Pubblicato su Ofcs Report
Dopo la Brexit un'altra sberla a
elites sorde, media militonti e sedicenti esperti
Nei mesi scorsi avevamo evidenziato gli elementi chiave di una possibile vittoria di Donald Trump: in stati
dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di
"identità industriale" (citavamo proprio Pennsylvania,
Ohio e Michigan) il suo appello alla working class bianca ha
funzionato. Così come ha giocato un ruolo quella ribellione contro
il politicamente corretto che aveva già caratterizzato il successo
della Brexit.
Trump è riuscito a tenere insieme il
blocco tradizionale delle roccaforti repubblicane del Sud e del
Midwest e a costruire la sua vittoria riuscendo nel miracolo di
conquistare la Florida e strappare ai democratici tutti i principali
stati industriali (o quasi ex industriali): Ohio, Michigan, Wisconsin
e Pennsylvania. Dunque, stati agricoli e stati industriali, della
(una volta grande) manifattura. A portare Trump alla Casa Bianca è
stata insomma l'America del "fare", di chi lavora (o
lavorava) la terra e nelle fabbriche, la working class bianca del
Paese, l'America lontana dalle metropoli glamour. L'America dei Walt
Kowalski, il protagonista del fortunato film di Clint Eastwood che
dopo una vita da operaio della Ford si è potuto permettere una Gran
Torino del 1972, custodita gelosamente. Vedremo se un risveglio, o
solo un colpo di coda della "vecchia America"...
Quella delle grandi fabbriche sarà
anche un'America destinata a non tornare, spazzata via per sempre
dalla globalizzazione e dall'innovazione tecnologica, e in questo
senso Trump avrebbe illuso gli elettori promettendo di riportare
negli Usa posti di lavoro "delocalizzati" in Messico o in
Cina. Tuttavia, si è fatto per lo meno portavoce, al contrario dei
suoi avversari e dei media, dello smarrimento di molti elettori che
nel corso di pochi anni hanno visto gli stati in cui vivono perdere
la propria identità socio-economica.
I mainstream media e gli espertoni
hanno sottovalutato questo malcontento ritenendo indiscutibili i
successi dell'amministrazione Obama in campo economico. Eppure, nella
sconfitta di Hillary non c'è solo la sua impopolarità, ci sono
anche questi falsi successi che un sistema mediatico troppo
compiacente ha preferito non vedere come tali. Nonostante il segno
più del Pil, e un tasso di disoccupazione meno della metà del
nostro, la realtà è che la crescita americana è rimasta anemica,
non in grado di produrre una ripresa percepita come tale e posti di
lavoro di qualità. Obama è l'unico presidente americano che non ha
mai centrato il 3% di crescita in almeno un anno di mandato. E nella
Clinton gli elettori hanno intravisto le stesse politiche che hanno
prodotto crescita lenta, redditi stagnanti e un altissimo debito
pubblico. Proprio la situazione che ha esasperato il ceto medio e le
classi operaie che si sono rivolte a Trump.
Ma non si tratta solo di una questione
di perdita di posti di lavoro né di numeri. Molti di questi elettori
non hanno nemmeno perso il lavoro, né subito un drastico
impoverimento, ma vivono un profondo senso di insicurezza per il
futuro loro e dei propri figli. Aree enormi e persino interi stati
(proprio quelli industriali conquistati da Trump) hanno già perso o
stanno perdendo la propria identità manufatturiera. Qualcosa di più
profondo che un semplice tasso di disoccupazione. La fabbrica
volatilizzata altrove lascia un vuoto di identità. Ed è un tema
anche sul piano geostrategico quello della perdita dell'identità
manufatturiera, non solo negli Stati Uniti: il saper fare, non solo
progettare, beni che si sono poi affermati a livello globale come
oggetti del desiderio, quasi di culto, ha contribuito all'affermarsi
del ruolo egemone dell'Occidente. Cosa succede se abdichiamo alla
nostra vocazione manufatturiera?
Dalle colonne del Washington Post, lo
scrittore Jim Ruth aveva ipotizzato l'esistenza di una "nuova
maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media
americana a cui Trump non piace ma pronta a votarlo lo stesso, perché
"ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non
vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul
modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo,
un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American
way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro
o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è
anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia
Trump". E la via americana al benessere non prevede il doversi
mettere in fila per ricevere dallo Stato qualche benefit di una
sempre più misera redistribuzione della ricchezza, che è invece la
via europea, ma la liberazione degli "animal spirits"
affinché tutti abbiano almeno una chance per costruirsi il proprio
benessere.
L'altro elemento chiave è stata la
ribellione al politicamente corretto. Trump ha vinto da solo contro
tutti, come il pistolero del West che da solo sgomina una dozzina di
banditi. La democrazia americana ha dato un segnale di straordinaria
vitalità laddove milioni di elettori, quelli definiti "deplorables"
(miserabili) dalla Clinton, hanno resistito alla pressione della
condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli,
quindi se lo appoggi non sei una persona decente, devi vergognarti")
esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da
guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; la stampa
americana e internazionale; Wall Street; gli opinion leader, il mondo
accademico e lo star system; persino parte dell'establishment
repubblicano. Quella americana è quindi una democrazia in salute,
immune persino al rischio di quel "conformismo democratico"
paventato da Alexis de Tocqueville.
Gli elettori non hanno dato peso alle
sue gaffe, alcune vere altre preconfezionate dai suoi avversari.
Anzi, proprio Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e
per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi
avversari e dai media, ha rappresentato un riscatto per quanti non ne
possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene"
pensare, parlare o comportarsi. Il vendicatore di un elettorato
bianco "nativo" (contrariamente alle aspettative anche
femminile) per anni indicato come privilegiato e responsabile delle
peggiori discriminazioni, passate e presenti, espulso dal discorso
pubblico e da un'agenda politica ormai rivolta quasi esclusivamente
all'integrazione di ogni genere di minoranza.
C'è una vera e propria ribellione nei
confronti delle norme del politicamente corretto alla base del
risentimento contro l'establishment che anima i sostenitori di Trump,
ha scritto l'editorialista del New York Times Thomas B. Edsall.
"L'avanzata del politicamente corretto è un grave rischio"
per la civiltà occidentale, avverte lo storico Niall Ferguson,
secondo cui l'"anti politicamente corretto" è il vero
trait d'union tra l'insofferenza dei bianchi americani e la Brexit:
"E' la reazione di una fetta importante della società - ha
spiegato in una recente intervista al Foglio - che ha la sensazione
che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D'altronde
in cosa consiste all'ingrosso il progetto progressista se non nel
fatto di rendere le nostre società un po' meno favorevoli all'uomo
bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci
possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di
combattere tale progetto".
A uscire con le ossa rotte dal voto di
martedì non è solo Hillary Clinton. E' stato un voto contro il
sistema mediatico, che agli occhi degli americani ha ormai raggiunto
un grado di credibilità prossimo allo zero. La faziosità senza
precedenti con cui giornali e tv hanno sostenuto la Clinton e
demonizzato Trump non ha influenzato le scelte degli elettori. I
media, anche italiani, hanno rinunciato a capire, abbandonandosi ad
un tifo sfrenato per la Clinton. Non dimenticheremo i dibattiti tv
vinti da Hillary 3-0... Bias, wishful thinking e state of denial,
mesi a cercare di incastrarlo con questa o quella gaffe (vera o
pretestuosa), mentre Trump faceva arrivare efficacemente i suoi
messaggi all'elettorato.
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