorni fa si era detto indisponibile ad arrivare, e cioè ad anteporre il «tirare a campare», e in ultima analisi il disegno tutto politico di una "Grande Coalizione" anche dopo le elezioni del 2013, all'agenda riformatrice che il suo governo è stato incaricato di attuare. L'esito del vertice di ieri sera con il trio ABC sulla riforma del lavoro è solo un primo assaggio di cosa intendono concretamente i partiti italiani con "Grande Coalizione": non un'eccezione per condividere i costi di scelte impopolari ma responsabili, ma una palude in cui annacquare tutto senza farsi del male a vicenda.
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