Roberto Saviano si sta "santorizzando" (o meglio, "travaglizzando"). Da talentuoso e apprezzato scrittore di denuncia e rappresentazione della realtà delle mafie si sta rapidamente trasformando in un tribuno e in uno dei tanti professionisti dell'antimafia. Comincia a buttarla in politica e, soprattutto, a prendere per oro colato ciò che non lo è: inchieste giudiziare neanche arrivate alla fase del dibattimento. L'aspetto più grave della sua replica alle critiche di Maroni è che rivela una profonda ignoranza: dice di essersi limitato a raccontare dei «fatti», ma evidentemente ignora che una verità è giudiziariamente accertata alla fine di un procedimento, non all'inizio.
Quando poi, in un'intervista a la Repubblica, paragona il ministro dell'Interno addirittura al boss camorrista detto Sandokan, solo perché Maroni l'ha invitato a ripetere le sue accuse alla Lega in un faccia-a-faccia, «guardandolo negli occhi», chiedendo nient'altro che un contraddittorio, come gli avrebbe chiesto anche l'avvocato del boss, dimostra la sua faziosità e capziosità. Saviano d'altronde ha già dimostrato di non essere intellettualmente onesto nella prima puntata, quando, parlando di Falcone, si era guardato bene dall'indicare per nome e per cognome i suoi nemici (tutti nella magistratura e nell'intellettualità e nella politica di sinistra). Ha imparato presto chi può permettersi di attaccare e chi no, se vuole conservare lo status di eroe civile e cantore dell'antimafia politicamente corretta.
Molto semplicemente, Saviano si è montato la testa. Ha cominciato a credere di essere investito di una missione salvifica, denunciare e ripulire il marcio della società, a cominciare, ovviamente, dal mondo dell'imprenditoria e della politica (di centrodestra e del Nord). Un conto è raccontare l'inchiesta condotta dalla Boccassini e da Pignatone sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia, altra cosa è alludere ad un legame, ad una «interlocuzione», tra uno dei partiti al governo, la Lega, e la mafia. Non si può escludere, è già accaduto in passato, che le mafie riescano a contattare singoli esponenti politici locali, di tutti i partiti, ma da qui a insinuare una «interlocuzione» consapevole, deliberata, ce ne passa e che abbia tirato in ballo proprio la Lega (nonostante il consigliere leghista citato non fosse nemmeno indagato) forse ha a che fare con un senso di rivalsa nei confronti del nord, quasi un goffo tentativo di coinvolgerlo in un fenomeno che certo, può infiltrarsi, ma che è nel Dna del sud. Quando parla di «silenzio» si sbaglia, evidentemente è poco informato. Sulle infiltrazioni della 'ndrangheta al nord non c'è affatto «silenzio», né sottovalutazione da parte del governo. Basta informarsi sui provvedimenti adottati, gli arresti, la storia di denuncia che può vantare in particolare la Lega. Ma a questa difesa ci penserà Maroni, se gliene sarà data l'opportunità.
Saviano dice che si limita a raccontare «storie», ma raccontare storie non è mai neutro. Quindi, dovrebbe innanzitutto essere onesto con i telespettatori circa il punto di vista ideologico della sua trasmissione. Quando, poi, si avanzano in tv ipotesi diffamatorie, bisogna dare alla controparte la possibilità di difendersi. Maroni ha diritto ad un contraddittorio con Saviano dinanzi allo stesso identico pubblico. E quando si invitano leader politici per brevi comizietti, siamo alla tribuna politica, che ha delle regole precise.
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Wednesday, November 17, 2010
Thursday, May 13, 2010
Chi tira la carretta e chi si fa tirare
Cinque regioni tirano la carretta in questo Paese, tutte le altre arrancano, si fanno tirare. E' quanto emerge dall'ennesima analisi della Cgia di Mestre. Solo cinque regioni infatti presentano "residui fiscali" attivi, cioè danno molto di più alle amministrazioni pubbliche - con imposte, tasse e contributi - di quanto ricevono sotto forma di trasferimenti e di servizi pubblici. Solo Lombardia, Veneto e Piemonte contribuiscono per oltre 50 miliardi di euro. La Lombardia risulta da sola in credito di 42,574 miliardi, il Veneto di 6,882 miliardi e il Piemonte di 1,219 miliardi. Contribuiscono in larga misura anche Emilia Romagna (+5,587 miliardi) e Lazio (+8,720 miliardi), grazie soprattutto a Roma.
A guadagnarci non sono solo le regioni del Sud, ma anche quelle a Statuto speciale del Nord. Se la Toscana presenta un deficit del residuo fiscale di 776 milioni e la Liguria di 3,304 miliardi, non sono da meno realtà a Statuto speciale come Trentino Alto Adige (-2,177 miliardi), Friuli Venezia Giulia (-2,104 miliardi) e Valle d'Aosta (-617 milioni). Il divario sale drasticamente in alcune Regioni del Sud, capitanate dalla Sicilia - dove il residuo fiscale è pari a -21,713 miliardi - seguita da Campania (-17,290 miliardi) e Puglia (-13,668 miliardi). La Lombardia da sola "mantiene" Sicilia e Campania.
Ma il dato più sorprendente è che negli ultimi anni, dal 2002 al 2007, nonostante le lagnanze meridionaliste, il flusso da Nord a Sud è addirittura aumentato. In Lombardia, ad esempio, l'attivo è aumentato del 47 per cento, in Piemonte del 33 per cento e in Veneto del 32 per cento. I cittadini di queste tre regioni probabilmente se ne sono accorti, mentre a Roma e nel Centrosud del Paese l'opinione prevalente è che non si faccia abbastanza per il Sud, che qualche "cattivone" abbia chiuso i rubinetti. Sarebbe ora, ma non è così. Per il Sud non si fa certamente abbastanza in termini di politiche, ma si va molto oltre la decenza in finanziamenti.
Proprio stamattina il governo ha giustamente negato l'utilizzo dei fondi per le aree sottoutilizzate (Fas) a Lazio, Campania, Molise e Calabria. Quei fondi devono servire per programmi di sviluppo regionale, e non per coprire il deficit del settore sanitario. Dunque, niente Fas senza piani di rientro adeguati e prima del raggiungimento degli obiettivi previsti. Naturalmente i governatori piangono, e qualcuno (il molisano Iorio e il campano Caldoro) sostiene che il governo gli avrebbe chiesto di alzare le tasse, mentre Scopelliti ha evocato il «rischio» di nuovi tributi. Non ci provate, la scelta di ripianare il deficit sanitario con più tasse è solo vostra. Al governo interessa che ci siano i piani di rientro e che siano rispettati. Se con tagli agli sprechi e alla spesa, o con nuove tasse, è una scelta politica che spetta ai governatori.
A guadagnarci non sono solo le regioni del Sud, ma anche quelle a Statuto speciale del Nord. Se la Toscana presenta un deficit del residuo fiscale di 776 milioni e la Liguria di 3,304 miliardi, non sono da meno realtà a Statuto speciale come Trentino Alto Adige (-2,177 miliardi), Friuli Venezia Giulia (-2,104 miliardi) e Valle d'Aosta (-617 milioni). Il divario sale drasticamente in alcune Regioni del Sud, capitanate dalla Sicilia - dove il residuo fiscale è pari a -21,713 miliardi - seguita da Campania (-17,290 miliardi) e Puglia (-13,668 miliardi). La Lombardia da sola "mantiene" Sicilia e Campania.
Ma il dato più sorprendente è che negli ultimi anni, dal 2002 al 2007, nonostante le lagnanze meridionaliste, il flusso da Nord a Sud è addirittura aumentato. In Lombardia, ad esempio, l'attivo è aumentato del 47 per cento, in Piemonte del 33 per cento e in Veneto del 32 per cento. I cittadini di queste tre regioni probabilmente se ne sono accorti, mentre a Roma e nel Centrosud del Paese l'opinione prevalente è che non si faccia abbastanza per il Sud, che qualche "cattivone" abbia chiuso i rubinetti. Sarebbe ora, ma non è così. Per il Sud non si fa certamente abbastanza in termini di politiche, ma si va molto oltre la decenza in finanziamenti.
Proprio stamattina il governo ha giustamente negato l'utilizzo dei fondi per le aree sottoutilizzate (Fas) a Lazio, Campania, Molise e Calabria. Quei fondi devono servire per programmi di sviluppo regionale, e non per coprire il deficit del settore sanitario. Dunque, niente Fas senza piani di rientro adeguati e prima del raggiungimento degli obiettivi previsti. Naturalmente i governatori piangono, e qualcuno (il molisano Iorio e il campano Caldoro) sostiene che il governo gli avrebbe chiesto di alzare le tasse, mentre Scopelliti ha evocato il «rischio» di nuovi tributi. Non ci provate, la scelta di ripianare il deficit sanitario con più tasse è solo vostra. Al governo interessa che ci siano i piani di rientro e che siano rispettati. Se con tagli agli sprechi e alla spesa, o con nuove tasse, è una scelta politica che spetta ai governatori.
Tuesday, March 09, 2010
Passare alla riduzione del danno
Come ho avuto modo di scrivere fin dall'inizio, la questione del Pdl laziale è molto più complicata rispetto al "listino" Formigoni e forse andava lasciata al suo destino. Governo e maggioranza dovrebbero a questo punto incassare con pragmatismo la decisione del Tar del Lazio, anche se desta più di qualche dubbio. Al massimo, se a breve, attendere il Consiglio di Stato. Il caos, il tira e molla di questi giorni, l'impressione che il decreto interpretativo sia stato superfluo per Formigoni e inutile per il Pdl nel Lazio, stanno demolendo l'immagine efficientista della coalizione di governo (incapace due volte: prima a presentare le liste, poi a risolvere il problema per decreto), il che rischia di tradursi in una emorragia di consensi. Passano i giorni, e la situazione rischia di aggravarsi fino ai limiti della irrecuperabilità. Quindi, è nel loro interesse chiudere al più presto in un modo o nell'altro, perché la campagna, la strategia comunicativa di Berlusconi, che potrebbero limitare il danno, non possono partire in questa incertezza. L'idea che siano state modificate le regole del gioco in corsa disturba anche gli elettori di centrodestra più moderati, ma non aver potuto salvare la lista del Pdl a Roma, se non altro, è un argomento in più, decisivo, per sostenere che il decreto non cambiava le regole, era davvero solo interpretativo.
Certo, la sentenza del Tar solleva dubbi inquietanti. Nel respingere la richiesta di sospensiva che avrebbe ammesso la lista del Pdl per la provincia di Roma, i giudici amministrativi fanno notare che il decreto interpretativo varato venerdì scorso dal governo «non può trovare applicazione perché la Regione Lazio ha dettato proprie disposizioni in tema elettorale esercitando le competenze date dalla Costituzione. A seguito dell'esercizio della potestà legislativa regionale, la potestà statale non può trovare applicazione nel presente giudizio». Sorge il dubbio però che ormai la questione sia solo politica. E' vero che la Costituzione attribuisce la legislazione elettorale di valenza regionale alle regioni, ma la norma chiamata in causa dal Tar del Lazio, l'articolo 2 della legge regionale del Lazio n. 2 del 20 gennaio 2005, dispone che «per quanto non espressamente previsto, sono recepite la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale) e la legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario), e successive modifiche e integrazioni». Per tutto quello non espressamente previsto quindi la Regione Lazio si rimette alla normativa nazionale, che lo Stato ha tutto il diritto di interpretare.
E «successive modifiche e integrazioni», spiega il costituzionalista Ciro Sbailò a il Velino, significa che siamo di fronte a «un caso classico di "rinvio dinamico" che vincola la legge a un'altra legge. Quando, infatti, il rinvio è "statico", "le eventuali variazioni apportate all'atto cui si rinvia sono indifferenti". Nel caso di rinvio dinamico, invece, l'ordinamento "si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell'altro ordinamento si producono" (G. Pitruzzella). In altre parole - sostiene il professor Sbailò - con quel riferimento dinamico, il legislatore regionale ha aperto una strada che poi non può decidere di chiudere quando gli pare... Insomma, siamo di fronte a un atteggiamento a dir poco "creativo" dei giudici amministrativi».
Se alla discutibile decisione del Tar del Lazio aggiungiamo le magagne che stanno venendo fuori in Lombardia e in Piemonte, allora - posto che a questo punto, elettoralmente parlando, al centrodestra converrebbe forse non insistere - il problema diventa un altro, quello di una «dissidenza» di parte della magistratura nei confronti delle istituzioni democratiche tutte, come descritto da Il Foglio oggi:
Certo, la sentenza del Tar solleva dubbi inquietanti. Nel respingere la richiesta di sospensiva che avrebbe ammesso la lista del Pdl per la provincia di Roma, i giudici amministrativi fanno notare che il decreto interpretativo varato venerdì scorso dal governo «non può trovare applicazione perché la Regione Lazio ha dettato proprie disposizioni in tema elettorale esercitando le competenze date dalla Costituzione. A seguito dell'esercizio della potestà legislativa regionale, la potestà statale non può trovare applicazione nel presente giudizio». Sorge il dubbio però che ormai la questione sia solo politica. E' vero che la Costituzione attribuisce la legislazione elettorale di valenza regionale alle regioni, ma la norma chiamata in causa dal Tar del Lazio, l'articolo 2 della legge regionale del Lazio n. 2 del 20 gennaio 2005, dispone che «per quanto non espressamente previsto, sono recepite la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale) e la legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario), e successive modifiche e integrazioni». Per tutto quello non espressamente previsto quindi la Regione Lazio si rimette alla normativa nazionale, che lo Stato ha tutto il diritto di interpretare.
E «successive modifiche e integrazioni», spiega il costituzionalista Ciro Sbailò a il Velino, significa che siamo di fronte a «un caso classico di "rinvio dinamico" che vincola la legge a un'altra legge. Quando, infatti, il rinvio è "statico", "le eventuali variazioni apportate all'atto cui si rinvia sono indifferenti". Nel caso di rinvio dinamico, invece, l'ordinamento "si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell'altro ordinamento si producono" (G. Pitruzzella). In altre parole - sostiene il professor Sbailò - con quel riferimento dinamico, il legislatore regionale ha aperto una strada che poi non può decidere di chiudere quando gli pare... Insomma, siamo di fronte a un atteggiamento a dir poco "creativo" dei giudici amministrativi».
Se alla discutibile decisione del Tar del Lazio aggiungiamo le magagne che stanno venendo fuori in Lombardia e in Piemonte, allora - posto che a questo punto, elettoralmente parlando, al centrodestra converrebbe forse non insistere - il problema diventa un altro, quello di una «dissidenza» di parte della magistratura nei confronti delle istituzioni democratiche tutte, come descritto da Il Foglio oggi:
«Quei magistrati, in sostanza, spingono il loro diritto a interpretare le leggi fino al limite di capovolgerle e non osservarle. I cavilli procedurali ai quali si sono appellati, il gioco di sponda formalistico con la Corte costituzionale, il derisorio rinvio della decisione definitiva a dopo lo svolgimento delle elezioni, sono lampanti esempi di una arrogante volontà di far prevalere le formalità sulla sostanza, il giurisdizionalismo sulla democrazia. L’intervento autorevole e sofferto di Giorgio Napolitano, che puntava a superare una contrapposizione lacerante con un preciso e coraggioso senso istituzionale, non solo non è stato accolto ma è stato frettolosamente archiviato. Il problema dunque, non è più quello dei pasticci combinati da qualcuno, dei tentativi di porvi rimedio, della validità delle scelte compiute dal governo, è invece quello di una sostanziale dissidenza giudiziaria, di un ordine che vuole prevalere sulle istituzioni elettive, dal Parlamento, al governo, al Quirinale. Il formalismo è l’aspetto esteriore di questa dissidenza».
Friday, March 05, 2010
Bonino tra battaglia di legalità e ambizione di governo
Su il Velino:
A fronte dei suoi compagni di partito, il segretario Staderini e l'ex europarlamentare Marco Cappato, che ieri chiedevano a gran voce l'annullamento delle elezioni in tutte le regioni, le dichiarazioni di Emma Bonino lasciano intravedere una candidata tutta proiettata verso il voto, in pieno "flirt" con una possibile vittoria a tavolino. «Dura lex, sed lex», è la risposta pronta alle recriminazioni della sua avversaria. È comprensibile la difficoltà della Bonino, stretta tra una "battaglia di legalità" che portata alle estreme conseguenze, come fanno i dirigenti del suo partito, non può che condurre ad una autodenuncia dell'intero sistema politico, e quindi all'annullamento delle elezioni, e una campagna elettorale che se non altro per rispetto della coalizione che sostiene la sua candidatura va portata avanti, nonostante quanto sta accadendo e magari puntando l'indice sulla sciatteria e l'incapacità dei propri avversari.
Già l'iniziativa dello sciopero della fame e della sete aveva messo in luce le contraddizioni. «Assolutamente no», gli elettori del Lazio «non possono avere la certezza di poter votare Emma», avvertiva Pannella a la Repubblica, adombrando un possibile ritiro, coerente dal suo punto di vista con la totale mancanza di legalità, ma suscitando allarme e disappunto nelle file del centrosinistra. La stessa Bonino è dovuta intervenire, smentendo il suo leader, per rassicurare Bersani ricordandogli di essere «persona leale» («se prendo un impegno lo porto a termine»).
L'analisi che fanno i Radicali della realtà del nostro Paese, e quindi la loro linea politica, l'intransigenza della loro denuncia dell'illegalità, fino all'ultimo timbro, e della non-democrazia italiana, è difficilmente compatibile con la traiettoria della carriera politica di Emma Bonino, oggi arrivata ad un punto particolarmente stridente: commissaria europea con Berlusconi, ministro del governo Prodi, ora vicepresidente del Senato e candidata del centrosinistra alla presidenza della regione Lazio. Difficile ottenere tutto ciò in un "regime". Che non sia un "regime"? Non si spiega come Emma Bonino possa starsene tranquillamente a fare campagna elettorale in un Paese da cui Pannella minaccia di fuggire in esilio restituendo il passaporto. C'è qualcosa di stonato e l'iniziativa dello sciopero della sete non può bastare alla Bonino per conciliare l'anima di lotta "partigiana" (così la definisce Pannella) e l'ambizione di governo.
Una contraddizione che infatti riemerge anche in queste ore...
LEGGI TUTTO
A fronte dei suoi compagni di partito, il segretario Staderini e l'ex europarlamentare Marco Cappato, che ieri chiedevano a gran voce l'annullamento delle elezioni in tutte le regioni, le dichiarazioni di Emma Bonino lasciano intravedere una candidata tutta proiettata verso il voto, in pieno "flirt" con una possibile vittoria a tavolino. «Dura lex, sed lex», è la risposta pronta alle recriminazioni della sua avversaria. È comprensibile la difficoltà della Bonino, stretta tra una "battaglia di legalità" che portata alle estreme conseguenze, come fanno i dirigenti del suo partito, non può che condurre ad una autodenuncia dell'intero sistema politico, e quindi all'annullamento delle elezioni, e una campagna elettorale che se non altro per rispetto della coalizione che sostiene la sua candidatura va portata avanti, nonostante quanto sta accadendo e magari puntando l'indice sulla sciatteria e l'incapacità dei propri avversari.
Già l'iniziativa dello sciopero della fame e della sete aveva messo in luce le contraddizioni. «Assolutamente no», gli elettori del Lazio «non possono avere la certezza di poter votare Emma», avvertiva Pannella a la Repubblica, adombrando un possibile ritiro, coerente dal suo punto di vista con la totale mancanza di legalità, ma suscitando allarme e disappunto nelle file del centrosinistra. La stessa Bonino è dovuta intervenire, smentendo il suo leader, per rassicurare Bersani ricordandogli di essere «persona leale» («se prendo un impegno lo porto a termine»).
L'analisi che fanno i Radicali della realtà del nostro Paese, e quindi la loro linea politica, l'intransigenza della loro denuncia dell'illegalità, fino all'ultimo timbro, e della non-democrazia italiana, è difficilmente compatibile con la traiettoria della carriera politica di Emma Bonino, oggi arrivata ad un punto particolarmente stridente: commissaria europea con Berlusconi, ministro del governo Prodi, ora vicepresidente del Senato e candidata del centrosinistra alla presidenza della regione Lazio. Difficile ottenere tutto ciò in un "regime". Che non sia un "regime"? Non si spiega come Emma Bonino possa starsene tranquillamente a fare campagna elettorale in un Paese da cui Pannella minaccia di fuggire in esilio restituendo il passaporto. C'è qualcosa di stonato e l'iniziativa dello sciopero della sete non può bastare alla Bonino per conciliare l'anima di lotta "partigiana" (così la definisce Pannella) e l'ambizione di governo.
Una contraddizione che infatti riemerge anche in queste ore...
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Wednesday, March 03, 2010
Aspettate a cantare vittoria
Sono in attesa di altre illustri esclusioni dalla competizione elettorale, ma sembra che tardino ad arrivare. Come mai? Come mai, se l'illegalità è così sistematica e generalizzata come denunciano i radicali, per ora sono stati esclusi solo i "listini" di Formigoni in Lombardia e Polverini nel Lazio? Dove sono gli altri "casi Formigoni"? Che fine hanno fatto i «controlli in tutta Italia»? In Emilia e in Toscana... in Campania e in Basilicata, tutto regolare?
Radicali e centrosinistra dovrebbero aspettare prima di cantare vittoria. Innanzitutto, i problemi di Roma e Milano sono molto diversi tra di loro. Come ho già scritto, a Roma sono stati determinanti il dilettantismo e la stupidità dei dirigenti locali del Pdl, mentre i radicali e la farraginosità della legge hanno giocato solo il ruolo delle comparse nella vicenda. E' ovvio infatti che per quanto le regole per la presentazione e l'ammissione delle liste di candidati possano essere semplici e chiare, le migliori possibili, un termine di scadenza ci sarà sempre, e se uno è tanto idiota da non rispettarlo, non ci sono complotti politici o assurdità burocratiche che lo giustifichino. Per questa ragione la situazione della lista del Pdl nella provincia di Roma è più complessa, direi quasi irrecuperabile. Ha a che fare invece con la legge, e con quanto i radicali hanno sempre, da anni, denunciato (la sua inapplicabilità e, dunque, l'illegalità della raccolta delle firme), la situazione in Lombardia. Ma lì le irregolarità appaiono "tecniche" e quindi - ma lo sapremo con certezza solo nelle prossime ore - più superabili.
In particolare i radicali, se si aspettano di uscire da questa vicenda come i vincitori, quelli che avevano ragione loro e lo avevano sempre detto, rischiano di rimanere delusi. Posto che quanto accaduto a Roma non ha nulla a che fare con la loro storica battaglia di legalità sulla raccolta delle firme, come mai a seguito delle loro denunce è stato "pizzicato" solo Formigoni in Lombardia? Delle tre l'una: o perché non è vero, come dicono, che hanno presentato denunce nelle altre regioni; o perché Formigoni è stato l'unico caso in cui ci sono state irregolarità, mentre altrove tutti sono riusciti a presentare regolarmente le proprie liste; o perché la Corte d'Appello di Milano ha avuto uno strano occhio di riguardo nei confronti del governatore lombardo, che altre Corti d'Appello, per esempio in Toscana o in Emilia Romagna, non hanno avuto.
In tutte e tre le ipotesi emerge che non siamo affatto in presenza di una illegalità tanto generalizzata e sistematica da gridare a elezioni non democratiche e alla mancanza di stato di diritto, come da anni denunciano i radicali. Al massimo un caso, seppure clamoroso perché riguarda uno schieramento che mobilita in Lombardia circa il 60% del consenso, ma pur sempre un solo caso. Se fosse vera la terza ipotesi, inoltre, la loro battaglia di legalità si trasformerebbe nello strumento dell'arbitrarietà dei tribunali, nel migliore dei casi, se non della solita persecuzione giudiziaria ad opera dei magistrati milanesi.
Se poi dovessero essere accolti i ricorsi del centrodestra in Lombardia, i radicali dovrebbero ammettere di avere da sempre sbagliato con la loro interpretazione letterale della legge, di aver rinunciato per formalità giudicate irrilevanti a presentare le loro liste in svariate tornate elettorali e di aver speso inutilmente i loro soldi in tutti questi anni. Non solo. Se adesso il Pdl è indubbiamente in difficoltà e tramortito, nel caso in cui i "listini" di Formigoni e Polverini vengano riammessi, potrà efficacemente gridare al "sabotaggio", accusando gli avversari politici di aver giocato "sporco", di aver tentato di "vincere facile", di escluderlo dalla competizione sulla base di presunte irregolarità che si sarebbero poi dimostrate meri cavilli procedurali.
Il danno d'immagine recato al Pdl dai suoi stessi delegati per la mancata presentazione della lista nella provincia di Roma rimane, ma a quel punto, dimostrata la pretestuosità della denuncia contro il "listino" di Formigoni, i pronunciamenti di riammissione diventerebbero un 'boomerang' per i radicali e il centrosinistra, che certo non uscirebbero da questa vicenda come campioni di democrazia e legalità agli occhi dei cittadini.
Radicali e centrosinistra dovrebbero aspettare prima di cantare vittoria. Innanzitutto, i problemi di Roma e Milano sono molto diversi tra di loro. Come ho già scritto, a Roma sono stati determinanti il dilettantismo e la stupidità dei dirigenti locali del Pdl, mentre i radicali e la farraginosità della legge hanno giocato solo il ruolo delle comparse nella vicenda. E' ovvio infatti che per quanto le regole per la presentazione e l'ammissione delle liste di candidati possano essere semplici e chiare, le migliori possibili, un termine di scadenza ci sarà sempre, e se uno è tanto idiota da non rispettarlo, non ci sono complotti politici o assurdità burocratiche che lo giustifichino. Per questa ragione la situazione della lista del Pdl nella provincia di Roma è più complessa, direi quasi irrecuperabile. Ha a che fare invece con la legge, e con quanto i radicali hanno sempre, da anni, denunciato (la sua inapplicabilità e, dunque, l'illegalità della raccolta delle firme), la situazione in Lombardia. Ma lì le irregolarità appaiono "tecniche" e quindi - ma lo sapremo con certezza solo nelle prossime ore - più superabili.
In particolare i radicali, se si aspettano di uscire da questa vicenda come i vincitori, quelli che avevano ragione loro e lo avevano sempre detto, rischiano di rimanere delusi. Posto che quanto accaduto a Roma non ha nulla a che fare con la loro storica battaglia di legalità sulla raccolta delle firme, come mai a seguito delle loro denunce è stato "pizzicato" solo Formigoni in Lombardia? Delle tre l'una: o perché non è vero, come dicono, che hanno presentato denunce nelle altre regioni; o perché Formigoni è stato l'unico caso in cui ci sono state irregolarità, mentre altrove tutti sono riusciti a presentare regolarmente le proprie liste; o perché la Corte d'Appello di Milano ha avuto uno strano occhio di riguardo nei confronti del governatore lombardo, che altre Corti d'Appello, per esempio in Toscana o in Emilia Romagna, non hanno avuto.
In tutte e tre le ipotesi emerge che non siamo affatto in presenza di una illegalità tanto generalizzata e sistematica da gridare a elezioni non democratiche e alla mancanza di stato di diritto, come da anni denunciano i radicali. Al massimo un caso, seppure clamoroso perché riguarda uno schieramento che mobilita in Lombardia circa il 60% del consenso, ma pur sempre un solo caso. Se fosse vera la terza ipotesi, inoltre, la loro battaglia di legalità si trasformerebbe nello strumento dell'arbitrarietà dei tribunali, nel migliore dei casi, se non della solita persecuzione giudiziaria ad opera dei magistrati milanesi.
Se poi dovessero essere accolti i ricorsi del centrodestra in Lombardia, i radicali dovrebbero ammettere di avere da sempre sbagliato con la loro interpretazione letterale della legge, di aver rinunciato per formalità giudicate irrilevanti a presentare le loro liste in svariate tornate elettorali e di aver speso inutilmente i loro soldi in tutti questi anni. Non solo. Se adesso il Pdl è indubbiamente in difficoltà e tramortito, nel caso in cui i "listini" di Formigoni e Polverini vengano riammessi, potrà efficacemente gridare al "sabotaggio", accusando gli avversari politici di aver giocato "sporco", di aver tentato di "vincere facile", di escluderlo dalla competizione sulla base di presunte irregolarità che si sarebbero poi dimostrate meri cavilli procedurali.
Il danno d'immagine recato al Pdl dai suoi stessi delegati per la mancata presentazione della lista nella provincia di Roma rimane, ma a quel punto, dimostrata la pretestuosità della denuncia contro il "listino" di Formigoni, i pronunciamenti di riammissione diventerebbero un 'boomerang' per i radicali e il centrosinistra, che certo non uscirebbero da questa vicenda come campioni di democrazia e legalità agli occhi dei cittadini.
Tuesday, March 02, 2010
Da un trionfo alla farsa
Ineccepibile la ricostruzione di Franco Bechis, oggi su Libero, delle ultime settimane di follia e tafazzismo del centrodestra: i contrasti tra ex An ed ex FI, e con la Lega, i tira e molla con l'Udc, gli errori nelle candidature (come in Puglia) e il caos Campania, e ora i "pasticciacci" delle firme in Lazio e Lombardia, «il partito più amato dagli italiani è riuscito fin qui soprattutto a picconare un patrimonio che sembrava impossibile da dilapidare. C'è ancora un mese di campagna elettorale. Per finire il pasticcio o recuperare quel che si può».
Wednesday, April 22, 2009
Scende il coprifuoco in Lombardia
Ma in che razza di paese viviamo? Notizie come queste mi fanno rimanere sempre più attonito. Kebaberie, ma anche gelaterie, pizzerie d'asporto, rosticcerie e piadinerie aperti non oltre l'una di notte e divieto di consumare sui marciapiedi fuori dai locali. E' il succo amaro del provvedimento approvato dal Consiglio regionale della Lombardia. Dopo lo stato dalla culla alla tomba, la regione che ti manda a nanna. Il trionfo del provincialismo.
Thursday, November 08, 2007
Tagliare le tasse si può
Tagliare le tasse si può. Lo ha fatto Roberto Formigoni, alla guida della Lombardia: azzeramento dell'addizionale Irpef regionale sino ai 15mila e 500 euro di reddito annuale, che riguarderà oltre 4 milioni di contribuenti, e lo sgravio conseguente un altro milione e mezzo che supera tale tetto; azzeramento del ticket regionale sanitario di 10 euro e dell'imposta sul metano. In tutto, si calcolano minori esborsi per i cittadini lombardi pari a 400 milioni di euro.
Applausi pochi, per la verità, anche da quella che dovrebbe essere la sua coalizione di appartenenza a livello nazionale, la CdL, ma almeno quello di Oscar Giannino, oggi su Libero.
Applausi pochi, per la verità, anche da quella che dovrebbe essere la sua coalizione di appartenenza a livello nazionale, la CdL, ma almeno quello di Oscar Giannino, oggi su Libero.
«Com'è evidente, la vera battaglia per l'abbattimento fiscale su persone fisiche e imprese - volto a una maggior crescita dell'economia, a far emergere gettito non solo da più alta crescita ma dalla maggior convenienza a rispettare aliquote più "umane", e infine a spiazzarci di meno nella comparazione internazionale che vede più alti investimenti concentrarsi laddove più basso è il disincentivo fiscale - va combattuta a livello centrale. È lì che si concentra l'Idra, con il suo esercito di privilegiati da una spesa pubblica superiore al 50% del Pil, ed è lì che va sconfitta. Ma il buon esempio e la rottura possono anche venire dal basso, come dimostra la Lombardia».
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