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Monday, February 11, 2008

Una chance per il bipartitismo

«La classe politica è riuscita a rinviare di un anno il referendum sulla legge elettorale, ma sembra comportarsi come se il popolo italiano ne avesse approvato lo spirito». E Veltroni «farebbe bene a non schernire con espressioni irridenti ("maquillage") un evento di cui è lui stesso in parte responsabile». Parole di Sergio Romano, oggi sul Corriere della Sera.

Verso elezioni bipartitiche o quasi, dunque, e il vento delle entusiasmanti primarie Usa arriva fino a noi: irrompono nella campagna di Veltroni i tipici cartelli rettangolari e colorati alzati dai fan dei candidati Usa. I "berluscones", è facile prevedere, non vorranno essere da meno.

Pur rimanendo scettico, se non pessimista, riguardo la qualità generale dei nostri politici e i contenuti, ancora molto vaghi, bisogna riconoscere che è in atto una semplificazione, in ogni caso benefica, dell'offerta partitica: cinque, massimo sei liste-partito, di cui due oltre il 30%, una tra il 7 e il 10%, le altre probabilmente sotto il 5%.

E' innegabile che sia in corso un'evoluzione bipartitica del nostro sistema. Che sia irreversibile naturalmente non è per nulla scontato, anche perché qui da noi sembra che il meglio sia imprevedibile e il peggio prevedibilissimo.

Devo confessare che mai avrei pensato che ciò potesse accadere senza una legge elettorale uninominale. E invece devo ricredermi. Il processo in atto è reso possibile anche in assenza dei collegi uninominali per un paio di circostanze, una tecnica e l'altra politica. Quella tecnica è una legge elettorale proporzionale dagli effetti maggioritari grazie ai premi di maggioranza alla Camera e al Senato. Quella politica è il fallimento del prodismo (l'utopia cioè che i riformisti potessero vincere le elezioni e anche governare alleati con la sinistra comunista e massimalista), che ha reso una necessità non più rinviabile, per il Partito democratico, correre da solo. Una svolta, quella impressa da Veltroni, che si può definire coraggiosa, oltre che obbligata, solo perché in almeno un altro paio di occasioni i vertici di Ds e Margherita avevano perso il treno della storia, arrivando con oltre un decennio di ritardo laddove prima o poi era ovvio che dovessero trovarsi.

Un terzo elemento ora potrebbe accelerare, forse fino a renderla irreversibile, oppure interrompere, questa evoluzione bipartitica: il voto degli elettori. C'è da augurarsi che entrambi i partiti maggiori, PdL e Pd, ottengano dalle urne risultati solidi, legittimazioni forti. Quota 40% per il primo e quota 30% per il secondo ci sembrano i livelli di guardia al di sotto dei quali le due operazioni potrebbero dirsi bocciate dagli elettori.

Dietro il collegio uninominale rimangono una moralità, una filosofia politica, un'idea intrinsecamente liberale della rappresentanza e della governabilità. Dunque, non smetteremo di sostenere la necessità di una legge elettorale uninominale. Ma chiunque sia sinceramente a favore del bipartitismo non può non riconoscere quanto sia promettente lo scenario che si sta aprendo in questa campagna elettorale.

Ed è un peccato che proprio il partito che più di ogni altro si era battuto per il bipartitismo in Italia stia mancando questo appuntamento. Mai siamo stati così vicini alla sua realizzazione e i radicali - il partito di Pannella e Bonino - si trovano impreparati, senza un progetto per questo momento, rischiando di scomparire senza giocarsi la possibilità di fecondare in senso liberale uno dei due partiti in costruzione o persino entrambi: PdL o Pd, uno quale che fosse. Eppure era facile - forse per loro più di chiunque altro - prevedere e preparare per tempo questa crisi, facendosi trovare al posto giusto al momento giusto.

I radicali hanno commesso l'errore paradossale di legarsi a una delle due articolazioni del regime, e a quel particolare assetto del centrosinistra di cui Prodi era il garante, non comprendendo quanto proprio il superamento del prodismo fosse propedeutico a quella riforma liberale della sinistra che essi stessi da sempre auspicavano; e proprio nel momento dell'imminente disgregazione del prodismo. Eppure, non mancò all'interno del partito chi avvertisse per tempo il pericolo, proponendo fin da subito mani libere e una più spregiudicata azione politica, di sfida anche nei confronti della maggioranza di cui si faceva parte, per non rimanere sotto le macerie che inevitabilmente ne sarebbero rimaste.

Basta guardarsi intorno (Pd, "Cosa rossa", Di Pietro, Mastella) e più o meno brillantemente tutti sono riusciti ad evitare di rimanere sotto quelle macerie. Tranne chi? Radicali e socialisti dello Sdi.

Ricordo che due anni fa (ero nella Direzione di Radicali italiani) eravamo consapevoli che le elezioni dell'aprile 2006 avrebbero provocato lo sfaldamento delle due coalizioni, a cominciare da quella perdente. Il pareggio uscito dalle urne avrebbe poi ritardato i tempi, anticipando la fine dell'Unione, ma solo apparentemente, visto che pochi giorni dopo la caduta del Governo Prodi e lo scioglimento delle Camere, Berlusconi e Fini hanno messo in soffitta anche la CdL. E ricordo bene che già all'indomani del voto, Capezzone e altri con lui avevano previsto questa fase di decomposizione e ricomposizione, e volevano che i radicali si facessero trovare pronti ad incidere, semmai favorendola anziché contrastandola.

Quella prodiana doveva essere un'«alternanza» provvisoria, «per l'alternativa» vera da costruire, e invece i radicali hanno cominciato a schierarsi contro tutto ciò che minacciasse Prodi e il suo schema di alleanze (e le poche e poco influenti poltrone su cui si erano appena accomodati), mentre persino i vertici di Ds e Margherita ne comprendevano la fragilità e preparavano già il dopo, in una certa misura accelerandone i tempi.

Non hanno mai voluto affrontare e risolvere il problema del loro ruolo nella coalizione. E quasi per inerzia sono finiti nell'attuale vicolo cieco. Ora è chiaro: puntando sull'emergenza economica e sociale, con il loro bagaglio liberista, i radicali avrebbero dovuto porsi alla destra del Pd (pronti anche a farne parte sciogliendosi) e non in un territorio indefinito per divenire neanche il baluardo, ma le macchiette del laicismo.

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