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Tuesday, February 03, 2015

Mattarella, il paternalismo socialdemocristiano ci porta in Grecia

La vecchia logica del "nessun nemico a sinistra" a cui si è piegato Renzi (logica da 24%, non da 40) e l'insostenibile subalternità culturale del centrodestra

Cosa ci si poteva aspettare dal discorso alle Camere del nuovo presidente Sergio Mattarella? Esattamente ciò che ha pronunciato: il ricordo di Tachè, l'accenno ai marò (minimo sindacale, sarebbe stato gravissimo se li avesse dimenticati), l'enfasi sulla guerra al terrorismo (nessun applauso) sono stati gli unici passaggi non scontati. Per il resto, un discorso buono per tutte le stagioni, banalotto, tanto polveroso paternalismo dc e tanta retorica assistenzialista. Dal punto di vista economico-sociale, per le sue citazioni ha accuratamente selezionato gli articoli del cosiddetto "patto sociale" della Costituzione: più diritti e garanzie che libertà. Cattolicesimo sociale, direbbe qualcuno. Paternalismo dc, direi, anzi socialdemocristiano. Peccato che sia terribilmente out of time. Quella lunga lista di "diritti" e assistenzialismi è esattamente IL problema (LA follia) di questo Paese. Continuare a spacciare le pesanti droghe socialisteggianti e assistenzialiste - purtroppo sì, è vero, ancora scolpite nella nostra Costituzione - e per di più a un Parlamento che da sinistra a destra è un tossico di spesa pubblica, non è esattamente ciò che ci serve. Suona comodo e rassicurante, ma non è ciò che può farci uscire dalla crisi. Mattarella rappresenta la Grecia in noi che avanza...

E' stato un discorso di illusioni, non di speranze, di vecchie e pericolose illusioni scritte nella nostra Carta e nel Dna socialdemocristiano. Anche nella frase che probabilmente leggeremo domani sulle prime pagine dei giornali: «L'arbitro dev'essere e sarà imparziale... ma i giocatori lo aiutino con la loro correttezza». Non accadrà, all'occorrenza l'arbitro potrà anche segnare dei gol (è questo il senso del richiamo alla correttezza dei giocatori...): non per malafede, ma perché nel nostro sistema politico-istituzionale sono saltati regole e schemi. Completamente e irrimediabilmente. L'elezione diretta del presidente della Repubblica è urgente per dare alla carica la legittimazione popolare diretta richiesta dal ruolo che è ormai chiamato a svolgere in un sistema maggioritario.

Dal punto di vista strettamente politico si è trattato di un discorso "governativo": in nessun passaggio può essere suonato il campanello d'allarme di Renzi. Anzi, è arrivato un esplicito endorsement al percorso di riforme costituzionali (riforme che cambiano qualcosa - in peggio - per non cambiare, in realtà, nulla).

RENZI - Eppure, il premier non può dormire sonni tranquilli, come ho già scritto nel post precedente. Il problema è che Mattarella non è esattamente l'immagine di quel rinnovamento che Renzi aveva promesso in ogni ambito, suscitando grandi aspettative. Certo, magari non potrà fargli ombra come personalità, ma il suo grigiore finirà per ingrigire un bel po' anche lui, per intaccare nell'opinione pubblica la sua immagine di innovatore e "rottamatore".

Non credo affatto che Mattarella fosse la sua prima scelta. Quando si parla di capolavoro di Renzi bisogna intendersi. Ha scelto la via meno rischiosa per eleggere il nuovo capo dello Stato rapidamente, senza psicodrammi, intestandosi i meriti dell'operazione, così da poter al più presto archiviare la pratica e tornare a parlare di cose concrete. In questo una scelta molto saggia, e certamente vincente, perché ai cittadini (escludendo quel milione - per lo più di parassiti - che vive e parla di politica) del nuovo presidente frega assai poco. Ma la sua è stata una scelta né originale né coraggiosa: si può parlare di "capolavoro" solo perché Berlusconi e Alfano hanno di nuovo fatto la figura degli utili idioti? No, a mio modo di vedere è stata una vittoria tattica ma non strategica. Più uno scampato pericolo immediato. Di capolavoro si sarebbe potuto parlare se fosse riuscito a consolidare il suo potere portando al Quirinale un suo uomo (o donna): non nel senso di un suo servo, ma una figura in grado - per età, per esperienze politiche e per consapevolezza riformatrice - di rappresentare un'epoca di cambiamento, l'"era renziana", e anche un Pd diverso, meno ripiegato sulle sue due culture politiche fondatrici, ex comunista e sinistra dc.

Non è stata, insomma, una scelta da "partito della nazione", coerente con la strategia di un leader che ambisce a rivolgersi all'elettorato moderato, ex berlusconiano, per portare il Pd oltre la sua storica soglia di consenso. La scelta di ripartire dal Pd, di ricompattare innanzitutto il proprio partito è stata una scelta in parte dettata da realismo, suggerita dalla realtà dei numeri parlamentari, ma in parte anche dalla logica "nessun nemico a sinistra". Una logica vecchia e minoritaria, perdente, alla Bersani (e infatti Mattarella era anche tra i candidati di Bersani nel 2013). Una logica da Pd al 24%, non al 40. Attenzione, non sto dicendo che portando Mattarella al Colle Renzi si sia giocato tutto il consenso al di fuori del vecchio Pd che era riuscito ad aggregare: da qui alle prossime elezioni ci sono ancora molti mesi e molte scelte da compiere. Ma certo questa scelta in particolare, probabilmente per evitare guai peggiori, è stata dettata da una logica di vecchia appartenenza, da 24% e non da 40.

CENTRODESTRA - Per una volta non parliamo del complesso di superiorità, culturale e morale, della sinistra. L'elezione di Mattarella ha messo in chiara luce il patologico complesso di inferiorità del vecchio centrodestra: nessun esponente di FI o di Ncd ha osato criticare nel merito, oltre che nel metodo, la candidatura imposta da Renzi. Il problema è che Renzi non li avrebbe consultati, non avrebbe proposto una rosa di nomi, non che Mattarella rappresenta, come ha ben ricordato Piero Ostellino nell'editoriale di domenica, «quanto di più illiberale abbiano prodotto, da noi, la cultura politica egemone e il sistema politico». Né hanno saputo opporre una loro candidatura, tanto che il preferito di Berlusconi e dei suoi nelle ultime tre elezioni presidenziali è stato Giuliano Amato, un socialista della Prima Repubblica, presidente del Consiglio di centrosinistra nella Seconda, uno che ha messo le mani nelle tasche degli italiani appena ha potuto e accumulato ogni sorta delle prebende che ingrossano la nostra spesa pubblica.

E' il segno di qualcosa di più grave di una subalternità culturale, è una totale assenza di identità culturale. Gli esponenti di ciò che resta del principale partito del vecchio centrodestra letteralmente non sanno chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Uno smarrimento accentuato dal declino di Berlusconi, dal momento che non possono più aggrapparsi, come fino a qualche anno fa, alla sua lucidità (un pallido ricordo) e al suo orgoglio (ormai ferito). Il berlusconismo come surrogato di una cultura politica non basta più. E se per la mancata realizzazione della promessa "rivoluzione liberale" Berlusconi può invocare qualche alibi - dall'aggressione mediatico-giudiziaria all'opposizione di nemici interni ed esterni - il fatto che i vent'anni della sua leadership abbiano lasciato un tale deserto di cultura politica è un fallimento di cui porta per intero la responsabilità.

Thursday, October 03, 2013

Quei polli del Pdl finiranno tutti arrosto

Anche su Notapolitica e su L'Opinione

Ha vinto o perso ieri Berlusconi? E ha vinto Alfano? Intendiamoci, ormai Berlusconi non può più vincere. Sta per decadere da senatore, andrà ai servizi sociali o ai domiciliari e non tornerà più al governo. Forse sarà anche arrestato. Che aprendo la crisi avesse intenzione di salvarsi e scongiurare questi esiti è da escludere. E probabilmente aveva messo anche nel conto di non riuscire a far cadere Letta. Però, avendo contribuito alla nascita di un governo di pacificazione - e tutti ricordiamo la retorica di quei giorni nelle parole di Letta e nella commozione del presidente Napolitano - e ritrovandosi, invece, in un governo di "deberlusconizzazione" a tappe forzate, che sembra aver intenzionalmente vivacchiato per mesi (sia nelle scelte economiche che sulle riforme), in attesa della sua decadenza, persino anticipata, e della conseguente spaccatura del Pdl, Berlusconi non poteva non reagire in qualche modo. Avrebbe potuto anche rassegnarsi alla "deberlusconizzazione" del Parlamento, ma non a quella del suo partito.

Di errori ne ha commessi molti. Sentendosi forte, all'indomani del voto e dopo la figuraccia del Pd, ha accettato una lista di ministri che prefigurava già il piano di Letta e Alfano, una divisione tra "buoni" e "cattivi" del Pdl. Una squadra di ministri che coincideva guarda caso con i big presenti alla manifestazione "Italia popolare" al Teatro Olimpico, che già prima delle elezioni erano pronti ad abbandonarlo per Monti. E i quali, poi, devono aver pensato che fosse meglio entrare in Parlamento a bordo del "tram Berlusconi", che garantisce sempre buoni numeri, e rinviare l'operazione. Berlusconi avrebbe potuto giocare altre carte anche all'indomani della sentenza di condanna della Cassazione: sebbene comprensibile il suo stato d'animo, avrebbe potuto avviare con Napolitano una trattativa per ottenere non vie d'uscita che era del tutto irrealistico che potesse concedere (figuriamoci pretenderle dal Pd), ma un vero patto politico sulle riforme per il quale il presidente avrebbe potuto spendersi, e dal quale il Cav avrebbe potuto trarre una nuova legittimazione politica, nonostante la condanna e l'esclusione dal Parlamento. Non è detto che gli sarebbe stato concesso, ma certo un tentativo onorevole e più realistico.

Vedendosi nelle ultime settimane sempre più accerchiato e ferito, e avendo fiutato il doppio gioco dei suoi ministri, ha deciso di rompere l'assedio, di non accettare passivamente il ruolo di vittima sacrificale e almeno di fare chiarezza tra i suoi. E' vero che la "deberlusconizzazione" e la spaccatura del partito si sarebbero probabilmente verificate per inerzia, dopo la decadenza e l'esecuzione della sentenza Mediaset, e quindi era questa l'ultima finestra utile per tentare di salvare il salvabile, ma i fatti dimostrano che i tempi erano sbagliati. Nessuno era davvero pronto per una crisi del governo Letta, nemmeno Berlusconi. Figuriamoci il Paese, la stessa opinione pubblica di centrodestra, o i gruppi di "potere" e i partner internazionali. Probabilmente aspettando ancora qualche mese, osservando l'andamento dell'economia e facendo maturare la delusione per l'immobilismo e il minimalismo del governo, avrebbe fatto apparire meno "irresponsabile" la crisi, non legata alla sua decadenza (già avvenuta), e meno attraente la scissione governista di Alfano. Ma, appunto, forse questo tempo non c'era.

Ultimo errore: il sì al voto di fiducia una volta intrapresa così inequivocabilmente la via della crisi di governo. E' vero che Letta, Napolitano e il Pd speravano in un no, quindi nel sostegno incondizionato di un pezzo di Pdl finalmente deberlusconizzato e alfanizzato, e il Cav li ha spiazzati, almeno finché non si formeranno i gruppi scissionisti. E certo, a latte versato potrà sempre rivendicare l'ulteriore atto di "responsabilità" e l'estremo tentativo di tenere unito il Pdl. Ma il sì ha posto Berlusconi in un limbo di irrilevanza: non può far sentire il proprio peso dall'opposizione ed è chiaro a tutti che Letta ha ormai i numeri di Alfano per andare avanti, non ha più bisogno di quelli del "giaguaro". Ma soprattutto ha trasformato un possibile "25 luglio" in un "8 settembre", un "tutti a casa" nel suo partito, come osservato da Ferrara su Il Foglio. Ha perso l'ala governista, pronta comunque alla scissione (o a prendersi il partito), e il suo esercito anziché ridotto ma compatto è in rotta: quanti erano disposti a seguirlo si sono sentiti traditi, ora temono purghe interne (per ricucire Alfano ne chiederà l'esclusione da ruoli di rilievo) e comunque faranno fatica ad esporsi nuovamente. Ha quindi concesso ad Alfano una leva insperata, e forse decisiva, per prendersi il Pdl anziché andarsene da "traditore".

A proposito di Alfano. Svolta la funzione di "deberlusconizzare" la maggioranza diventa numericamente determinante per Letta, rischiando però di contare meno politicamente. Da una scelta come quella di dividersi da Berlusconi, o di marginalizzarlo nel suo partito, per sostenere un governo di coalizione (non più di "larghe intese") con il Pd non si può tornare indietro. Se lo si fa, si ammette di aver avuto torto e si sparisce. Dunque, da oggi per Alfano il governo Letta diventa l'unico orizzonte possibile e sarà molto difficile che riesca a porre con la necessaria forza delle priorità e condizioni programmatiche. Per esempio, nell'indifferenza generale ieri Saccomanni ha fatto sapere che la questione dell'aumento dell'Iva è chiusa. Cosa ha da dire Alfano? D'altronde, già in questi primi mesi i ministri del Pdl si sono comportati come se così fosse, facendo passare qualsiasi nefandezza fiscale, fino al pasticcio indecoroso che stava per essere varato per rinviare l'aumento dell'Iva. A conclusione dell'esperienza di governo, cosa sarebbe in grado di rivendicare come proprio specifico apporto agli occhi dell'elettorato di centrodestra? Ah, già, gli elettori, cerchiamo di non dimenticarceli, perché prima o poi si vota. E alla fine toccherà ad Alfano, sia che conquisti il Pdl sia che formalizzi la rottura, dimostrare le buone ragioni della propria scelta.

E' del tutto evidente che un futuro politico dopo Berlusconi esiste. E' legittimo, anzi auspicabile, che "falchi" e "colombe" si sforzino di darsi un futuro politico. Ma può esistere senza ciò che Berlusconi nel bene e nel male ha incarnato e rappresentato in questi vent'anni? Può esistere, senza un'idea fusionista di centrodestra, senza il bipolarismo, e sacrificando alcuni contenuti che nonostante le promesse non mantenute sono stati centrali (per esempio, tasse e giustizia)?

"Noi difenderemo sempre Berlusconi, ma il governo Letta è un'altra cosa", è un'ipocrisia o un'ingenuità (o entrambe). Significa restare al suo fianco sul piano personale, ma su quello politico accettare l'idea che la sua condanna ed esclusione della vita politica riguarda solo lui, che anche se è un'ingiustizia la vita continua, "the show must go on", quindi significa abbandonare la battaglia per una giustizia non politicizzata. Non può essere così se si vuole avere un futuro politico nel centrodestra dopo Berlusconi. Non si tratta di pretendere dal governo, dal Pd, o da Napolitano, di salvare Berlusconi. Ma bisogna avere la capacità, la volontà e la forza di porre la questione politicamente e non accontentarsi, come fa Cicchitto, di dire "saremo sempre garantisti e contro la magistratura politicizzata, ma scusate, ora serve stabilità e purtroppo sappiamo che il Pd la pensa diversamente", riducendola a mera testimonianza. Perché oggi ad essere sacrificato sull'altare della "stabilità" sarà il tema della giustizia, domani la questione fiscale, e dopodomani chissà, magari ci si sveglia ma sarà troppo tardi.

Dunque, a chi scrive sembra che da mesi nel Pdl, per garantirsi un futuro politico nel centrodestra, ci sia una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi, a portarla dalla propria parte e ad esibirla nella propria teca, per poter rivendicare il titolo di successore. Quello che nessuno pare aver capito è che davvero la leadership di Berlusconi non è qualcosa che passa di mano per eredità. Si conquista sul campo incarnando ciò che lui ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra. Al di fuori, sono tutti destinati all'irrilevanza. La nuova Dc a cui pensano gli alfaniani rappresenterebbe comunque solo una parte del popolo di centrodestra, non marginale ma minoritaria, sarebbe per la sinistra un avversario da battere agevolmente o, al massimo, da cooptare in un governo di coalizione qualora il Pd non veda alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, di governo ed europea, c'è tutto. In un partito può (forse deve) vigere la regola che l'ultima parola sul da farsi spetta al leader. Ma non può vigere la regola dell'ultimo che riesce a convincere l'anziano ed esausto leader, in un gioco interminabile di piroette.

Entrambe queste fazioni stanno più o meno inconsapevolmente lavorando ad una Terza (Prima?) Repubblica di cui il Pd è destinato ad essere perno centrale. Grazie alla probabile correzione in senso proporzionalista della legge elettorale (premio di maggioranza meno generoso), e alla nuova "conventio ad excludendum" delle estreme (post-berlusconiani, ex An, Lega e Grillo), il Pd potrà avvantaggiarsi delle divisioni nel centrodestra e restare sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili").

Wednesday, February 06, 2013

E' già "Unione" tra Monti e Bersani e già litigano tutti

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Doveva essere l'inizio della Terza Repubblica, ma stiamo assistendo all'eterno ritorno delle due grandi anomalie che hanno contraddistinto la politica italiana fin dalla Prima. Una sinistra che, chiusa nel suo recinto ideologico, non riesce ad allargare i suoi consensi oltre la soglia di 1/3 dell'elettorato, nell'ipotesi migliore; e che per superare la storica diffidenza della maggioranza degli italiani, per essere credibile come forza di governo, sia agli occhi dei cittadini che delle cancellerie europee e dei mercati, ha bisogno della legittimazione di una forza centrista e di una figura "tecnica". A fronte di questo deficit di credibilità della sinistra, c'è sempre stato un pezzo più o meno consistente, a seconda delle fasi storiche, del mondo democristiano, "moderato" si direbbe oggi, che ha giocato il ruolo di "sdoganatore" e legittimatore della sinistra. Nella prima Repubblica guidando i giochi, nella seconda subendoli.

Fino alla caduta del muro il problema non si è posto, vigeva la "conventio ad excludendum" nei confronti del Pci, al governo solo negli enti locali. Ciò non di meno non sono mancate esperienze di governo di centrosinistra – dai primi anni '60 con la partecipazione attiva del Partito socialista di Nenni, fino al cosiddetto "compromesso storico", il tentativo di coinvolgimento del Pci. Nella II Repubblica fu il democristiano Romano Prodi a guidare i primi governi di centrosinistra con l'ex Pci principale azionista di maggioranza, ma dotato di una stampella centrista – prima il Ppi e la piccola formazione dell'ex premier tecnico Dini, poi la Margherita.

Il progetto del Pd, originariamente, doveva servire proprio a superare questa anomalia, la storica "non autosufficienza" della sinistra italiana. Eppure, siamo nel 2013, dopo l'inglorioso fallimento dell'ultimo governo Berlusconi, e torniamo al punto di partenza: Bersani – gli fa onore il suo realismo – è costretto ad aprire alla collaborazione con il centro montiano, consapevole che l'alleanza progressista, da sola, rischia di non avere i numeri per governare. E che anche nel caso li avesse, avrebbe comunque bisogno di spalle più larghe per superare la diffidenza interna e dei mercati.

E Monti – esattamente come Aldo Moro negli anni '60 e '70, quando però era ancora la Dc a distribuire le carte, e come Dini, Ciampi e Padoa Schioppa negli anni '90-2000, in una posizione, invece, di totale subalternità – si presta per il ruolo di legittimatore della sinistra. Con l'unica differenza che questa volta l'accordo non è pre-elettorale, ma post-elettorale. Il calo del Pd nei sondaggi e lo spostamento a sinistra della sua campagna per far fronte alla concorrenza di Grillo e Ingroia sul lato sinistro, hanno indotto Bersani all'apertura nei confronti di Monti, sia per rafforzare la sua personale credibilità internazionale, sia per non dare agli elettori l'immagine di un centrosinistra ancora chiuso nel suo recinto e, dunque, "unfit" a guidare il paese. Ai suoi elettori il segretario del Pd giustifica l'apertura al centro con la necessità di combattere, e ridurre all'opposizione, i nemici storici, «il berlusconismo, il leghismo e il populismo». Ma la realtà è ben diversa: si tratta di evitare alla sinistra un'altra vittoria mutilata.

Come ha risposto Mario Monti? Ha ricambiato: «Apprezzo ogni apertura e disponibilità da parte di Bersani». E siccome i sondaggi non sono gran ché, fa anche lui esercizio di realismo e si rimangia l'indisponibilità, precedentemente espressa, a far parte come ministro di un governo di centrosinistra. A chi gli prospetta questa ipotesi, il premier uscente si limita ad osservare che «sono temi prematuri», ma senza escluderla. Forse ad oggi «non esiste alcun accordo con il Pd», ma la propensione, quella sì, se la capolista alla Camera in Lombardia di "Scelta civica per Monti", Ilaria Borletti Buitoni, invita esplicitamente a votare Ambrosoli, il candidato del Pd alla Regione, facendo infuriare Albertini («così si cancella la proposta politica del presidente Monti»).

Se Bersani è interessato ad una collaborazione, allora «dovrà fare delle scelte all'interno del suo polo», ha detto Monti rivelando che quanto meno sono già iniziate le trattative. Ferma la replica di Bersani: «Il mio polo è il mio polo e nessuno lo tocchi. A partire da lì sono pronto a discutere». Che Monti e Casini pongano al segretario del Pd una pregiudiziale su Vendola è del tutto strumentale. L'alleanza progressista è inadatta a governare non perché ci sia Vendola, la cui forza rappresenta il 3-4%, e che tra l'altro è il governatore di una regione importante come la Puglia, che non sembra in mano ai soviet. E' la corrente maggioritaria del Pd, succube della Cgil e delle sue ricette economiche vecchie di mezzo secolo, a non offrire sufficienti garanzie.

Non sorprende che Vendola non l'abbia presa bene («spero che Bersani non si voglia assumere la responsabilità di rompere l'alleanza del centrosinistra»), ma il patto tra "progressisti e moderati" dopo il voto sembra, se non cosa fatta, uno sbocco inevitabile per entrambi. E lo stesso Vendola ha firmato una carta degli intenti in cui si dice che il centrosinistra dovrà «cercare un terreno di collaborazione con le forze del centro liberale» e dovrà impegnarsi «a promuovere un accordo di legislatura con queste forze».

Evidente il vantaggio che può trarre Berlusconi da questa situazione. L'errore strategico di Monti, infatti, è che invece di porsi come nuova offerta politica di centrodestra, chiaramente alternativa alla sinistra, contendendo quindi al Cavaliere il suo elettorato deluso, ha inteso sfidare il berlusconismo puntando su una collaborazione con la parte riformista del centrosinistra, che sarebbe il Pd, proprio in chiave antiberlusconiana. Ma così l'odore di una "Unione 2.0" si fa sempre più persistente, con tutto il suo carico di contraddizioni e litigiosità. Stavolta ancora prima del voto, centristi e sinistra cominciano a litigare tra di loro e al loro interno, mentre Berlusconi può già rappresentare l'unica alternativa al governo dei "tassatori" Bersani-Monti.

Sembra uno di quei film in cui il protagonista è condannato a rivivere per sempre la stessa giornata.

Monday, December 31, 2012

2013: Bentornati nella Prima Repubblica

«Sconforto e solitudine». Questi i sentimenti espressi da Luca Ricolfi in un commento apparso oggi su La Stampa (on line sul sito della Camera, non del quotidiano). Il suo giudizio sull'offerta politica messa in piedi da Mario Monti lo troverete straordinariamente in sintonia con quello che avete letto nei giorni scorsi su questo blog e su Notapolitica, ed è tutto condensato nel titolo: «Verso la prima Repubblica». Termini ricorrenti in entrambi i testi: «piccola Dc», «compromesso storico».

«Cadute tutte le ipotesi più coraggiose e innovative», osserva Ricolfi, la lista Monti «di liberaldemocratico ha quasi nulla e di vecchia politica ha molto, se non quasi tutto». Per chi avesse coltivato illusioni, «è stato un piccolo shock, una doccia fredda». Ci prepariamo ad assistere, dunque, «all'edizione aggiornata del compromesso storico fra comunisti e democristiani». Probabilmente le elezioni del 24 febbraio ci diranno chi tra Bersani e Monti sarà presidente del Consiglio, ma anche Ricolfi è convinto che (come abbiamo ripetuto più volte nelle ultime settimane su questo blog) non sfuggiremo ad un governo di centro-sinistra, frutto di un'alleanza post-elettorale tra il centro "montiano" e il Pd di Bersani (più Vendola, almeno inizialmente). E d'altra parte, a leggere le loro agende, «contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe farci credere, le distanze fra Bersani e Monti sono minime».

Condividiamo quindi l'amara conclusione di Ricolfi:
«Oggi, chi avrebbe voluto cambiare decisamente rotta, lasciandosi alle spalle la vecchia classe politica, imboccando risolutamente la strada delle riforme liberali - meno spesa, meno tasse, meno Stato - è disperatamente solo. E, quel che più dispiace, è solo non perché siamo in pochi, ma perché siamo in tanti ma senza rappresentanza».
Come nella prima Repubblica, gli elettori torneranno a contare poco o nulla, «perché i giochi si faranno dopo, in Parlamento, come ai tempi di Craxi, Forlani e Andreotti». In breve, per chi non crede più in Berlusconi e non intende consegnarsi all'improbabile agenda Grillo, «la scelta è fra Pci e Dc. Anzi non c'è vera scelta, perché Bersani e Monti governeranno insieme».

Come ho già scritto nel post di venerdì scorso, Monti «ha scelto un'operazione neo-democristiana di rito moroteo, di "compromesso storico" con gli eredi del Pci. I quali non vedono l'ora di coronare il loro sogno, che era quello di sostituirsi ai socialisti e ai partiti laici della Prima Repubblica nella condivisione/spartizione del potere con la Dc. Oggi ne hanno finalmente l'occasione, addirittura potendo trattare da forza egemone con una piccola Dc».

Critiche all'agenda del professore, in particolare sul riferimento ad una nuova tassa patrimoniale, continuano ad arrivare anche dal duo Alesina/Giavazzi:
«La campagna elettorale sembra concentrarsi su quale sia il modo migliore per tassare gli italiani. Invece si dovrebbe discutere di come riformare lo Stato, in modo che esso non pesi per la metà del Pil. (...) l'agenda che Mario Monti propone agli italiani avrebbe dovuto indicare un obiettivo per la riduzione del rapporto fra spesa pubblica e Pil da attuarsi nell'arco della prossima legislatura».

Thursday, June 30, 2011

No, non ci siamo proprio

A poche ore dal varo della manovra in Consiglio dei ministri le anticipazioni e le voci che circolano sui giornali di oggi sono a dir poco deprimenti. Non solo rispetto alle nuove entrate i tagli strutturali previsti non sembrano assumere la forma necessaria di una vera e propria "aggressione" alla spesa pubblica e sono troppo diluiti nel tempo, non solo non s'intravedono all'orizzonte né una riduzione, sia pur minima, della pressione fiscale, né vere "frustate" liberalizzatrici, ma spuntano tasse e balzelli di ogni tipo che rivelano un approccio anti mercato col quale sarà difficile portarci oltre l'1% annuo di crescita. E senza crescita, è a rischio persino l'obiettivo minimo di questa manovra: il pareggio di bilancio nel 2014.

Al di là di alcune misure condivisibili, si prosegue con una logica da Prima Repubblica, cioè con una caccia grossa a coloro che hanno ancora qualche spicciolo da parte. Il saccheggio dei granai, insomma, mentre l'obiettivo dovrebbe essere quello di farli riempire i granai e di ampliare la platea di quanti producono ricchezza. Manca solo la rapina notte tempo sui conti corrente messa a segno da Amato nel '92, e poi siamo ad una manovra da Prima Repubblica. L'impressione che se ne ricava è che piuttosto che spendere meno, i politici se ne inventino una in più di Dracula per succhiare altro sangue. Una buona metà degli italiani si chiederanno a questo punto che cosa hanno votato a fare il centrodestra nel 2008. Di un centrodestra del genere l'Italia non ha bisogno, non ha alcun senso.

L'adeguamento dell'età di pensionamento delle donne a quella degli uomini, a 65 anni, è una barzelletta: avverrà in modo graduale a partire dal 2020 concludendosi nel 2030! Si rinuncia ad una misura impopolare ma strutturale, per una altrettanto impopolare ma certo non virtuosa: il superbollo sui Suv e le auto di grossa cilindrata (quale la prossima "riforma strutturale", l'aumento delle imposte sulle sigarette?). Attenzione: avrebbe un qualche senso far pagare ai fumatori le spese sanitarie che lo Stato dovrà sostenere per curare le loro malattie, e ha un qualche senso "punire" questa mania dei Suv giganteschi, che nel contesto urbano delle nostre città sono una follia. E la reintroduzione del ticket sanitario avrà l'effetto di responsabilizzare un minimo i cittadini nel ricorso ad esami specialistici e al pronto soccorso. Ma è la mentalità che rivelano queste misure ad essere preoccupante: raccontano di un governo che anziché concentrarsi unicamente nel tagliare la spesa, cerca spasmodicamente nuove entrate.

Ci sono poi misure che rivelano un istinto anti mercato e che rischiano di avere un impatto persino depressivo sull'economia. Tassare le transazioni finanziarie e accanirsi sulla gestione delle attività finanziarie da parte delle banche è una roba "comunista". Punto. Si punisce chi decide di investire i propri risparmi (da una fonte di reddito già tassata) nel finanziamento di attività produttive, pur sapendo della cronica difficoltà delle nostre imprese di ottenere credito dalle banche e finanziamenti in Borsa. Tra l'altro, come ricorda Nicola Porro su Il Giornale, «se una banca o una società devono pagare un euro in più di imposte, è molto probabile che facciano di tutto per traslarle sul proprio cliente. Il quale, a sua volta, se è in grado, le fa pagare al suo di cliente. La sintesi finale è la regressività dell'imposta».

E' positiva la conferma della riforma del Patto di stabilità per i Comuni, per cui chi rispetta gli obiettivi di bilancio e ha soldi in avanzo potrà spendere, a differenza di quanto avviene oggi, così come è rassicurante l'allentamento delle "ganasce fiscali", con il raddoppio dei termini oltre i quali scattano i pignoramenti (da 120 a 240 giorni). Il Foglio si accontenta della liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura degli esercizi commerciali (ma solo nei comuni di interesse turistico e nelle città d’arte), ed è certamente un'ottima misura «sviluppista», ma il segno generale della manovra è a dir poco conservativo dell'esistente. Il pressing su Tremonti sembra non aver prodotto un sussulto di riforme liberali, sia sulla spesa che sulle tasse, bensì una diluizione nel tempo e un ammorbidimento (soprattutto, sembra, su previdenza e costi della politica) dei tagli. Ciascuno è impegnato a salvare dalla sforbiciata il proprio portafoglio ministeriale, non a offrire al Paese un approccio nuovo alla riduzione della spesa pubblica. Manca un ripensamento generale dello Stato e delle sue funzioni, mentre siamo di fronte ad una manutenzione, sia pure "responsabile" ma semplicemente ragionieristica dell'esistente. E non è detto che basti. Il giudizio sulla manovra lo daranno Moody's e le altre agenzie di rating, ma potrebbe essere senza appello.

Dove tagliare? I conti che fa Oscar Giannino sono impietosi nella loro semplicità. Basta avere la volontà politica di tagliare. Basta guardare i numeri e chiunque può comprendere all'istante come difendendo la spesa pubblica i politici difendono in realtà se stessi, mentre fanno credere ai cittadini di difendere i servizi - scadenti - che ricevono dallo Stato.

Friday, November 05, 2010

Adesso non basta più

Adesso «non basta più» un patto di legislatura, «non basta più» prendere atto che esiste una nuova forza nel centrodestra. Anche se Menia e Moffa riconoscono che ciò che ha offerto ieri il Cav. «corrisponde a quanto avevamo chiesto da tempo», secondo Adolfo Urso invece «non basta più». Perché non basta più? Semplice: «La nostra presenza al governo - recrimina Urso a Omnibus, su La7 - è quella del ministro Andrea Ronchi, che è un ministro senza portafoglio su 24 componenti il Consiglio dei ministri, 13 con ministeri e 9 senza portafoglio più Berlusconi e Letta. Su 24, Fli oggi ha una presenza significativa di un ministro senza portafoglio [altri due sono sottosegretari, ma non siedono in Cdm, ndr]. Il che cosa significa? Che loro ci considerano esterni alla maggioranza, loro ci considerano... questo non è un comportamento che si può avere nei confronti di una forza e di un leader come Gianfranco Fini che tutti sanno essere di fatto il terzo soggetto della maggioranza, un leader storico e una forza storica ["storico" il leader, ma non la forza, ndr] del centrodestra». Insomma, riconosciuta da Berlusconi come terza forza del centrodestra, ora bisogna sostanziare questo riconoscimento con i posti al governo. E meno male che non era una corrente; meno male che non era un'operazione da Prima Repubblica.

Tuesday, October 19, 2010

Faccia di bronzo

Davvero una notevole faccia tosta quella di Fini. Anche noi siamo «delusi dalle promesse mancate di quella che nel 1994 appariva come una vera e propria rivoluzione liberale e modernizzatrice di cui purtroppo non si è visto fino a oggi alcuna traccia duratura». Ma è il colmo che a intestarsi il ruolo di portavoce di quella delusione sia addirittura Fini, che fino ad oggi si è distinto per un efficace contributo ad affossarla, ritardarla, annacquarla in ogni modo, quella "rivoluzione" promessa. Che si trattasse delle due-tre aliquote fiscali, della riforma della giustizia (in particolare, la separazione delle carriere), del lavoro e delle pensioni, o delle riforme istituzionali (vedi Bicamerale), o di federalismo, Fini era tra i molti, e a volte il principale, a mettersi di traverso. Sulla giustizia è ancora così, mentre gli altri temi di quella "rivoluzione liberale" berlusconiana sono stati nel tempo accantonati.

E' legittimo cambiare idea, ma le sue repentine e continue svolte e contro-svolte sono apparse puramente strumentali, al solo scopo di ergersi a controcanto di Berlusconi, di giocare da vera e propria spina nel fianco, ricostruendo la propria identità politica in opposizione al Cav. E a fronte di un legittimo percorso di "cambiamento", le manovre di Fini appaiono in tutto e per tutto immerse nelle logiche della Prima Repubblica, quando nella Dc le correnti minoritarie facevano di tutto per logorare il presidente del Consiglio di turno.

Sulla presunta volontà modernizzatrice di Fini una pietra tombale la getta, nella sua replica, Galli Della Loggia:
«Se per esempio il presidente della Camera avesse continuato a predicare la necessità del presidenzialismo con la forza e l'insistenza con cui l'ha fatto per tanto tempo, a nessuno oggi verrebbe in mente di collocarlo tra i custodi delle regole, dei tic e dei tabù della prima Repubblica. Ma non mi pare proprio che l'abbia fatto o che lo stia facendo. All'opposto, gli ammonimenti di inamidato buonismo e i precetti politicamente corretti che va dispensando regolarmente lo stanno rendendo degno del miglior Scalfaro d'annata».
E adesso Fini potrà appuntarsi al petto anche la "riabilitazione" che gli concede Adriano Celentano. Che il Corriere della Sera debba pubblicare una paginata intera dei deliri di Celentano dà la misura dei mala tempora qui currunt. Detto questo, se fossi in Fini mi preoccuperei di far parte del personale Pantheon del cantante in compagnia della Fiom, di Grillo, di Di Pietro e di Santoro. Celentano incorona Fini come il «Leader nuovo», «in grado di dialogare e mettere insieme, sulla via della LIBERTÀ e della DEMOCRAZIA, quello che di BUONO c'è, qua e là nei vari movimenti e partiti». E su «quello che di buono c'è» Celentano non ha dubbi: dalla protesta rispettosa (?) della Fiom alla «purezza» dei grillini, da Di Pietro a Santoro. D'altronde, «per essere nuovi - c'insegna il molleggiato - non c'è bisogno di cambiare la faccia, basta RISORGERE DENTRO». Risorto dentro: è questa l'immagine con cui Celentano eleva l'ex leader di An dalle fogne dei fascisti. Una riabilitazione un po' umiliante... Contento Fini...

Monday, August 30, 2010

Casini e D'Alema, solito pelo e soliti vizi

Illuminanti interviste di Casini, ieri al Corriere della Sera, e D'Alema, oggi a la Repubblica. Due che davvero non hanno alcun pudore a svelare i loro disegni politici, in cui la volontà degli elettori gioca spesso una parte piuttosto misera. Ha fatto bene Berlusconi a frenare sulle elezioni anticipate, perché «sarebbe stato la vittima designata», ma soprattutto perché Casini sa che «se si votasse domani mattina, questo partito avrebbe la necessità di candidarsi autonomamente; e allora tanti entusiasmi si appannerebbero». Già, l'avevamo percepito. Riguardo l'ipotesi di un ingresso dell'Udc nella maggioranza, Pier lamenta che «in questo governo l'unico che conta è Tremonti» e che il ministero dell'Economia «ha inglobato cinque o sei ministeri della Prima Repubblica, da ultimo le Attività produttive, ormai ridotte a un simulacro». Insomma, ci fossero 5-6 ministeri invece che uno, ci sarebbero più poltrone da spartire e pazienza se bisognerebbe dire addio a un minimo di coerenza nella politica economica.

In Casini non muore mai la speranza-illusione di veder sorgere una nuova Dc da lui guidata e sempre al governo, con la destra o con la sinistra («perché Fioroni e Pisanu devono stare in due partiti diversi?»). Pur aspettandoli entrambi nel "Partito della nazione", non rinuncia a una stoccata a Montezemolo («spero poi che dalla società civile qualcosa si muova. Ma non entro nel gossip dei nomi. Anche perché molti esponenti della società civile vorrebbero entrare in campo a partita finita, quando si gusta la vittoria») e a Fini («oggi vengono a galla le contraddizioni iniziali di un progetto politico in cui molti si sono fatti imbarcare senza crederci fino in fondo. Però sapevamo tutti com'è Berlusconi...»).

Ma D'Alema non finisce mai di sorprendere per la sua faccia tosta. Non solo vuole un ribaltone, per tornare a votare con una nuova legge elettorale concepita ad arte per non far vincere Berlusconi. C'è di più. La nuova legge, figlia di un ribaltone, dovrebbe però prevedere una norma anti-ribaltone, in modo che una volta al potere i "buoni" non cadano vittima a loro volta di un ribaltone. L'ex ministro degli Esteri non ha dubbi: ci vuole il sistema tedesco (che poi non si riduce certo a un proporzionale con sbarramento, ma questo nessuno lo fa mai notare), che «rompe la rigidità dello schema blocco contro blocco». Alle urne si andrebbe solo «con cinque, massimo sei partiti, con un centro forte che si allea con la sinistra, con la sfiducia costruttiva, con una buona stabilità dei governi, che volendo potremmo persino rafforzare con l'introduzione di una clausola anti-ribaltone». Insomma, senza il disturbo di premi di maggioranza o collegi uninominali, dopo il voto il Pd troverebbe sempre la "quadra" con sinistra e centro per andare al governo.

La bizzarra teoria di D'Alema è che nel Paese ci sarebbe «sicuramente una maggioranza larga» contro Berlusconi, ma è questa legge elettorale che impedirebbe di tradurre questa maggioranza elettorale «in proposta di governo e in una leadership forte». E' vero semmai il contrario, non c'è mai stata una «larga» maggioranza di italiani contro Berlusconi, ma alcune volte una assai striminzita (e ingovernabile), nel 1996 (quando SB perse solo perché la Lega non era alleata con il Polo) e nel 2006 (quando l'Unione raccolse solo 20mila voti in più alla Camera e ben 240mila in meno al Senato). Ma la paura suprema di D'Alema è che Berlusconi «col 38% dei consensi può farsi eleggere al Quirinale, e chiudere i giochi per sempre» (la sinistra perderebbe il controllo del Colle e della Consulta). "Solo" il 38%? Vorrebbe forse diventare D'Alema presidente con il 26% dei voti? E con quanti voti nel Paese sono diventati presidenti Napolitano e Ciampi, tanto per citare gli ultimi due?

Friday, August 27, 2010

La lunga estate calda che ha sconvolto il Colle

Altro intervento improvvido - sia pure indiretto, tramite Corriere della Sera - del presidente della Repubblica. Al Quirinale quest'estate deve aver fatto molto più caldo che nel resto della città. Napolitano avverte di essere intenzionato, in caso di crisi di governo, a verificare non solo se in Parlamento esista ancora la maggioranza, ma se esistano altre maggioranze - anche diverse da quella uscita dalle urne nel 2008, pare quindi di capire, sempre leggendo il Corriere. Nell'articolo si riferisce inoltre dell'insofferenza del Colle nei confronti del dibattito agostano sui suoi poteri di scioglimento, su costituzione formale e "materiale", attribuendo al capo dello Stato espressioni molto poco "istituzionali", come «improvvisati costituzionalisti», «florilegio di sciocchezze», interpretazioni «fantasmagoriche», all'indirizzo di quanti hanno sostenuto semplicemente la tesi di un ritorno immediato al voto in caso venga meno la maggioranza uscita dalle urne. Una posizione comunque non meno legittima delle altre, anche considerando che spesso è stata espressa da chi verrebbe comunque consultato al Quirinale in caso di crisi. Il presidente, fa sapere il Corriere, rifiuta il ruolo di semplice «notaio» e «passacarte», pronto a sciogliere «quando gli viene detto».

Va bene, ma a prescindere dal merito delle prerogative del capo dello Stato, e a prescindere da cosa sia legittimo e politicamente opportuno fare in caso di di crisi, anticipando le sue intenzioni Napolitano interferisce indebitamente nelle dinamiche politiche, rischia di destabilizzare il governo, perché contribuisce di fatto ad alimentare speculazioni, speranze e disegni politici coltivati nelle ultime settimane dai partiti di opposizione, svestendo i suoi panni di arbitro. Facendo intendere infatti che sarebbe disposto ad avallare certe soluzioni, nel momento in cui si creassero le condizioni, incoraggia di fatto chi lavora a queste soluzioni e al verificarsi di quelle condizioni. Si comporta in modo scorretto nei confronti di una istituzione, il governo in carica, gioca un ruolo politico che senz'altro non gli compete. Se non vuole essere, comprensibilmente dal suo punto di vista, il «passacarte» di chi vorrebbe tornare alle urne in caso di crisi, non deve però trasformarsi neanche nel «passacarte» de facto di chi cerca il "ribaltone". Ma è esattamente il gioco di questi ultimi che sta facendo con le sue uscite, prima a l'Unità e oggi al Corriere.

E a Cicchitto e Calderisi, autori di un intervento sulle pagine del Corriere per sostenere la tesi del voto anticipato per rispettare la sovranità popolare, Napolitano avrebbe inviato un testo «a suo giudizio illuminante», il «Bill Cameron-Clegg», su come anche «nel Paese della democrazia liberale per eccellenza» la sovranità popolare possa essere rispettata introducendo «variazioni in grado di disciplinarla». Si tratta di un accordo politico stipulato nel Regno Unito tra il leader conservatore e quello liberaldemocratico (trasformato in un disegno di legge ma non ancora approvato in via definitiva), per stabilire la durata della legislatura e le modalità per chiuderla in anticipo, ove ciò si rendesse inevitabile.

L'accordo fissa già al primo giovedì di maggio del 2015 la data delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento, garantendo così al Paese un impegno di stabilità. Se prima di quella data però il governo dovesse subire una mozione di sfiducia, ciò non porterebbe all'automatico scioglimento delle Camere. Ci sarebbero ancora 14 giorni di tempo per formare un'altra maggioranza e soltanto se fallisse quest'ultimo tentativo si andrebbe ad elezioni anticipate.

Non so da chi sia consigliato Napolitano, ma mi sembra un esempio davvero poco azzeccato. Va ricordato infatti che a differenza che in Italia nel 2008, dove dalle urne la coalizione formata da Pdl, Lega ed Mpa, con candidato premier Berlusconi, è uscita con una maggioranza assoluta, grazie ai premi, sia alla Camera che al Senato, quest'anno nel Regno Unito nessuno dei tre partiti dei candidati premier ha raggiunto la maggioranza assoluta. Ciò ha reso necessario un governo di coalizione tra il partito di maggioranza relativa, i Tories, e il terzo partito, i Lib-dem, e sarebbe comunque difficilmente immaginabile al suo posto un governo "degli sconfitti", che vedesse cioè entrare a Downing Street i Laburisti al posto dei Tories senza prima ripassare per le urne. E' esattamente questo, invece, ciò che si sta ipotizzando in Italia, un governo "tecnico" o "di transizione" che escluda Pdl e Lega e che, tra l'altro, riformi la legge elettorale. Se Cameron avesse ottenuto, come Berlusconi, la maggioranza assoluta, il problema non si sarebbe neanche posto e il potere di scioglimento sarebbe rimasto al premier.

Ripeto inoltre che la "costituzione materiale" non c'entra nulla. A prescindere dall'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico, se in caso di crisi Pdl e Lega sono per andare alle urne, si dovrebbe andare alle urne, sono la costituzione scritta e la prassi di oltre 60 anni di vita repubblicana, oltre che il banale rispetto della sovranità popolare, a suggerirlo. Il presidente non se la prenda, ma nella Prima Repubblica - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima - i suoi predecessori erano «notai» e «passacarte» della volontà dei partiti di maggioranza. In caso di crisi di governo, se la Dc e gli alleati volevano e ed erano in grado, si formava un altro governo, ma in caso contrario si andava ad elezioni anticipate. Nessun presidente ha mai pensato di poter proseguire la legislatura con un'altra maggioranza in Parlamento, composta da comunisti e alcuni democristiani fuoriusciti dal loro partito.

Non è mai accaduto che dopo una crisi i partiti di maggioranza si siano ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. L'unica eccezione è forse quella del governo Dini, per la quale infatti è stato coniato il termine "ribaltone". Ma persino in quella occasione si tentò quanto meno di salvare la forma, rispetto alle ipotesi che si sentono circolare in questi giorni: l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini). Insomma, è semplice: in caso di crisi, nuovi governi sono legittimi, ma non ribaltoni.

Monday, August 23, 2010

Alle comiche finiane

Inevitabile e doverosa la richiesta di chiarimento che il governo chiederà al Parlamento a settembre. Nulla di trascendentale e di rivoluzionario, i cinque punti ricalcano il programma votato dagli elettori e riprendono né più né meno la linea che il governo sta già portando avanti, tanto che i finiani hanno subito annunciato che voteranno la fiducia. Ma la novità non sta nel merito dei cinque punti, quanto piuttosto nell'atteggiamento di Berlusconi, che ha finalmente chiarito che non intende farsi «logorare» in trattative «al ribasso» su ogni singolo provvedimento del programma come quelle che hanno portato allo snaturamento del ddl intercettazioni. Un «prendere o lasciare» estraneo alla politica, da «mercato rionale», ha commentato il presidente della Camera Fini.

Se volete invece conoscere le intenzioni dei finiani, seguite Bocchino, che non le nasconde e conferma la linea del logoramento: sì alla fiducia sui cinque punti, ma poi nel merito si vedrà nelle commissioni. Fini e i suoi pensano di logorare Berlusconi come si faceva durante la "Prima Repubblica", quando il presidente del Consiglio in carica era costretto dalle correnti avversarie all'interno della Dc ad un gioco estenuante di mediazioni sull'azione di governo e sulle poltrone. Fino alla caduta, avanti il prossimo e nuovo giro di giostra. Oggi Bocchino se ne è uscito con un altra delle sue, ma davvero molto, molto emblematica.

Vuole salvare Berlusconi dalla «trappola» che starebbero tessendo Bossi e Tremonti, che spingerebbero per andare a elezioni anticipate «il primo per prendersi i voti di Berlusconi e il secondo per prendere il suo posto a Palazzo Chigi». Senza maggioranza al Senato, sarebbe Bossi a «chiedere un passo indietro al Cavaliere, che verrebbe pensionato da quello che ritiene l'alleato più fedele, aprendo così la strada a un governo Tremonti che sarebbe a propulsione leghista e otterrebbe il voto di una maggioranza larghissima» con l'obiettivo di «mandare a casa Berlusconi». Ma Bocchino offre al Cav. la via per salvarsi: allargare la maggioranza ai «partiti di Fini, Casini e Rutelli» e ai «moderati del Pd ormai delusi». Dai numeri, soprattutto a Palazzo Madama, e dalla ben nota contrarietà della Lega al rientro dei centristi, si dedurrebbe che Bocchino stia proponendo di sostituire la Lega con i quattro pezzetti che cita, ma poi precisa di proporre un semplice «allargamento» della maggioranza.

Si tratta di una provocazione indicativa del tipo di rendita di posizione che i finiani si illudono di ricavare con le loro mosse di questi ultimi mesi. Berlusconi costretto a trattare non solo con un alleato su due temi precisi e concreti, ma con minimo altri tre che hanno solo l'obiettivo di logorarlo e che ambiscono a guidare un centrodestra deberlusconizzato e deleghizzato. Insomma, come nella legislatura 2001-2006, solo un po' più vecchi e un po' più frustrati. Ma tra le righe si può anche leggere che il partito Fini lo farà (Bocchino scrive già di «partiti di Fini, Casini e Rutelli») e dedurre che questo delirio sia frutto anche del presidente della Camera, almeno a voler prendere sul serio Bocchino quando parla di «strategia degli uomini del presidente della Camera» che «vanno considerati un tutt'uno con il loro leader».

La verifica di settembre sarà un impegno non da poco per i finiani, che da una parte si trovano a dover esprimere, o a negare, la fiducia per il 95% al programma con il quale si sono presentati agli elettori; dall'altra alla continuità dell'azione di governo rispetto a temi (soprattutto giustizia, immigrazione e sicurezza) su cui in questi mesi hanno espresso apertamente le loro critiche; nonché per il restante 5% al cosiddetto "processo breve", di cui però hanno già approvato la versione uscita dal Senato, e apparirebbe quindi pretestuoso volerla rimettere in discussione alla Camera.

Se poi a settembre daranno vita ad un partito, cadranno anche gli ultimi dubbi sui reali obiettivi di Fini e dei suoi, cioè ricostituire quella rendita di posizione che An e Udc avevano nella Cdl prima dell'avvento del partito unico. E si aggraverebbe ulteriormente l'incompatibilità del ruolo politico che sta giocando Fini nella maggioranza e nei confronti del governo con la carica di presidente della Camera, ruolo che dovrebbe essere di garanzia. Come ha spiegato anche il ministro Brunetta a il Giornale, confessando il «disagio e dolore» che prova dal banco del governo quando Fini presiede le sedute a Montecitorio:
«Il fatto che Fini sia identificato ora come il capo di una nuova area, forse di un partito, non lo rende più garante tra maggioranza e opposizione, ma soprattutto non ne fa più il garante del governo. Da libero pensatore o da segretario politico può far quello che vuole. Ma un presidente della Camera non può essere uomo di parte... Quello che vorrei è che sentisse l'esigenza morale oltre che politica e istituzionale dell'incompatibilità. Non è pensabile che chi siede sul più alto scranno della Camera possa generare il dubbio di utilizzare quel suo ruolo a fini di lotta politica interna o addirittura a fini di logoramento della maggioranza che l'ha eletto. A quel punto, meglio andare al voto senza trucchi e senza inganni, assumendosi ognuno le proprie responsabilità».
E se il capo dello Stato avesse davvero avuto a cuore la stabilità del Paese e la tenuta della legislatura, e voluto scongiurare l'ipotesi delle elezioni - che certo non è Berlusconi a volere, sapendo che rappresentano comunque un rischio - avrebbe dovuto chiamare Fini a rispondere del suo uso politico della carica istituzionale che ricopre, fino ad imporgli le dimissioni. Detto questo, credo che sbaglino gli esponenti di centrodestra a insistere sulla cosiddetta "costituzione materiale". A suggerire il ritorno alle urne - in caso di crisi di governo e di indisponibilità di Pdl e Lega a formare nuovi esecutivi - è la costituzione scritta e la prassi di oltre 60 anni di vita repubblicana, a prescindere dall'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico.

Anche durante la Prima Repubblica, infatti - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima, e quando nell'arco di una stessa legislatura si susseguivano più governi - la volontà degli elettori è stata sempre rispettata, nel senso che mai dopo una crisi i partiti di maggioranza si sono ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. Mai un presidente della Repubblica ha permesso la nascita di un governo sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza che grazie alla fuoriuscita di alcuni deputati e senatori dai loro rispettivi gruppi potesse fare a meno dei partiti che avevano vinto le elezioni. L'unica eccezione è forse quella del governo Dini, per la quale infatti è stato coniato il termine "ribaltone". Ma persino in quella occasione si tentò quanto meno di salvare la forma, rispetto alle ipotesi che si sentono circolare in questi giorni: l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini).

UPDATE ore 19:44
Un sempre più ridicolo Bocchino costretto a ben due precisazioni nell'arco di poche ore. La prima per correggere il tiro: non di una sostituzione della Lega con i centristi si tratterebbe ma di un «democratico allargamento della maggioranza»; la seconda, da cui fa sparire il riferimento ai «moderati del Pd ormai delusi», resa necessaria dalla netta dissociazione di tre finiani (Moffa, Viespoli e Menia).

Wednesday, August 18, 2010

Cossiga e il lato oscuro del potere

Ciò che affascina, intriga, e allo stesso tempo inquieta, della figura umana e politica di Francesco Cossiga è la sua frequentazione con il lato oscuro del potere. E come ne sia uscito piuttosto malconcio, provato dai turbamenti dell'anima, ma tutto sommato a testa alta. Non solo in momenti delicatissimi per la sopravvivenza della Repubblica si è trovato ai vertici dei cosiddetti "ministeri della forza" - sottosegretario alla difesa con delega a sovrintendere "Gladio", di cui si definì «l'unico referente politico»; ministro dell'Interno nel culmine degli anni di piombo (rapimento Moro), che affrontò con estrema durezza - ma ha sempre creduto nella nobiltà anche di quell'aspetto disincantato della politica che il più delle volte implica la responsabilità del "lavoro sporco".

C'è un angolo buio, infatti, che sfugge, almeno per un primo momento, al controllo democratico dell'informazione e dell'opinione pubblica e che ha a che fare con la sicurezza più elementare di uno Stato, con tutte le misure da mettere in atto - anche segretamente - per assicurarne la sua stessa sopravvivenza. E' una inevitabile zona d'ombra - cui neanche la democrazia può sfuggire, se non vuole esporsi disarmata agli attacchi dei suoi nemici - dove è labile il confine tra la democrazia e il suo contrario, e dove il male e il bene si confondono. E chi opera in quelle zone incerte si ritrova solo con la propria coscienza; è il solo a sapere, o a illudersi di sapere, se sta esercitando i suoi poteri per o contro la democrazia e le sue istituzioni, mentre dall'esterno gli altri - per cultura o per convenienza - sospettano e spesso si convincono dei peggiori teoremi. Cossiga ha veleggiato per questi perigliosi flutti, toccato con mano il potere allo stato puro, con i suoi pesi e la sua tragicità, pagando per intero, innanzitutto nella propria intima coscienza, il prezzo di scelte drammatiche e impopolari.

Una tragicità che non può capire chi coltiva un'idea semplicistica, moralistica, infantile della democrazia, dalla quale è portato a considerare tali zone come luoghi in cui vengono necessariamente orditi complotti e trame inconfessabili. E' molto più rassicurante in effetti credere in un potere che tutto sa e controlla, dispone, per poterlo accusare di ogni nefandezza, piuttosto che fare i conti con una realtà molto più complessa, nella quale magari chi detiene per un certo periodo quel potere brancola nel buio, non riesce a calcolare tutte le variabili ed è esposto ad ogni tempesta, dovendo dare ai suoi cittadini l'impressione del contrario. Più rassicurante, da un certo punto di vista, credere che Cossiga e la Dc non abbiano voluto salvare Moro, piuttosto che rassegnarsi all'idea che non abbiano potuto.

Moro, "Gladio", le stragi e gli anni di piombo. Esperienze che segnarono Cossiga nel profondo e da cui uscì con l'immagine indelebile del cattivo per antonomasia, il Kossiga delle leggi emergenziali, dei misteri d'Italia, dei servizi deviati, amico degli "amerikani" e della perfida Albione. Insomma, il volto "sporco" del regime. C'è ancora chi sotto sotto non ha smesso di considerarlo un "golpista" mancato. Un'immagine ingiusta, alimentata dalla sua ostentata vicinanza agli apparati di sicurezza, ma in modo decisivo da veri e propri miti. Ma Cossiga non ha rinnegato se stesso, non si è dato allo scaricabarile, e suo malgrado ha imparato a convivere con quell'immagine («non rinnego niente. Anzi mi tengo, sia chiaro, la kappa con la quale veniva effigiato il mio nome sui muri di tutt'Italia»). Un peso che si è aggiunto a quello già tremendo delle responsabilità che si è dovuto assumere nello svolgimento delle sue funzioni di sottosegretario prima, ministro poi e infine presidente, dando prova di un senso dello Stato inconcepibile per personaggi modesti come Moro.

Non c'era la pazzia, né la depressione, dietro le sue "picconate" alla Prima Repubblica. Alla consapevolezza dell'esigenza di rinnovamento del sistema politico dopo la caduta del Muro di Berlino si aggiungeva una lucidissima sofferenza interiore e un forte spirito di rivalsa nei confronti di una classe politica di ignavi, che nel momento delle accuse e dei veleni non aveva saputo fare quadrato, lo aveva lasciato solo, e alla fine persino accerchiato, come se certe scomode verità, o silenzi, non fossero frutto di una ragion di Stato condivisa ma attribuibili unicamente a Kossiga, l'"anima nera" della Repubblica. Concluso il suo settennato ha cominciato a giocare con quell'immagine di "cattivo", a togliersi i "sassolini dalle scarpe", come colui che non ha più nulla da perdere in termini di immagine e che non deve più alcun riguardo ai tanti mediocri che hanno abitato insieme a lui il mondo della politica. E' diventato il "picconatore" irriverente che abbiamo apprezzato e di cui questo Paese avrebbe avuto ancora bisogno. Ma da quella sua irriverenza e dalle sue provocazioni non ha mai cessato di trapelare un pizzico di malinconia, la malinconia di chi in fondo sa di rimanere incompreso.

Tuesday, August 17, 2010

Carta e prassi impongono di non tradire il responso delle urne

Errore da parte del Pdl alzare il livello della polemica con il presidente Napolitano (che comunque alla prova dei fatti difficilmente autorizzerebbe "ribaltoni"), contribuendo tra l'altro ad alleggerire la pressione su Fini. Ma nel merito ineccepibile, e prim'ancora legittima, la posizione: in caso di crisi ritorno alle urne, no governi tecnici. Napolitano invece continua a sbagliare su Fini. Innanzitutto, perché balza agli occhi il suo doppio standard: silenzio, nemmeno una parola, mentre per due anni un'altra istituzione è stata oggetto di campagne d'odio e veleni prive di fondamento. E poi perché invece di difendere il presidente della Camera, dovrebbe porsi egli stesso il problema dell'incompatibilità del suo ruolo politico con la carica che ricopre, che in caso di crisi potrebbe rivelarsi per il Colle motivo di imbarazzo. Napolitano sbaglia anche a pretendere da chi comunque sarebbe chiamato a consultare (il presidente del Senato e i partiti di maggioranza) di non esprimersi sul da farsi in caso di crisi. E in ogni caso, dovrebbe quanto meno riprendere anche chi altrettanto irresponsabilmente evoca governi tecnici senza l'appoggio dei partiti di maggioranza, Pdl e Lega. Invece, i suoi moniti di questi giorni nei confronti di chi prospetta in caso di crisi il ritorno alle urne come unica soluzione sembrano di fatto aver legittimato speculazioni circa la possibilità di dar vita ad un "governo tecnico" sostenuto dagli attuali gruppi di opposizione e dal neonato gruppo "finiano", contro la volontà dei partiti usciti vincitori dalle urne.

Mentre ci si divide su "costituzione formale" e "costituzione materiale", ci si dimentica che non è solo l'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico, ma sono la Costituzione e la prassi vigenti anche prima di essa a richiedere il rispetto della sovranità popolare. Anche durante la Prima Repubblica, infatti - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima, e quando nell'arco di una stessa legislatura si susseguivano più governi - la volontà degli elettori è stata sempre rispettata, nel senso che mai dopo una crisi i partiti di maggioranza si sono ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. Mai un presidente della Repubblica ha permesso la nascita di un governo sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza che grazie alla fuoriuscita di alcuni deputati e senatori dai loro rispettivi gruppi potesse fare a meno dei partiti che avevano vinto le elezioni. Mai nella storia della Repubblica si sono verificati cosiddetti "ribaltoni".

Insomma, è vero che il voto anticipato non può essere l'unico sbocco di una crisi, che il potere di scioglimento delle Camere spetta al presidente della Repubblica, sentiti i loro presidenti, e che i governi sono legittimi se ottengono la fiducia del Parlamento in carica, ma anche vero che mai nella formazione di nuovi governi in una stessa legislatura è stata "tradita" la volontà degli elettori. Nella Prima Repubblica, durante una crisi, partiti minori potevano decidere di entrare o uscire dalla coalizione, ma i nuovi governi erano sempre guidati dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, e molto spesso espressione anche della medesima coalizione di partiti. Sempre il presidente del Consiglio incaricato apparteneva alla Dc (tranne in un caso, quando nel 1981 a succedere a Forlani fu Spadolini, comunque esponente di un partito della coalizione di maggioranza). Per quanto riguarda la storia più recente, nel 1993, nel corso della XI legislatura, il governo Ciampi sostituì il governo Amato, ma con il sostegno dei medesimi partiti (Dc-Psi-Pli-Psdi). Il tentativo fu piuttosto quello di allargare la maggioranza ad alcuni partiti di opposizione, con l'ingresso al governo di ministri del Pds e dei Verdi. Ma a seguito della mancata concessione, da parte della Camera dei deputati, dell'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, appena un giorno dopo il giuramento del governo Pds e FdV ritirarono i propri ministri, che furono sostituiti da personalità indipendenti.

Anche il governo Dini (gennaio 1995 - maggio 1996), alla cui esperienza è legato il termine "ribaltone", non nacque tuttavia contro la volontà dei partiti che facevano parte della coalizione del governo Berlusconi I, uscita vincitrice dalle urne il 27 marzo del 1994. Fu l'operazione che più si avvicinò, soprattutto con il passare dei mesi, all'idea di "ribaltone", ma va tenuto presente l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini). Nel corso della XIII legislatura anche Romano Prodi fu vittima del cosiddetto "ribaltone", ma i tre governi che gli successero (D'Alema, D'Alema II, Amato II) nacquero per iniziativa della forza che aveva vinto le elezioni, l'Ulivo, che riuscì ad allargare la propria maggioranza da un mero appoggio esterno da parte di Rifondazione comunista agli scissionisti del Pdci, all'Udr e ad alcuni indipendenti.

Oggi qualche insigne giurista, con la scusa di difendere le prerogative costituzionali del capo dello Stato e del Parlamento, sembra voler legittimare un'operazione spericolata e mai nemmeno ipotizzata proprio sulla base della Costituzione formale e di una prassi consolidatasi ben prima della discesa in campo di Berlusconi: immaginate se da presidenti della Camera un Gronchi o un Leone avessero potuto uscire dalla Dc, fondare propri gruppi parlamentari autonomi e dar vita a un governo insieme al Pci, in base al fatto che il presidente della Repubblica può incaricare chiunque sia in grado di ottenere una qualsiasi maggioranza in Parlamento e che i parlamentari non hanno vincolo di mandato... Evidentemente non è proprio così che si può interpretare la nostra Carta, anche laddove recita che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».