Pubblicato su L'Intraprendente
L'esito delle elezioni presidenziali americane sembra mettere in discussione una granitica certezza della "narrazione" elettorale dei mainstream media: che la presidenza Obama sia stata una specie di età dell'oro e che la sconfitta di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca sia imputabile esclusivamente alla sua debolezza. Anzi, i "sore losers", i rosikoni della sinistra sono già all'opera, accusando della sconfitta, nell'ordine, il direttore dell'FBI Comey, Putin, WikiLeaks, l'ignoranza e il sessismo degli elettori e persino Lisa Simpson...
L'esito delle elezioni presidenziali americane sembra mettere in discussione una granitica certezza della "narrazione" elettorale dei mainstream media: che la presidenza Obama sia stata una specie di età dell'oro e che la sconfitta di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca sia imputabile esclusivamente alla sua debolezza. Anzi, i "sore losers", i rosikoni della sinistra sono già all'opera, accusando della sconfitta, nell'ordine, il direttore dell'FBI Comey, Putin, WikiLeaks, l'ignoranza e il sessismo degli elettori e persino Lisa Simpson...
I media hanno raccontato queste
elezioni come un referendum su Trump, enfatizzando le divisioni
all'interno del Gop sulla sua candidatura con l'intento di
danneggiarlo. E se invece l'8 novembre un referendum si fosse tenuto,
ma su Barack Obama? "L'arma segreta di Trump? Obama", ha
scritto Kimberly Strassel sul WSJ, un presidente che "ha imposto
una legislazione impopolare e governato attraverso ordini esecutivi e
una regolazione extralegale". Non lo ammetteranno mai giornali e
tv mainstream, non solo americani, che in questi otto anni hanno
riposto in cantina il loro spirito critico pur di celebrare la
presidenza Obama come una serie di successi indiscutibili, sia in
campo economico che in politica estera, ma alla vittoria di Trump
potrebbe aver contribuito il ripudio da parte degli elettori
dell'operato e delle politiche del presidente uscente.
Sollevare un simile interrogativo
equivale a una lesa maestà. Eppure, la sua eredità non era forse
"nelle urne", come lo stesso Obama aveva detto a settembre?
Alla luce dei risultati, la principale eredità di Obama sembra
essere il "tracollo del Partito democratico", ha scritto
Rich Lowry sul NYPost. Alcuni dati. Il suo partito è uscito
devastato dai suoi due mandati. Nel 2009, primo anno della presidenza
Obama, i Democratici controllavano entrambi i rami del Congresso (con
una quasi-supermaggioranza al Senato), e nel 2010 60 assemblee
legislative statali su 99. Ben 29 governatori (contro 22) erano
democratici. Già nel 2010 comincia a cambiare il vento: perdono il
controllo della Camera e nel 2014 del Senato. Oggi sono solo 15 i
governatori democratici (contro 34) e controllano 30 assemblee
legislative statali. Nel 2017 i repubblicani potrebbero raggiungere
il record di 34 stati sotto il loro controllo. Non succede dal 1922,
sotto la presidenza di Warren Harding il cui slogan, guarda caso, era
"America First". Tutta colpa di Hillary Clinton? O magari
c'entra qualcosa l'inquilino della Casa Bianca?
Dopo che i suoi eccessi legislativi
sono costati al partito le maggioranze al Congresso, Obama non ha
battuto ciglio, è andato avanti per la sua strada a colpi di ordini
esecutivi, soprattutto nella regolazione ambientale e l'immigrazione.
Anche i dati economici parlano di una crescita striminzita (l'unico
presidente Usa che non ha mai centrato il 3% di crescita in almeno un
anno di mandato), di posti di lavoro insufficienti, sia per quantità
che per qualità. E ancora, il fallimento dell'ObamaCare, dai costi
insostenibili, 20 trilioni di dollari di debito pubblico, caos in
Medio Oriente, la Russia di Putin che spadroneggia in Siria e ai
confini dell'Europa, il reset con Mosca fallito, il discorso del
Cairo, le "linee rosse" non mantenute, l'accordo sul
nucleare iraniano, il sostegno al movimento "Black Lives Matter
movement"...
Secondo lo storico Victor Davis Hanson,
il Partito democratico che lascia Obama non è né un partito
centrista né di coalizione, ma un partito "di sinistra radicale
ed elite progressista". Non solo Obama ha lasciato ai
democratici "detriti ideologici e politici", ma anche una
coalizione elettorale fondata sulla sua personale carta d'identità,
"non trasferibile" ad altri candidati. Non appena, infatti,
i Democratici hanno basato la campagna elettorale sull'"agenda
Obama" senza Obama come candidato, hanno fallito. Senza il suo
carisma, senza l'appeal del primo presidente di colore, le sue
posizioni di estrema sinistra sui temi sociali, la redistribuzione,
l'immigrazione, la spesa pubblica condannano alla sconfitta qualsiasi
candidato diverso da lui. Ed è ciò che è accaduto a Hillary, che a
causa della sua impopolarità non avrebbe potuto correre sulle
posizioni centriste che fecero la fortuna di suo marito Bill -
probabilmente non avrebbe nemmeno ottenuto la nomination, pur avendo
chance maggiori di arrivare alla Casa Bianca. Non ha potuto far altro
che offrire un "terzo mandato" di Obama, ovvero il
mantenimento dello status quo.
Al suo primo test su un altro
candidato, la "coalizione Obama" (minoranze, millennials,
ceti istruiti) si è sfaldata. La politica identitaria su cui Obama
ha costruito i suoi successi, che punta a mobilitare le minoranze
sulla base dell'identità di ciascuna di esse, si è dimostrata
inutilizzabile da altri candidati. Ed era forse prevedibile che gli
elettori delle minoranze che si erano mobilitati per Obama per il
colore della sua pelle non si sarebbero così facilmente mobilitati
per un'anziana donna bianca multimilionaria. Erano così convinti i
Democratici che le tendenze demografiche gli avrebbero comunque
garantito la vittoria, che hanno ignorato, se non allontanato o
addirittura "provocato" la working-class bianca, che quindi
si è rivolta altrove. Quanto più la Clinton giocava la carta della
politica identitaria, tanto più perdeva terreno e regalava elettori
a Trump. Il multiculturalismo non è più in cima all'agenda degli
americani.
No comments:
Post a Comment