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Friday, November 11, 2016

L'America di "Gran Torino" porta Trump alla Casa Bianca

Pubblicato su The Right Nation

A poche ore dalla vittoria di Donald Trump qualche considerazione possiamo annotarla sul nostro taccuino, in attesa di dati e analisi più precise. Dopo l'esito del referendum sulla Brexit, un'altra sberla ha fatto girare la testa alle elites occidentali, sempre più cieche e sorde, ai mainstream media "militonti" e ai sedicenti "esperti".

Trump ha vinto soprattutto perché non era Hillary, ma l'impresa non sarebbe riuscita a chiunque. Ci voleva qualcuno che rappresentasse una diversità irriducibile rispetto alla candidata democratica. Gli altri candidati Gop erano privi di carisma e troppo interni al "sistema". Da totale outsider ha pagato in termini di voti la sua palese impreparazione e la sua rozzezza, ma contro Hillary ha potuto giocare fino in fondo, senza scrupoli, la carta dell'anti-establishment, dell'anti-sistema. E forse, considerando l'impopolarità e gli scheletri nell'armadio dell'ex segretario di Stato era la carta più importante da giocare per arrivare alla Casa Bianca. Gli altri candidati Gop ci sarebbero andati forse vicini, ma avrebbero condotto una campagna più "di testa" che "di pancia", sarebbero rimasti nella "comfort zone" del loro partito, probabilmente scontrandosi con il problema della coperta troppo corta come Mitt Romney quattro anni prima.

E' stato un voto non solo contro Hillary, ma contro il sistema mediatico, che agli occhi degli americani ha ormai raggiunto un grado di credibilità prossimo allo zero. I 57 endorsement per la Clinton contro i 3 di Trump non hanno spostato un voto. Anzi, la faziosità senza precedenti con cui giornali e tv hanno sostenuto la Clinton e demonizzato Trump ha semmai avvantaggiato quest'ultimo, secondo lo schema per cui se al centro della storia metti l'"eroe" aggredito da tutti, anche se "cattivo", alla fine i lettori simpatizzeranno per lui. I media (figuriamoci quelli italiani, desiderosi di guadagnare punti agli occhi di una probabile amministrazione Clinton...) non si sono minimamente sforzati di capire il fenomeno Trump, ma solo di tifare in modo sfrenato per Hillary. Non dimenticheremo i dibattiti tv vinti 3-0... Bias, wishful thinking e state of denial sono stati gli ingredienti di una catastrofe senza precedenti dei media. Mesi a cercare di incastrare Trump con questa o quella gaffe (vera o pretestuosa), mentre il tycoon faceva arrivare efficacemente i suoi messaggi a un elettorato trasversale. Tutti a fare da comparse del suo reality...

Altri due elementi chiave della sua vittoria, che in pochi ci eravamo permessi di evocare quasi clandestinamente mesi fa. La riconquista della "Rust Belt", che non votava repubblicano dal 1984: in stati dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di "identità industriale" il suo appello alla working class bianca ha funzionato. Così come ha giocato un ruolo quella ribellione contro il politicamente corretto che aveva già caratterizzato il successo della Brexit.

Sfidando su ogni aspetto il complesso di superiorità antropologica della sinistra, Trump è riuscito a tenere insieme il blocco tradizionale delle roccaforti repubblicane del Sud e del Midwest. Ma allo stesso tempo è stato capace di andare oltre la "grande tenda" del Gop: non sarebbe bastato infatti strappare la Florida, già di per sé un'impresa. I suoi messaggi "eretici" rispetto alle tradizionali posizioni repubblicane su Wall Street, commercio internazionale, industria, posti di lavoro persi, gli hanno permesso di strappare ai democratici tutti i principali stati industriali (o quasi ex industriali): Ohio, Wisconsin, Pennsylvania e forse anche Michigan. Dunque, stati agricoli e stati industriali. A portare Trump alla Casa Bianca è stata insomma l'America del "fare", della (una volta grande) manifattura, di chi lavora (o lavorava) la terra (i "redneck") e nelle fabbriche (i "blue-collar"), la working class bianca del Paese, l'America lontana dalle metropoli glamour. L'America dei Walt Kowalski, il protagonista del fortunato film di Clint Eastwood che dopo una vita da operaio della Ford si è potuto permettere una Gran Torino del 1972, custodita gelosamente. Vedremo se un risveglio, o solo un colpo di coda della "vecchia America"...

Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth aveva ipotizzato l'esistenza di una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana a cui Trump non piace ma pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump". E la via americana al benessere non prevede il doversi mettere in fila per ricevere dallo Stato qualche benefit di una sempre più misera redistribuzione della ricchezza, che è invece la via europea, ma la liberazione degli "animal spirits" affinché tutti abbiano almeno una chance per costruirsi da sé il proprio benessere.

L'altro fattore è la ribellione contro il politicamente corretto. La democrazia americana ha dato un segnale di straordinaria vitalità: milioni di elettori, quelli definiti "deplorables" (miserabili) dalla Clinton, hanno resistito alla pressione della condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona degna, devi vergognarti") esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; la stampa americana e internazionale; Wall Street; gli opinion leader, il mondo accademico e lo star system; persino parte dell'establishment repubblicano. Al di là di qualsiasi giudizio di merito su Trump, una democrazia in salute, i cui elettori si sono mostrati in gran parte immuni al virus di quel "conformismo democratico" paventato da Alexis de Tocqueville.

Gli elettori non hanno dato peso alle sue gaffe, alcune vere altre preconfezionate dai suoi avversari. Anzi, proprio Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, ha rappresentato un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene" pensare, parlare o comportarsi (figuriamoci votare...). Il vendicatore di un elettorato bianco "nativo" (contrariamente alle aspettative anche femminile) per anni indicato come privilegiato e responsabile delle peggiori discriminazioni, passate e presenti, espulso dal discorso pubblico e da un'agenda politica ormai rivolta quasi esclusivamente all'integrazione di ogni genere di minoranza.

C'è una vera e propria ribellione nei confronti delle norme del politicamente corretto alla base del risentimento contro l'establishment che anima i sostenitori di Trump, ha scritto l'editorialista del New York Times Thomas B. Edsall. "L'avanzata del politicamente corretto è un grave rischio" per la civiltà occidentale, avverte lo storico Niall Ferguson, secondo cui l'"anti politicamente corretto" è il vero trait d'union tra l'insofferenza dei bianchi americani e la Brexit: "E' la reazione di una fetta importante della società - ha spiegato in una recente intervista al Foglio - che ha la sensazione che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D'altronde in cosa consiste all'ingrosso il progetto progressista se non nel fatto di rendere le nostre società un po' meno favorevoli all'uomo bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di combattere tale progetto".

Wednesday, November 09, 2016

L'America di "Gran Torino" porta Trump alla Casa Bianca

Pubblicato su Ofcs Report

Dopo la Brexit un'altra sberla a elites sorde, media militonti e sedicenti esperti

Nei mesi scorsi avevamo evidenziato gli elementi chiave di una possibile vittoria di Donald Trump: in stati dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di "identità industriale" (citavamo proprio Pennsylvania, Ohio e Michigan) il suo appello alla working class bianca ha funzionato. Così come ha giocato un ruolo quella ribellione contro il politicamente corretto che aveva già caratterizzato il successo della Brexit.

Trump è riuscito a tenere insieme il blocco tradizionale delle roccaforti repubblicane del Sud e del Midwest e a costruire la sua vittoria riuscendo nel miracolo di conquistare la Florida e strappare ai democratici tutti i principali stati industriali (o quasi ex industriali): Ohio, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Dunque, stati agricoli e stati industriali, della (una volta grande) manifattura. A portare Trump alla Casa Bianca è stata insomma l'America del "fare", di chi lavora (o lavorava) la terra e nelle fabbriche, la working class bianca del Paese, l'America lontana dalle metropoli glamour. L'America dei Walt Kowalski, il protagonista del fortunato film di Clint Eastwood che dopo una vita da operaio della Ford si è potuto permettere una Gran Torino del 1972, custodita gelosamente. Vedremo se un risveglio, o solo un colpo di coda della "vecchia America"...

Quella delle grandi fabbriche sarà anche un'America destinata a non tornare, spazzata via per sempre dalla globalizzazione e dall'innovazione tecnologica, e in questo senso Trump avrebbe illuso gli elettori promettendo di riportare negli Usa posti di lavoro "delocalizzati" in Messico o in Cina. Tuttavia, si è fatto per lo meno portavoce, al contrario dei suoi avversari e dei media, dello smarrimento di molti elettori che nel corso di pochi anni hanno visto gli stati in cui vivono perdere la propria identità socio-economica.

I mainstream media e gli espertoni hanno sottovalutato questo malcontento ritenendo indiscutibili i successi dell'amministrazione Obama in campo economico. Eppure, nella sconfitta di Hillary non c'è solo la sua impopolarità, ci sono anche questi falsi successi che un sistema mediatico troppo compiacente ha preferito non vedere come tali. Nonostante il segno più del Pil, e un tasso di disoccupazione meno della metà del nostro, la realtà è che la crescita americana è rimasta anemica, non in grado di produrre una ripresa percepita come tale e posti di lavoro di qualità. Obama è l'unico presidente americano che non ha mai centrato il 3% di crescita in almeno un anno di mandato. E nella Clinton gli elettori hanno intravisto le stesse politiche che hanno prodotto crescita lenta, redditi stagnanti e un altissimo debito pubblico. Proprio la situazione che ha esasperato il ceto medio e le classi operaie che si sono rivolte a Trump.

Ma non si tratta solo di una questione di perdita di posti di lavoro né di numeri. Molti di questi elettori non hanno nemmeno perso il lavoro, né subito un drastico impoverimento, ma vivono un profondo senso di insicurezza per il futuro loro e dei propri figli. Aree enormi e persino interi stati (proprio quelli industriali conquistati da Trump) hanno già perso o stanno perdendo la propria identità manufatturiera. Qualcosa di più profondo che un semplice tasso di disoccupazione. La fabbrica volatilizzata altrove lascia un vuoto di identità. Ed è un tema anche sul piano geostrategico quello della perdita dell'identità manufatturiera, non solo negli Stati Uniti: il saper fare, non solo progettare, beni che si sono poi affermati a livello globale come oggetti del desiderio, quasi di culto, ha contribuito all'affermarsi del ruolo egemone dell'Occidente. Cosa succede se abdichiamo alla nostra vocazione manufatturiera?

Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth aveva ipotizzato l'esistenza di una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana a cui Trump non piace ma pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump". E la via americana al benessere non prevede il doversi mettere in fila per ricevere dallo Stato qualche benefit di una sempre più misera redistribuzione della ricchezza, che è invece la via europea, ma la liberazione degli "animal spirits" affinché tutti abbiano almeno una chance per costruirsi il proprio benessere.

L'altro elemento chiave è stata la ribellione al politicamente corretto. Trump ha vinto da solo contro tutti, come il pistolero del West che da solo sgomina una dozzina di banditi. La democrazia americana ha dato un segnale di straordinaria vitalità laddove milioni di elettori, quelli definiti "deplorables" (miserabili) dalla Clinton, hanno resistito alla pressione della condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona decente, devi vergognarti") esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; la stampa americana e internazionale; Wall Street; gli opinion leader, il mondo accademico e lo star system; persino parte dell'establishment repubblicano. Quella americana è quindi una democrazia in salute, immune persino al rischio di quel "conformismo democratico" paventato da Alexis de Tocqueville.

Gli elettori non hanno dato peso alle sue gaffe, alcune vere altre preconfezionate dai suoi avversari. Anzi, proprio Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, ha rappresentato un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene" pensare, parlare o comportarsi. Il vendicatore di un elettorato bianco "nativo" (contrariamente alle aspettative anche femminile) per anni indicato come privilegiato e responsabile delle peggiori discriminazioni, passate e presenti, espulso dal discorso pubblico e da un'agenda politica ormai rivolta quasi esclusivamente all'integrazione di ogni genere di minoranza.

C'è una vera e propria ribellione nei confronti delle norme del politicamente corretto alla base del risentimento contro l'establishment che anima i sostenitori di Trump, ha scritto l'editorialista del New York Times Thomas B. Edsall. "L'avanzata del politicamente corretto è un grave rischio" per la civiltà occidentale, avverte lo storico Niall Ferguson, secondo cui l'"anti politicamente corretto" è il vero trait d'union tra l'insofferenza dei bianchi americani e la Brexit: "E' la reazione di una fetta importante della società - ha spiegato in una recente intervista al Foglio - che ha la sensazione che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D'altronde in cosa consiste all'ingrosso il progetto progressista se non nel fatto di rendere le nostre società un po' meno favorevoli all'uomo bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di combattere tale progetto".

A uscire con le ossa rotte dal voto di martedì non è solo Hillary Clinton. E' stato un voto contro il sistema mediatico, che agli occhi degli americani ha ormai raggiunto un grado di credibilità prossimo allo zero. La faziosità senza precedenti con cui giornali e tv hanno sostenuto la Clinton e demonizzato Trump non ha influenzato le scelte degli elettori. I media, anche italiani, hanno rinunciato a capire, abbandonandosi ad un tifo sfrenato per la Clinton. Non dimenticheremo i dibattiti tv vinti da Hillary 3-0... Bias, wishful thinking e state of denial, mesi a cercare di incastrarlo con questa o quella gaffe (vera o pretestuosa), mentre Trump faceva arrivare efficacemente i suoi messaggi all'elettorato.

Friday, August 05, 2016

Clint colpisce ancora nel segno, come il suo "American Sniper"

Pubblicato su L'Intraprendente

No, non è un endorsement per Trump quello di Clint Eastwood nell'intervista a Esquire. Ci tiene a chiarirlo bene l'attore-regista 86enne. Ma al tempo stesso è molto più che un endorsement. E' una vera e propria analisi politica: semplice, lucida, dritta al punto. Direi precisa e spietata come il tiro di un cecchino, del suo "American Sniper".

Si capisce che Trump non lo entusiasma. "Posso capire da dove viene, ma non sono sempre d'accordo con lui. Ha detto un sacco di stupidaggini", spiega Eastwood citando come esempio l'attacco al giudice messicano che si occupa di una causa contro la Trump University: "E' una cosa stupida da dire... basare la tua opinione sul fatto che il tipo è nato da genitori messicani o cose così". Ma il regista guarda con disincanto alla politica e osserva che "di stupidaggini siamo pieni. Da entrambe le parti. Eppure tutti - la stampa e tutti gli altri, continuano a dire: 'Oh, questo è razzista', e fanno un gran baccano. Fatevene una fottuta ragione. E' un periodo storico triste". E aggiunge: "Tutti sono annoiati, tutti. E' noioso ascoltare tutta questa merda. E' noioso ascoltare questi candidati. Ci sono troppe sciocchezze in entrambi gli schieramenti".

Eppure, anche se la scelta è "dura", sta con Trump. Perché Hillary "seguirà le orme di Obama" ed è troppo importante fermare in tempo la deriva liberal e l'"europeizzazione" dell'America. E perché Trump almeno una cosa l'ha capita, dice "quello che gli passa per la testa" e se ne frega della "generazione delle fighette e dei leccaculo". Clint Eastwood ha colto di questa elezione ciò che l'"inviato collettivo", intere divisioni di analisti e commentatori, non vuole vedere: che la motivazione principale dei sostenitori di Trump non sta tanto nell'essere d'accordo con tutte le cose che dice, e forse nemmeno con la maggior parte di esse. Sta nel fatto che dice "ciò gli passa per la testa", che sfida apertamente il politicamente corretto di cui "segretamente tutti si stanno stancando", che non fa parte di quella "generazione di fighette e leccaculo", anzi la attacca frontalmente, che sta mandando al macero non solo l'America ma anche l'intero Occidente.

Ed è proprio ciò che abbiamo provato a spiegare in un articolo di alcune settimane fa: alla base di due fenomeni politici di successo così distanti geograficamente come la Brexit nel Regno Unito e Trump negli Stati Uniti, c'è il medesimo atto di ribellione nei confronti del politicamente corretto sotto qualsiasi forma si manifesti. Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, rappresenta un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene" pensare, parlare o comportarsi, e quindi si immedesimano in lui. Non si tratta di condividere questa o quella sua proposta, o l'intero suo programma. E in politica non c'è legame più difficile da spezzare dell'immedesimazione, dell'empatia, tra un leader e i suoi elettori.

Il Re è sempre più nudo, ormai la stima dei cittadini nei loro governanti è a livelli minimi ovunque, in Europa come negli Usa. La disillusione di poter effettuare una scelta sulla base di programmi e competenze porta alla scelta per immedesimazione ("è uno di noi"). Non importa quanto impreparato (tanto non lo era nemmeno chi ci era stato presentato come tale), bensì che come noi dica quello che pensa e sia bannato per questo dai benpensanti. Siamo ad un concetto "basic", quasi animalesco della rappresentanza, in molti casi prevalente persino rispetto all'interesse personale, ma non per questo estraneo ad essa.

E attenzione, perché la rivolta non è solo contro l'establishment politico. E' anche contro la stampa e i media, che invece di fare informazione producono e gestiscono una "narrazione" degli eventi, definendo il campo e i termini entro cui si deve svolgere il dibattito pubblico, la presentabilità o meno di concetti e personaggi. Insomma, un numero sempre maggiore di elettori si ribella al politicamente corretto visto come strumento di censura e coercizione. Vuole riprendere il controllo sulla politica, ma prim'ancora sul discorso pubblico, non accettando più di farsi istruire su ciò che è "rispettabile" o meno dire e pensare.

Difficile dire quanto quella di Trump sia una strategia o sia puro intuito. Probabilmente non lo porterà alla Casa Bianca, ma è grazie a questo che è riuscito ad arrivare dov'è ora contro ogni pronostico. Difficile anche capire se questa ribellione al politicamente corretto sia di tale portata e intensità da resistere alla pressione della condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona decente, devi vergognarti") esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; i media; gli opinion leader; il mondo accademico e quello dell'intrattenimento; persino pezzi grossi del Gop. Finora l'ondata di rifiuto del politicamente corretto che Trump ha saputo cavalcare è stata sorprendente, ma potrebbe aver raggiunto il suo limite, il punto di saturazione. Ma chi può dirlo con certezza?

Thursday, January 22, 2015

Ecco cosa non vi è andato giù di American Sniper

Il modo in cui divide American Sniper è il segno del suo successo. Ancora una volta mission accomplished, Clint. Non sarà un film perfetto, un capolavoro dal punto di vista cinematografico, estetico, ma è un film riuscito. Non lascia indifferenti. Le reazioni prevalenti al film si dividono infatti tra quelle di chi lo liquida come una rozza propaganda militarista, e quelle di chi invece ha vissuto quelle due ore al cinema con estremo coinvolgimento, riconoscendo il dramma umano ma anche i valori in gioco. E, soprattutto, rispettando Chris Kyle e ciò che la sua storia rappresenta.

Un esempio perfetto per capire cosa intendo è il commento di Francesco Costa pubblicato proprio ieri sul Post. Sarebbe troppo rozzo per un raffinato intellettuale come Costa cadere nella trappola di accusare il film di «propaganda militarista». Quindi fa passare i motivi della sua contrarietà per pseudo-critiche cinematografiche: «Prendere la storia di Chris Kyle e raccontarla così è un torto alle storie in generale». Perché? Perché a suo avviso il film manca di complessità e sfumature.

Quella di Kyle è senza dubbio «la storia di un uomo con qualità militari formidabili e un carisma fuori dal comune», ma i tre anni passati in guerra a fare «cose dell'altro mondo» non l'hanno affatto distrutto. L'hanno messo a dura prova, l'hanno segnato, l'hanno messo in crisi e cambiato. Ma no, non distrutto, nemmeno nel senso che l'hanno portato ad essere ucciso.

Su una cosa Costa ha ragione: Kyle «non è un eroe-senza-macchia ma un essere umano». Ed è proprio questo che si vede nel film, anche grazie alla sorprendente interpretazione di Bradley Cooper. Ha drammaticamente torto, invece, quando sostiene che la sua è una di «quelle storie in cui non si capisce fino in fondo chi sono i buoni e chi sono i cattivi». E' esattamente il contrario: il film è riuscito proprio perché rispetta una storia in cui in fondo, nonostante tutto, si capisce in modo cristallino chi sono i buoni e chi i cattivi. Ed è questo che forse vi dà fastidio. E' pateticamente falso che il film manchi di complessità e sfumature: ci sono i traumi, i dubbi, anche la pura fifa di non poter rivedere la propria famiglia (altro che supereroe...). E c'è la drammaticità delle scelte, i «dilemmi morali». Solo che poi una scelta c'è, è quella giusta e Kyle non la rinnega. Nemmeno una volta tornato a casa con tutti i problemi del reduce. Che alla fine una scelta ci sia, e non venga rimessa in discussione, che si distinguano i buoni dai cattivi, non significa fare un torto alla complessità del reale.

Ovvio che il rientro è stato tremendamente difficile per Kyle e che le situazioni estreme in cui si è trovato l'hanno segnato. Nel film si vede e si capisce. Allora è una questione di quantità di pellicola: troppo ridotta la parte del film dedicata al rientro, ai problemi psicologici? Ma probabilmente Clint Eastwood ha voluto evitare che il racconto del ritorno a casa facesse cadere il film nel solito topos cinematografico, che piace tanto alla sinistra, del reduce che esce di testa, ce l'ha col suo Paese e diventa pacifista... Guardo in faccia la guerra > mamma mia che brutta > mai più guerre, sembra per alcuni l'unico schema accettabile. Volevate vedere sullo schermo ogni particolare delle sofferenze del rientro per potervi auto convincere che qualsiasi guerra non ne vale la pena? Se la vostra riflessione è stata "povero ragazzo, si è rovinato la vita a forza di maneggiare armi", è ovvio che avreste voluto vedere un altro film, un'altra storia.

Ma avevamo bisogno dell'ennesimo film sui drammi del reduce? Era questa l'essenza, la specificità della storia di Chris Kyle? Ovvio che la vita di Kyle è stata "anche" questo, ma in questo identica ai problemi di rientro che si trova ad affrontare qualunque reduce. Forse la sua eccezionalità sta invece in quello che è riuscito a fare laggiù, nelle sue «qualità militari formidabili» e nel «carisma fuori dal comune», nel sacrificio e nella sua idea di "missione" (proteggere), poi proseguita a casa. Forse a dare fastidio è che alla fine manca una condanna morale, anche implicita, della guerra in Iraq al pari di quella del Vietnam, e quindi che il film non sia un nuovo "Nato il 4 luglio".

Rispetto per tutti i reduci, qualsiasi siano le loro storie, le loro convinzioni al rientro. Ma quella di Chris Kyle è, appunto, un'altra storia, «un'altra America». Almeno questa lasciatecela, e voi tenetevi Obama...

Friday, August 31, 2012

Go ahead, make my day!

Cos'altro ci si poteva aspettare da Clint Eastwood - regista, attore, uomo di spettacolo - se non un mini-show sul filo dell'ironia? Così è stato il suo intervento (qui il video) alla convention repubblicana che ha incoronato Romney. Può aver fatto centro o meno sul pubblico, la sua performance può essere stata più o meno "appropriata" alla serata, ma l'ondata di critiche e malignità che sono piovute dai blog liberal e sui social network suonano pregiudiziali e pretestuose. Possibile sia così insopportabile l'idea che uno solo dei big di Hollywood abbia osato schierarsi apertamente per i Repubblicani? E addirittura contro Obama?

Nel merito, Clint non ha certo speso troppe parole per lodare Romney. Anzi, il cuore politico del suo messaggio mi è sembrato piuttosto elementare: «You, we own this country... And when somebody does not do the job, we got to let them go». Il Paese ci appartiene, i politici sono al nostro servizio e quando non fanno il loro lavoro, mandiamoli a casa. Tutto qui. Come dire: mi schiero con Romney per mandare via Obama.

Resta in ogni caso la toppa clamorosa di quanti avevano letto lo spot Chrysler interpretato da Eastwood nell'intervallo del Superbowl come un endorsement a Obama. Coraggio America, «siamo solo a metà partita». Lo ricordate? Già, peccato che per il vecchio Clint il secondo tempo dovrebbe giocarlo Romney al posto di Obama.

Tuesday, January 10, 2012

J. Edgar, una metafora della burocrazia

Da grande estimatore quale sono di Clint Eastwood non posso dire che J. Edgar sia un film riuscito. Troppe le sbavature e le forzature, persino le caricature direi. Non è certamente un film politico, né storico, su questo ma anche sul resto si può concordare con la puntuale e competente recensione di Pietro Salvatori. Tuttavia, una chiave di lettura "politica" in senso lato l'ho intravista, o forse voluta intravedere con le mie lenti ideologiche, e ve la sottopongo. Il personaggio di Hoover come una grande metafora delle burocrazie statali, sempre in lotta per giustificare, e accrescere, i loro poteri. Hoover s'identifica così visceralmente con la sua creatura, l'FBI, che durante tutto il film balza agli occhi, almeno ai miei, come le sue ossessioni, così esasperate, siano in fondo le stesse di qualsiasi burocrazia.

La tendenza ad autocelebrare i propri successi, a ingigantire i propri meriti ricorrendo persino alla menzogna e alla propaganda, allo stesso tempo esagerando l'entità delle sfide che si hanno di fronte, in questo caso le minacce alla sicurezza dei cittadini; e poi l'ossessione per il controllo, che sfiora il grottesco, il mito della propria infallibilità, la presunzione di agire per il bene della nazione e quindi di poter chiudere un occhio o anche entrambi sui mezzi di cui ci si avvale, spesso oltre i confini della legalità. Sono tutti tratti che non troviamo solo negli uomini, che così mascherano le proprie debolezze e inadeguatezze, ma sono comuni alle grandi burocrazie statali e al loro istinto di sopravvivenza. Le più spudorate esagerazioni con le quali Hoover cerca di glorificare se stesso e in questo modo rafforzare l'FBI sono le stesse con le quali le burocrazie statali, di tutti i tempi, cercano di giustificare di fronte all'opinione pubblica e alle autorità politiche la loro esistenza, anzi il loro essere indispensabili, insostituibili, e quindi di convincerle ad attribuire loro poteri sempre maggiori ed estesi. In una rincorsa alla perfezione, ad un massimo di efficienza ed efficacia dell'organizzazione, che sembra avere l'andamento di una curva. Raggiunto un punto fino al quale alla crescita di risorse, dimensioni e potere corrisponde anche un aumento di efficienza, quest'ultima comincia a declinare proprio a causa principalmente dell'eccessiva espansione e cominciano a manifestarsi effetti distorsivi, derive anche pericolose rispetto agli scopi originari dell'organizzazione.

E' questa la dinamica che per tutta la durata del film accomuna J. Edgar e la sua FBI. Le buone intenzioni, il patriottismo, la forza di carattere, il senso del dovere, tutte le intuizioni geniali non bastano a risparmiare a Hoover e all'FBI una eterogenesi dei fini. E persino nel tributo a Hoover per le incontestabili innovazioni nella lotta al crimine - la centralità delle impronte digitali, dell'analisi scientifica dei luoghi e dei reperti - s'insinua costantemente il dubbio sulla pretesa onnipotenza e perfezione del "sistema". La macchina statale imperfetta, fallibile, ossessionata, bugiarda, e autoindulgente come i suoi artefici. Anche in questa chiave "politica", come in tutti i film di Eastwood il fattore umano, i singoli individui, indagati senza pregiudizi nei punti di forza e soprattutto nei loro limiti e debolezze, si rivelano decisivi in qualunque avventura collettiva, che sia la guerra nel Pacifico o la storia dell'FBI, dunque attraverso di essa dell'intero '900 americano.

Come per i protagonisti di Million Dollar Baby e Gran Torino la forza d'animo, l'essere dei "duri", che Clint ha impersonato nella sua carriera di attore e continua a impersonare nell'immaginario collettivo, anche in J. Edgar non bastano ad avere ragione della durezza della vita. Peccato che questo film non riesca a coinvolgere lo spettatore come gli altri due. Se quella di Leonardo Di Caprio è un'interpretazione maiuscola, senz'altro da Oscar, in alcuni passaggi alla Marlon Brando, alcune pecche minano la riuscita del film. La narrazione è dall'inizio e per la prima metà del film troppo faticosa, in un certo senso "letteraria". Gli invecchiamenti sono tutt'altro che convincenti, addirittura ridicoli quelli di Armie Hammer e Naomi Watts (ad interpretare i loro personaggi invecchiati potevano essere chiamati attori semplicemente più anziani). Sfiora a tratti la caricatura la resa di fondamentali temi narrativi, come i rapporti di Hoover con la madre e con Clyde Tolson, così come il tema dell'omosessualità repressa, affrontato in modo troppo convenzionale, ma qui forse c'è da chiamare in causa lo sceneggiatore, Dustin Lance Back, lo stesso di Milk. E' se non altro apprezzabile che sul finale il film non scada nel sentimentalismo.