Luigi Lusi, Francesco Belsito, Rosi Mauro, Renzo e Umberto Bossi, Davide Boni, Filippo Penati, Nichi Vendola, Roberto Formigoni e mezza giunta regionale lombarda, Valter Lavitola e ovviamente lui, Silvio Berlusconi. Appuntatevi questi nomi, solo i più citati, coinvolti a vario titolo - indagati e non - nelle numerose inchieste che in lungo e in largo nella nostra penisola stanno scuotendo le fondamenta del sistema politico. Tra qualche anno, quando il polverone si sarà diradato, sarà di una qualche utilità, per comprendere cosa stesse accadendo in questi giorni, sapere che fine avranno fatto, quale esito giudiziario sarà toccato loro in sorte. Paginate di giornali, aperture dei tg, talk show, ovunque lo tsunami di rivelazioni sembra inarrestabile, ondata dopo ondata travolge ogni cosa.
Non c'è nemmeno il tempo di porsi qualche domanda che già sopraggiunge lo scandalo successivo, o il vecchio si arricchisce di una nuova puntata, di un particolare in più. Eppure, da Tangentopoli a Partitopoli, alcune coincidenze nell'assalto mediatico-giudiziario al sistema politico non possono non sollevare alcuni interrogativi per chi non si accontenti delle gogne per sfogare il proprio malcontento. Allora come oggi le grandi "pulizie" coincisero con una pericolosa crisi finanziaria...
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Wednesday, April 18, 2012
Wednesday, July 07, 2010
Manovra accerchiata/2
Come sospettavo, l'obiezione circolata di non penalizzare le Regioni "virtuose" con tagli lineari ai trasferimenti era la cortina fumogena dietro cui in realtà si celava un più banale tentativo di ridiscutere l'entità complessiva dei tagli, e non pochi osservatori - da quelli orientati contro il governo ai più attenti e obiettivi - hanno abboccato in pieno. In Commissione Bilancio infatti è stato presentato dal relatore un emendamento che, confermato il taglio per 8,5 miliardi di euro, introduce un sistema di flessibilità. Prevede che sia la Conferenza Stato-Regioni a decidere, entro tre mesi dall'entrata in vigore della manovra, con quali criteri saranno adottati i tagli. Criteri che verrebbero poi recepiti per decreto. Se lo vorranno davvero, dunque, e se troveranno un accordo tra di loro, i governatori potranno far pesare i sacrifici della manovra in modo più lieve sulle Regioni più "virtuose" e più gravoso su quelle "viziose". Se però la Conferenza Stato-Regioni non stabilirà i criteri entro i tre mesi indicati, allora sarà il governo a fissare le regole. Ragionevole, no?
Eppure, nonostante questo, la «frattura» con il governo rimane, a sentire Errani e Formigoni, che non sembrano intenzionati a demordere. Bisogna quindi dedurre che le motivazioni erano altre: non si vuole ridurre la spesa. E in particolare Formigoni, che potrebbe cominciare a tagliare il "contributo" regionale di 234 mila euro al Meeting di CL, sospettiamo che voglia molto demagogicamente approfittare della situazione per guadagnarci soprattutto un po' di visibilità personale. Alla Fini, per intenderci.
Tutto questo ci conferma che a parte le pressioni di Confindustria, che pare sia riuscita a far cancellare norme di autentica barbarie fiscale, tutte le altre sono volte ad "annacquare" la manovra laddove piuttosto andrebbe rafforzata. Cari liberali sui blog e sui giornali, possiamo discettare quanto vogliamo, ma l'amara realtà è che questa manovra può essere solo difesa, Tremonti è la diga, rotta la quale non ci sarebbero meno tasse, meno spesa, più mercato, ma ahimé l'esatto contrario. Nessuno, né nell'opposizione, né nella maggioranza, né nel governo, né le Regioni né gli Enti locali, né le "forze sociali". Insomma, nessuno che abbia una qualche reale influenza invoca tagli più coraggiosi, riforme strutturali, meno tasse o roba del genere. Tutti sono, ciascuno per ciò che lo riguarda, scontenti dei tagli che già ci sono e tenta di attenuarli. E' una situazione che va tenuta presente quando si prende posizione politicamente sulla manovra e sul ministro dell'Economia. Tremonti non mi-ci piace, ma quali sono le reali alternative?
Eppure, nonostante questo, la «frattura» con il governo rimane, a sentire Errani e Formigoni, che non sembrano intenzionati a demordere. Bisogna quindi dedurre che le motivazioni erano altre: non si vuole ridurre la spesa. E in particolare Formigoni, che potrebbe cominciare a tagliare il "contributo" regionale di 234 mila euro al Meeting di CL, sospettiamo che voglia molto demagogicamente approfittare della situazione per guadagnarci soprattutto un po' di visibilità personale. Alla Fini, per intenderci.
Tutto questo ci conferma che a parte le pressioni di Confindustria, che pare sia riuscita a far cancellare norme di autentica barbarie fiscale, tutte le altre sono volte ad "annacquare" la manovra laddove piuttosto andrebbe rafforzata. Cari liberali sui blog e sui giornali, possiamo discettare quanto vogliamo, ma l'amara realtà è che questa manovra può essere solo difesa, Tremonti è la diga, rotta la quale non ci sarebbero meno tasse, meno spesa, più mercato, ma ahimé l'esatto contrario. Nessuno, né nell'opposizione, né nella maggioranza, né nel governo, né le Regioni né gli Enti locali, né le "forze sociali". Insomma, nessuno che abbia una qualche reale influenza invoca tagli più coraggiosi, riforme strutturali, meno tasse o roba del genere. Tutti sono, ciascuno per ciò che lo riguarda, scontenti dei tagli che già ci sono e tenta di attenuarli. E' una situazione che va tenuta presente quando si prende posizione politicamente sulla manovra e sul ministro dell'Economia. Tremonti non mi-ci piace, ma quali sono le reali alternative?
Friday, June 18, 2010
Riflessi keynesiani
Qualche puntualizzazione in merito alle composte «elaborazioni» di Phastidio.net su questo mio post di ieri.
Mi si rimprovera di aver rappresentato una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia, mentre ad essere stato "macchiettizzato" casomai è il mio post. «Una manovra che tagli le spese riduce la domanda aggregata, punto». A parte il fatto che il «punto» si può mettere solo se le altre "domande" che compongono la domanda aggregata rimangono fisse, e infatti la stessa Bankitalia è stata per la verità molto cauta nel prevedere un possibile effetto recessivo della manovra («a condizioni invariate»), quel che conta ai fini di ciò che mi si contesta è che non ho affatto descritto la Banca d'Italia come un covo di keynesiani. Ho semplicemente scritto che quella specifica, per quanto cauta, previsione, riferita dal direttore centrale Salvatore Rossi in un'audizione al Senato, a mio avviso risente di un'impostazione keynesiana. Dunque, sembrerà un dettaglio, ma leggendo in modo obiettivo il mio post, senza andare alla ricerca di qualcosa da "macchiettizzare" a tutti i costi, non mi pare che identificare come keynesiana una singola valutazione, di un singolo rappresentante, in una singola relazione, equivalga a bollare come keynesiana tutta la Banca d'Italia (e comunque non mi pare equivalga a dare del «mostro» a qualcuno).
«Una riduzione della "crescita" italiana a prefisso telefonico» può certamente verificarsi, ma (ed è questo che intendevo dire nel post) collegarla ai tagli alla spesa pubblica previsti nella manovra - e non, per esempio, alla mancanza di altre politiche - politicamente significa offrire su un piatto d'argento un bell'argomento a chi si oppone ai tagli alla spesa pubblica. E questo certamente al di là delle intenzioni di Banca d'Italia, che non vedo affatto «nelle vesti dell'ottuso suggeritore delle virtù della spesa pubblica», tanto che nella stessa audizione il direttore centrale nella sostanza promuoveva la manovra, ribadiva l'urgenza dei tagli, e anzi suggeriva - come da sempre fa Bankitalia - di proseguire sulla strada dei tagli e delle riforme. Quindi, Dio salvi Bankitalia.
Ho solo osato evidenziare come un particolare riflesso keynesiano rischia (e dal modo in cui tutti i giornali si sono concentrati su quel passaggio della relazione si direbbe che quel rischio sia fondato) di rafforzare le convinzioni dei tanti, a destra come a sinistra, che vedono nella spesa pubblica - nelle sue varie forme - un fattore di promozione della crescita. Basta sentire Bersani stamattina a Radio Anch'io per rendersene conto. Per quanto riguarda i 'finiani' (spero che anche questo non sia un insulto, sarà ripetitivo, ma lo si prenda per comodità espositiva), qualche «proposta operativa» l'hanno già avanzata e Lakeside Capital ha segnalato alcune possibili controindicazioni.
P.S. - Poi, questa mattina, navigando in cerca di pareri più autorevoli del sottoscritto per accertarmi di non aver scritto fesserie - sì, lo confesso, non sono un economista, né un analista finanziario - mi imbatto in un articolo di Oscar Giannino, sul numero di questa settimana di Tempi. Dà ragione a Formigoni sui «tagli lineari» alle regioni, mentre nel mio post mi permettevo di dubitare che la reale preoccupazione delle regioni fosse quella di evitare tagli punitivi nei confronti delle più virtuose tra di loro. Ma di Bankitalia Giannino sembra rappresentare una visione che Phastidio.net definirebbe forse «macchiettistica». Nel suo articolo, Giannino anticipa una possibile obiezione ai suoi argomenti («Ma che cosa scrivi, caro Giannino? La Banca d'Italia sostiene invece che la manovra Tremonti taglia di mezzo punto la già troppo asfittica crescita italiana, che sembrava fin troppo ottimista quantificare all'1 per cento di Pil in più nel 2010...»).
Ed ecco la replica di Giannino al suo immaginario interlocutore: «Questo è un altro paio di maniche, signori miei. Io non sono keynesiano come gli economisti dell'ufficio studi di Bankitalia, che adottano multipli alti della spesa pubblica ai fini degli effetti sulla domanda, ma detto questo noi siamo comunque costretti a seguire la via di tagli vigorosi al deficit tendenziale». Siamo almeno in due ad avere una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia. Non credo Giannino sia ottimista sulla crescita del Pil italiano (come non lo sono io), ma evidentemente anche lui una frecciatina alla relazione meno spesa-meno crescita espressa in quell'audizione l'ha voluta assestare.
Mi si rimprovera di aver rappresentato una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia, mentre ad essere stato "macchiettizzato" casomai è il mio post. «Una manovra che tagli le spese riduce la domanda aggregata, punto». A parte il fatto che il «punto» si può mettere solo se le altre "domande" che compongono la domanda aggregata rimangono fisse, e infatti la stessa Bankitalia è stata per la verità molto cauta nel prevedere un possibile effetto recessivo della manovra («a condizioni invariate»), quel che conta ai fini di ciò che mi si contesta è che non ho affatto descritto la Banca d'Italia come un covo di keynesiani. Ho semplicemente scritto che quella specifica, per quanto cauta, previsione, riferita dal direttore centrale Salvatore Rossi in un'audizione al Senato, a mio avviso risente di un'impostazione keynesiana. Dunque, sembrerà un dettaglio, ma leggendo in modo obiettivo il mio post, senza andare alla ricerca di qualcosa da "macchiettizzare" a tutti i costi, non mi pare che identificare come keynesiana una singola valutazione, di un singolo rappresentante, in una singola relazione, equivalga a bollare come keynesiana tutta la Banca d'Italia (e comunque non mi pare equivalga a dare del «mostro» a qualcuno).
«Una riduzione della "crescita" italiana a prefisso telefonico» può certamente verificarsi, ma (ed è questo che intendevo dire nel post) collegarla ai tagli alla spesa pubblica previsti nella manovra - e non, per esempio, alla mancanza di altre politiche - politicamente significa offrire su un piatto d'argento un bell'argomento a chi si oppone ai tagli alla spesa pubblica. E questo certamente al di là delle intenzioni di Banca d'Italia, che non vedo affatto «nelle vesti dell'ottuso suggeritore delle virtù della spesa pubblica», tanto che nella stessa audizione il direttore centrale nella sostanza promuoveva la manovra, ribadiva l'urgenza dei tagli, e anzi suggeriva - come da sempre fa Bankitalia - di proseguire sulla strada dei tagli e delle riforme. Quindi, Dio salvi Bankitalia.
Ho solo osato evidenziare come un particolare riflesso keynesiano rischia (e dal modo in cui tutti i giornali si sono concentrati su quel passaggio della relazione si direbbe che quel rischio sia fondato) di rafforzare le convinzioni dei tanti, a destra come a sinistra, che vedono nella spesa pubblica - nelle sue varie forme - un fattore di promozione della crescita. Basta sentire Bersani stamattina a Radio Anch'io per rendersene conto. Per quanto riguarda i 'finiani' (spero che anche questo non sia un insulto, sarà ripetitivo, ma lo si prenda per comodità espositiva), qualche «proposta operativa» l'hanno già avanzata e Lakeside Capital ha segnalato alcune possibili controindicazioni.
P.S. - Poi, questa mattina, navigando in cerca di pareri più autorevoli del sottoscritto per accertarmi di non aver scritto fesserie - sì, lo confesso, non sono un economista, né un analista finanziario - mi imbatto in un articolo di Oscar Giannino, sul numero di questa settimana di Tempi. Dà ragione a Formigoni sui «tagli lineari» alle regioni, mentre nel mio post mi permettevo di dubitare che la reale preoccupazione delle regioni fosse quella di evitare tagli punitivi nei confronti delle più virtuose tra di loro. Ma di Bankitalia Giannino sembra rappresentare una visione che Phastidio.net definirebbe forse «macchiettistica». Nel suo articolo, Giannino anticipa una possibile obiezione ai suoi argomenti («Ma che cosa scrivi, caro Giannino? La Banca d'Italia sostiene invece che la manovra Tremonti taglia di mezzo punto la già troppo asfittica crescita italiana, che sembrava fin troppo ottimista quantificare all'1 per cento di Pil in più nel 2010...»).
Ed ecco la replica di Giannino al suo immaginario interlocutore: «Questo è un altro paio di maniche, signori miei. Io non sono keynesiano come gli economisti dell'ufficio studi di Bankitalia, che adottano multipli alti della spesa pubblica ai fini degli effetti sulla domanda, ma detto questo noi siamo comunque costretti a seguire la via di tagli vigorosi al deficit tendenziale». Siamo almeno in due ad avere una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia. Non credo Giannino sia ottimista sulla crescita del Pil italiano (come non lo sono io), ma evidentemente anche lui una frecciatina alla relazione meno spesa-meno crescita espressa in quell'audizione l'ha voluta assestare.
Thursday, June 17, 2010
Manovra accerchiata
No, non mi fido. Non mi fido dei cambiamenti che da più parti si vorrebbero apportare alla manovra, per lo più in nome della crescita. A saldi invariati, il governo si dice aperto a contributi e modifiche migliorative. Quindi, ben vengano altri tagli, ma qui e là si riaffacciano brutti modi di ri-spendere subito le poche risorse raccolte. La manovra va difesa così com'è, purtroppo in Italia non c'è spazio per i distinguo, perché nel dibattito su come migliorarla si nascondono in troppi che vogliono solo annacquarla per favorire le loro clientele. Se si apre un pertugio, non si sa mai chi ci si può infilare.
I 'finiani', per esempio, abboccano in toto alla versione keynesiana di Bankitalia secondo cui ogni cent tagliato di spesa pubblica frena la crescita, già fioca, e quindi giù con le proposte per sostenerla, rischiando però di ricadere nel vizio dei pacchetti di stimolo (per giunta con pochissime risorse). In breve, la ricetta prevederebbe non meglio identificati investimenti "tecnologici" qui e là e il ritorno del credito d'imposta per le imprese, a sostituire, scrivono, la «marea di miliardi di euro che ogni anno lo Stato dà alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto». Ma Lakeside Capital si è già incaricato di segnalare le controdindicazioni di questa politica. E il dubbio è che i maggiori tagli proposti (ripeto: ben vengano) servano a dispensare gli amati statali dai "sacrifici" previsti dalla manovra, come si poteva facilmente scorgere in un post di due giorni fa dell'on. Bocchino.
Diffido anche delle reali intenzioni delle regioni e delle buone ragioni di bravi governatori come Formigoni. E' vero che tagli uguali per tutte le regioni, in proporzione ai trasferimenti ricevuti, non è il migliore dei modi di procedere, perché non si distingue tra virtuosi e viziosi, premiando i primi e colpendo i secondi. Ma, primo, anche nelle regioni più virtuose la spesa è tale che esistono ampi margini per tagliare (pensioni di invalidità, eccessi di personale, sussidi vari, enti e imprese inutili); secondo, proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe se il governo, d'un tratto, dicesse, alla Lombardia che è stata brava togliamo 5, e alla Calabria che è stata pessima togliamo 15, e in mezzo tutte le altre. E' vero che sarebbe questa una logica coerente con il federalismo fiscale, ma per ora il meccanismo ancora non c'è e un criterio simile per questa manovra sarebbe visto come ancora più arbitrario.
Resta inoltre un pesante interrogativo. Se Tremonti e Berlusconi hanno dall'inizio assicurato disponibilità a discutere sul come tagliare, fermo restando il quanto, non dovrebbero esserci problemi. Perché, se il problema è davvero non punire le regioni virtuose, la Conferenza delle Regioni non propone al governo un meccanismo per cui i tagli colpiscano meno chi ha ben governato? Dunque, o mentono Tremonti e Berlusconi (non sono disponibili a discutere, neanche sul come), oppure le regioni ci marciano: in realtà, vogliono solo subire minori tagli complessivamente, e non distribuirli in modo più intelligente e meritocratico.
I 'finiani', per esempio, abboccano in toto alla versione keynesiana di Bankitalia secondo cui ogni cent tagliato di spesa pubblica frena la crescita, già fioca, e quindi giù con le proposte per sostenerla, rischiando però di ricadere nel vizio dei pacchetti di stimolo (per giunta con pochissime risorse). In breve, la ricetta prevederebbe non meglio identificati investimenti "tecnologici" qui e là e il ritorno del credito d'imposta per le imprese, a sostituire, scrivono, la «marea di miliardi di euro che ogni anno lo Stato dà alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto». Ma Lakeside Capital si è già incaricato di segnalare le controdindicazioni di questa politica. E il dubbio è che i maggiori tagli proposti (ripeto: ben vengano) servano a dispensare gli amati statali dai "sacrifici" previsti dalla manovra, come si poteva facilmente scorgere in un post di due giorni fa dell'on. Bocchino.
Diffido anche delle reali intenzioni delle regioni e delle buone ragioni di bravi governatori come Formigoni. E' vero che tagli uguali per tutte le regioni, in proporzione ai trasferimenti ricevuti, non è il migliore dei modi di procedere, perché non si distingue tra virtuosi e viziosi, premiando i primi e colpendo i secondi. Ma, primo, anche nelle regioni più virtuose la spesa è tale che esistono ampi margini per tagliare (pensioni di invalidità, eccessi di personale, sussidi vari, enti e imprese inutili); secondo, proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe se il governo, d'un tratto, dicesse, alla Lombardia che è stata brava togliamo 5, e alla Calabria che è stata pessima togliamo 15, e in mezzo tutte le altre. E' vero che sarebbe questa una logica coerente con il federalismo fiscale, ma per ora il meccanismo ancora non c'è e un criterio simile per questa manovra sarebbe visto come ancora più arbitrario.
Resta inoltre un pesante interrogativo. Se Tremonti e Berlusconi hanno dall'inizio assicurato disponibilità a discutere sul come tagliare, fermo restando il quanto, non dovrebbero esserci problemi. Perché, se il problema è davvero non punire le regioni virtuose, la Conferenza delle Regioni non propone al governo un meccanismo per cui i tagli colpiscano meno chi ha ben governato? Dunque, o mentono Tremonti e Berlusconi (non sono disponibili a discutere, neanche sul come), oppure le regioni ci marciano: in realtà, vogliono solo subire minori tagli complessivamente, e non distribuirli in modo più intelligente e meritocratico.
Tuesday, March 09, 2010
Passare alla riduzione del danno
Come ho avuto modo di scrivere fin dall'inizio, la questione del Pdl laziale è molto più complicata rispetto al "listino" Formigoni e forse andava lasciata al suo destino. Governo e maggioranza dovrebbero a questo punto incassare con pragmatismo la decisione del Tar del Lazio, anche se desta più di qualche dubbio. Al massimo, se a breve, attendere il Consiglio di Stato. Il caos, il tira e molla di questi giorni, l'impressione che il decreto interpretativo sia stato superfluo per Formigoni e inutile per il Pdl nel Lazio, stanno demolendo l'immagine efficientista della coalizione di governo (incapace due volte: prima a presentare le liste, poi a risolvere il problema per decreto), il che rischia di tradursi in una emorragia di consensi. Passano i giorni, e la situazione rischia di aggravarsi fino ai limiti della irrecuperabilità. Quindi, è nel loro interesse chiudere al più presto in un modo o nell'altro, perché la campagna, la strategia comunicativa di Berlusconi, che potrebbero limitare il danno, non possono partire in questa incertezza. L'idea che siano state modificate le regole del gioco in corsa disturba anche gli elettori di centrodestra più moderati, ma non aver potuto salvare la lista del Pdl a Roma, se non altro, è un argomento in più, decisivo, per sostenere che il decreto non cambiava le regole, era davvero solo interpretativo.
Certo, la sentenza del Tar solleva dubbi inquietanti. Nel respingere la richiesta di sospensiva che avrebbe ammesso la lista del Pdl per la provincia di Roma, i giudici amministrativi fanno notare che il decreto interpretativo varato venerdì scorso dal governo «non può trovare applicazione perché la Regione Lazio ha dettato proprie disposizioni in tema elettorale esercitando le competenze date dalla Costituzione. A seguito dell'esercizio della potestà legislativa regionale, la potestà statale non può trovare applicazione nel presente giudizio». Sorge il dubbio però che ormai la questione sia solo politica. E' vero che la Costituzione attribuisce la legislazione elettorale di valenza regionale alle regioni, ma la norma chiamata in causa dal Tar del Lazio, l'articolo 2 della legge regionale del Lazio n. 2 del 20 gennaio 2005, dispone che «per quanto non espressamente previsto, sono recepite la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale) e la legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario), e successive modifiche e integrazioni». Per tutto quello non espressamente previsto quindi la Regione Lazio si rimette alla normativa nazionale, che lo Stato ha tutto il diritto di interpretare.
E «successive modifiche e integrazioni», spiega il costituzionalista Ciro Sbailò a il Velino, significa che siamo di fronte a «un caso classico di "rinvio dinamico" che vincola la legge a un'altra legge. Quando, infatti, il rinvio è "statico", "le eventuali variazioni apportate all'atto cui si rinvia sono indifferenti". Nel caso di rinvio dinamico, invece, l'ordinamento "si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell'altro ordinamento si producono" (G. Pitruzzella). In altre parole - sostiene il professor Sbailò - con quel riferimento dinamico, il legislatore regionale ha aperto una strada che poi non può decidere di chiudere quando gli pare... Insomma, siamo di fronte a un atteggiamento a dir poco "creativo" dei giudici amministrativi».
Se alla discutibile decisione del Tar del Lazio aggiungiamo le magagne che stanno venendo fuori in Lombardia e in Piemonte, allora - posto che a questo punto, elettoralmente parlando, al centrodestra converrebbe forse non insistere - il problema diventa un altro, quello di una «dissidenza» di parte della magistratura nei confronti delle istituzioni democratiche tutte, come descritto da Il Foglio oggi:
Certo, la sentenza del Tar solleva dubbi inquietanti. Nel respingere la richiesta di sospensiva che avrebbe ammesso la lista del Pdl per la provincia di Roma, i giudici amministrativi fanno notare che il decreto interpretativo varato venerdì scorso dal governo «non può trovare applicazione perché la Regione Lazio ha dettato proprie disposizioni in tema elettorale esercitando le competenze date dalla Costituzione. A seguito dell'esercizio della potestà legislativa regionale, la potestà statale non può trovare applicazione nel presente giudizio». Sorge il dubbio però che ormai la questione sia solo politica. E' vero che la Costituzione attribuisce la legislazione elettorale di valenza regionale alle regioni, ma la norma chiamata in causa dal Tar del Lazio, l'articolo 2 della legge regionale del Lazio n. 2 del 20 gennaio 2005, dispone che «per quanto non espressamente previsto, sono recepite la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale) e la legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario), e successive modifiche e integrazioni». Per tutto quello non espressamente previsto quindi la Regione Lazio si rimette alla normativa nazionale, che lo Stato ha tutto il diritto di interpretare.
E «successive modifiche e integrazioni», spiega il costituzionalista Ciro Sbailò a il Velino, significa che siamo di fronte a «un caso classico di "rinvio dinamico" che vincola la legge a un'altra legge. Quando, infatti, il rinvio è "statico", "le eventuali variazioni apportate all'atto cui si rinvia sono indifferenti". Nel caso di rinvio dinamico, invece, l'ordinamento "si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell'altro ordinamento si producono" (G. Pitruzzella). In altre parole - sostiene il professor Sbailò - con quel riferimento dinamico, il legislatore regionale ha aperto una strada che poi non può decidere di chiudere quando gli pare... Insomma, siamo di fronte a un atteggiamento a dir poco "creativo" dei giudici amministrativi».
Se alla discutibile decisione del Tar del Lazio aggiungiamo le magagne che stanno venendo fuori in Lombardia e in Piemonte, allora - posto che a questo punto, elettoralmente parlando, al centrodestra converrebbe forse non insistere - il problema diventa un altro, quello di una «dissidenza» di parte della magistratura nei confronti delle istituzioni democratiche tutte, come descritto da Il Foglio oggi:
«Quei magistrati, in sostanza, spingono il loro diritto a interpretare le leggi fino al limite di capovolgerle e non osservarle. I cavilli procedurali ai quali si sono appellati, il gioco di sponda formalistico con la Corte costituzionale, il derisorio rinvio della decisione definitiva a dopo lo svolgimento delle elezioni, sono lampanti esempi di una arrogante volontà di far prevalere le formalità sulla sostanza, il giurisdizionalismo sulla democrazia. L’intervento autorevole e sofferto di Giorgio Napolitano, che puntava a superare una contrapposizione lacerante con un preciso e coraggioso senso istituzionale, non solo non è stato accolto ma è stato frettolosamente archiviato. Il problema dunque, non è più quello dei pasticci combinati da qualcuno, dei tentativi di porvi rimedio, della validità delle scelte compiute dal governo, è invece quello di una sostanziale dissidenza giudiziaria, di un ordine che vuole prevalere sulle istituzioni elettive, dal Parlamento, al governo, al Quirinale. Il formalismo è l’aspetto esteriore di questa dissidenza».
Sunday, March 07, 2010
Napolitano ci ha messo la faccia, gli altri l'hanno persa
Tutti dovrebbero fare i conti con questa realtà. Nella spiegazione che ha fornito della sua firma al decreto "interpretativo" sul caos liste, il presidente della Repubblica non solo chiarisce che il testo presentatogli «non ha presentato a mio avviso evidenti vizi di incostituzionalità», ma mostra di condividerne il merito, o quanto meno di aver condiviso con il governo l'esigenza di un intervento legislativo, laddove spiega che si trattava di «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici» e sottolinea che «non era sostenibile che potessero non parteciparvi nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo». Non era sostenibile. Diversamente dalle opposizioni Napolitano ha ritenuto opportuno un intervento, ha riconosciuto che in gioco c'era «il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Dunque, se non il merito, almeno l'opportunità del decreto l'ha condivisa.
Per il capo dello Stato inoltre la soluzione avallata tutela entrambi gli interessi o beni coinvolti («il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi»), e «non si può negare che si tratti di beni egualmente preziosi», sottolinea. Ha chiarito inoltre che qualsiasi soluzione avrebbe «pur sempre dovuto tradursi in soluzione normativa», e che dati i tempi ristretti «quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge». Rispetto alle ipotesi riapertura dei termini, o rinvio, prospettategli giovedì sera da Berlusconi, quelle sì a forte rischio incostituzionalità, Napolitano ha insistito per un intervento che non cambiasse le regole in corsa. E l'ha ottenuto.
Nel messaggio si è poi voluto togliere due sassolini, uno dalla scarpa sinistra e una da quella destra. Laddove scrive che «certo sarebbe stato opportuno» un accordo bipartisan, ma fa notare quanto ciò sia difficile «ancor più in clima elettorale», non si può non vedere una frecciatina al Pd, che ad un confronto con il governo e con il Colle su una questione delicatissima, di fair play e correttezza del voto, ha preferito la propaganda, non resistendo alla tentazione di provare a "vincere facile". Laddove scrive che «un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri» ce l'ha con Di Pietro e ovviamente con Berlusconi, per il «teso incontro» di giovedì sera. Ma il fatto che nonostante il duro scontro di giovedì, ai limiti della rottura, con Berlusconi, Napolitano abbia comunque firmato un decreto che aiuta a risolvere il problema liste, ciò la dice lunga da un lato sull'onestà intellettuale e la correttezza del presidente, dall'altro sulla necessità e urgenza dell'intervento. Evidentemente Napolitano ha ritenuto davvero in pericolo il diritto di voto di milioni di cittadini e non gli è importato nulla né dell'arroganza di Berlusconi né della contrarietà della sinistra.
Il Pd non può quindi trincerarsi, per distinguersi dalla reazione di Di Pietro contro Napolitano, dietro il fatto che firmando il presidente si limita a un primo controllo di costituzionalità e non è politicamente responsabile nel merito del decreto. Ciò è senz'altro vero, ma indubbiamente Napolitano ci ha messo la faccia, e con la sua spiegazione lo rivendica con un coraggio e una trasparenza di cui gli va dato merito. Davvero si è dimostrato presidente di tutti. O il decreto è incostituzionale, un "golpe", e allora di una gravità inaudita che coinvolge anche Napolitano, come sostiene Di Pietro, oppure non lo è. In ogni caso emerge tutta la contraddittorietà della posizione del Pd, che da una parte fa ricorso alla piazza e alza le barricate, pronuncia parole e mette in atto iniziative da allarme democratico, come si farebbe per contrastare l'instaurazione di un regime; dall'altra pretende di lasciar fuori da tutto questo Napolitano.
Ancor più insostenibile, se possibile, la posizione dei radicali. Da una parte pretendono di denunciare l'illegalità generalizzata, sistematica e strutturale, di queste elezioni, fino a chiederne il totale annullamento, dall'altra scendono in piazza e si candidano con chi è convinto che il caos liste è tutta colpa dell'incapacità del Pdl a raccogliere le firme. Insomma, di questo "regime" partitocratico sono corresponsabili e coautori centrodestra e centrosinistra, come hanno sempre sostenuto loro, oppure il problema è il "dittatore" Berlusconi, come sostiene Di Pietro? La candidatura della Bonino soffre di questa contraddizione. Da candidata ha il dovere di contrapporsi a Berlusconi e al centrodestra, di gioire ed avvantaggiarsi dell'esclusione delle liste avversarie, ma come radicale non può che denunciare un'illegalità che riguarda tutti. Ha mai chiesto a Bersani se fosse d'accordo con l'annullamento delle elezioni per poter sanare le illegalità e cambiare le regole? Bersani avrebbe chiamato il premier per proporgli questa soluzione? Un rinvio, nella versione proposta da Berlusconi a Napolitano, o l'annullamento versione radicale, sarebbero stati ancor più contrastati dalla sinistra, e forse a questo punto quelli sì incostituzionali. Non prendiamoci in giro. I radicali hanno piegato la loro battaglia di legalità agli interessi di una parte; al di là delle intenzioni l'hanno resa uno strumento di lotta politica a danno di uno solo dei due schieramenti, e in tutto questo la loro lettura della realtà italiana va a farsi friggere.
E veniamo al centrodestra. Che pagherà un prezzo politico pesante per il disgusto suscitato, anche nei suoi elettori, prima dalla sciatteria e dall'inefficienza dimostrata dal Pdl, poi dalla sensazione che per rimediare ai suoi errori sia stato determinante un "aiutino" calato dall'alto e in corsa. Anche se l'"aiutino" non è stato necessario per la riammissione del "listino" Formigoni. Il Tar della Lombardia infatti ha deciso a prescindere dal decreto, gettando un'ombra sinistra sull'operato della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano, che una volta ammessa la lista non doveva più pronunciarsi su di essa, non aveva più alcun potere di intervento, e quindi non doveva neanche accogliere le pretese accampate contro le liste ammesse nel ricorso dei radicali, titolati a ricorrere solo contro la loro esclusione. Tecnicamente non si tratta neanche di una riammissione. Per il Tar Formigoni è sempre stato in corsa, dato che l'autorità che l'ha escluso non poteva farlo. Perché allora il governo ha voluto fare il decreto interpretativo prima della pronuncia del Tar lombardo? Salvare il Pdl a Roma, la cui riammissione è molto più difficile, era questo il vero scopo. Una volta riammesso Formigoni e la coalizione in Lombardia, infatti, la Lega non avrebbe più sostenuto la necessità di un intervento, e riguardando l'esclusione di una sola lista - sia pure maggioritaria - e non un intero schieramento e un candidato presidente, non sarebbe apparsa tale neanche a Napolitano.
Il prezzo per salvare il Pdl romano, sempre che il decreto basti, sarà alto. Di quanto potrà essere attenuato dipenderà dalla decisione del Tar laziale lunedì e dalla capacità di Berlusconi di spiegare ai cittadini cosa è successo. Accanto alla dabbenaggine dei dirigenti del Pdl locale, infatti, è anche vero che c'è stato un abuso di potere. Doveva essere consentita infatti la presentazione della lista anche fuori dai termini. La mancata presentazione ha impedito al Pdl di esercitare un diritto: quello di far valere nelle sedi competenti i motivi del suo ritardo. Mentre più emergono particolari sul caso Formigoni (fin dall'inizio avevo scritto che mi "puzzava"), più viene fuori non solo l'illegittimità dell'esclusione, come sancito dal Tar, ma anche la parzialità ai suoi danni della condotta della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano. Altro che inefficienza, nel caso Formigoni!
Per il capo dello Stato inoltre la soluzione avallata tutela entrambi gli interessi o beni coinvolti («il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi»), e «non si può negare che si tratti di beni egualmente preziosi», sottolinea. Ha chiarito inoltre che qualsiasi soluzione avrebbe «pur sempre dovuto tradursi in soluzione normativa», e che dati i tempi ristretti «quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge». Rispetto alle ipotesi riapertura dei termini, o rinvio, prospettategli giovedì sera da Berlusconi, quelle sì a forte rischio incostituzionalità, Napolitano ha insistito per un intervento che non cambiasse le regole in corsa. E l'ha ottenuto.
Nel messaggio si è poi voluto togliere due sassolini, uno dalla scarpa sinistra e una da quella destra. Laddove scrive che «certo sarebbe stato opportuno» un accordo bipartisan, ma fa notare quanto ciò sia difficile «ancor più in clima elettorale», non si può non vedere una frecciatina al Pd, che ad un confronto con il governo e con il Colle su una questione delicatissima, di fair play e correttezza del voto, ha preferito la propaganda, non resistendo alla tentazione di provare a "vincere facile". Laddove scrive che «un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri» ce l'ha con Di Pietro e ovviamente con Berlusconi, per il «teso incontro» di giovedì sera. Ma il fatto che nonostante il duro scontro di giovedì, ai limiti della rottura, con Berlusconi, Napolitano abbia comunque firmato un decreto che aiuta a risolvere il problema liste, ciò la dice lunga da un lato sull'onestà intellettuale e la correttezza del presidente, dall'altro sulla necessità e urgenza dell'intervento. Evidentemente Napolitano ha ritenuto davvero in pericolo il diritto di voto di milioni di cittadini e non gli è importato nulla né dell'arroganza di Berlusconi né della contrarietà della sinistra.
Il Pd non può quindi trincerarsi, per distinguersi dalla reazione di Di Pietro contro Napolitano, dietro il fatto che firmando il presidente si limita a un primo controllo di costituzionalità e non è politicamente responsabile nel merito del decreto. Ciò è senz'altro vero, ma indubbiamente Napolitano ci ha messo la faccia, e con la sua spiegazione lo rivendica con un coraggio e una trasparenza di cui gli va dato merito. Davvero si è dimostrato presidente di tutti. O il decreto è incostituzionale, un "golpe", e allora di una gravità inaudita che coinvolge anche Napolitano, come sostiene Di Pietro, oppure non lo è. In ogni caso emerge tutta la contraddittorietà della posizione del Pd, che da una parte fa ricorso alla piazza e alza le barricate, pronuncia parole e mette in atto iniziative da allarme democratico, come si farebbe per contrastare l'instaurazione di un regime; dall'altra pretende di lasciar fuori da tutto questo Napolitano.
Ancor più insostenibile, se possibile, la posizione dei radicali. Da una parte pretendono di denunciare l'illegalità generalizzata, sistematica e strutturale, di queste elezioni, fino a chiederne il totale annullamento, dall'altra scendono in piazza e si candidano con chi è convinto che il caos liste è tutta colpa dell'incapacità del Pdl a raccogliere le firme. Insomma, di questo "regime" partitocratico sono corresponsabili e coautori centrodestra e centrosinistra, come hanno sempre sostenuto loro, oppure il problema è il "dittatore" Berlusconi, come sostiene Di Pietro? La candidatura della Bonino soffre di questa contraddizione. Da candidata ha il dovere di contrapporsi a Berlusconi e al centrodestra, di gioire ed avvantaggiarsi dell'esclusione delle liste avversarie, ma come radicale non può che denunciare un'illegalità che riguarda tutti. Ha mai chiesto a Bersani se fosse d'accordo con l'annullamento delle elezioni per poter sanare le illegalità e cambiare le regole? Bersani avrebbe chiamato il premier per proporgli questa soluzione? Un rinvio, nella versione proposta da Berlusconi a Napolitano, o l'annullamento versione radicale, sarebbero stati ancor più contrastati dalla sinistra, e forse a questo punto quelli sì incostituzionali. Non prendiamoci in giro. I radicali hanno piegato la loro battaglia di legalità agli interessi di una parte; al di là delle intenzioni l'hanno resa uno strumento di lotta politica a danno di uno solo dei due schieramenti, e in tutto questo la loro lettura della realtà italiana va a farsi friggere.
E veniamo al centrodestra. Che pagherà un prezzo politico pesante per il disgusto suscitato, anche nei suoi elettori, prima dalla sciatteria e dall'inefficienza dimostrata dal Pdl, poi dalla sensazione che per rimediare ai suoi errori sia stato determinante un "aiutino" calato dall'alto e in corsa. Anche se l'"aiutino" non è stato necessario per la riammissione del "listino" Formigoni. Il Tar della Lombardia infatti ha deciso a prescindere dal decreto, gettando un'ombra sinistra sull'operato della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano, che una volta ammessa la lista non doveva più pronunciarsi su di essa, non aveva più alcun potere di intervento, e quindi non doveva neanche accogliere le pretese accampate contro le liste ammesse nel ricorso dei radicali, titolati a ricorrere solo contro la loro esclusione. Tecnicamente non si tratta neanche di una riammissione. Per il Tar Formigoni è sempre stato in corsa, dato che l'autorità che l'ha escluso non poteva farlo. Perché allora il governo ha voluto fare il decreto interpretativo prima della pronuncia del Tar lombardo? Salvare il Pdl a Roma, la cui riammissione è molto più difficile, era questo il vero scopo. Una volta riammesso Formigoni e la coalizione in Lombardia, infatti, la Lega non avrebbe più sostenuto la necessità di un intervento, e riguardando l'esclusione di una sola lista - sia pure maggioritaria - e non un intero schieramento e un candidato presidente, non sarebbe apparsa tale neanche a Napolitano.
Il prezzo per salvare il Pdl romano, sempre che il decreto basti, sarà alto. Di quanto potrà essere attenuato dipenderà dalla decisione del Tar laziale lunedì e dalla capacità di Berlusconi di spiegare ai cittadini cosa è successo. Accanto alla dabbenaggine dei dirigenti del Pdl locale, infatti, è anche vero che c'è stato un abuso di potere. Doveva essere consentita infatti la presentazione della lista anche fuori dai termini. La mancata presentazione ha impedito al Pdl di esercitare un diritto: quello di far valere nelle sedi competenti i motivi del suo ritardo. Mentre più emergono particolari sul caso Formigoni (fin dall'inizio avevo scritto che mi "puzzava"), più viene fuori non solo l'illegittimità dell'esclusione, come sancito dal Tar, ma anche la parzialità ai suoi danni della condotta della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano. Altro che inefficienza, nel caso Formigoni!
Friday, March 05, 2010
Bonino tra battaglia di legalità e ambizione di governo
Su il Velino:
A fronte dei suoi compagni di partito, il segretario Staderini e l'ex europarlamentare Marco Cappato, che ieri chiedevano a gran voce l'annullamento delle elezioni in tutte le regioni, le dichiarazioni di Emma Bonino lasciano intravedere una candidata tutta proiettata verso il voto, in pieno "flirt" con una possibile vittoria a tavolino. «Dura lex, sed lex», è la risposta pronta alle recriminazioni della sua avversaria. È comprensibile la difficoltà della Bonino, stretta tra una "battaglia di legalità" che portata alle estreme conseguenze, come fanno i dirigenti del suo partito, non può che condurre ad una autodenuncia dell'intero sistema politico, e quindi all'annullamento delle elezioni, e una campagna elettorale che se non altro per rispetto della coalizione che sostiene la sua candidatura va portata avanti, nonostante quanto sta accadendo e magari puntando l'indice sulla sciatteria e l'incapacità dei propri avversari.
Già l'iniziativa dello sciopero della fame e della sete aveva messo in luce le contraddizioni. «Assolutamente no», gli elettori del Lazio «non possono avere la certezza di poter votare Emma», avvertiva Pannella a la Repubblica, adombrando un possibile ritiro, coerente dal suo punto di vista con la totale mancanza di legalità, ma suscitando allarme e disappunto nelle file del centrosinistra. La stessa Bonino è dovuta intervenire, smentendo il suo leader, per rassicurare Bersani ricordandogli di essere «persona leale» («se prendo un impegno lo porto a termine»).
L'analisi che fanno i Radicali della realtà del nostro Paese, e quindi la loro linea politica, l'intransigenza della loro denuncia dell'illegalità, fino all'ultimo timbro, e della non-democrazia italiana, è difficilmente compatibile con la traiettoria della carriera politica di Emma Bonino, oggi arrivata ad un punto particolarmente stridente: commissaria europea con Berlusconi, ministro del governo Prodi, ora vicepresidente del Senato e candidata del centrosinistra alla presidenza della regione Lazio. Difficile ottenere tutto ciò in un "regime". Che non sia un "regime"? Non si spiega come Emma Bonino possa starsene tranquillamente a fare campagna elettorale in un Paese da cui Pannella minaccia di fuggire in esilio restituendo il passaporto. C'è qualcosa di stonato e l'iniziativa dello sciopero della sete non può bastare alla Bonino per conciliare l'anima di lotta "partigiana" (così la definisce Pannella) e l'ambizione di governo.
Una contraddizione che infatti riemerge anche in queste ore...
LEGGI TUTTO
A fronte dei suoi compagni di partito, il segretario Staderini e l'ex europarlamentare Marco Cappato, che ieri chiedevano a gran voce l'annullamento delle elezioni in tutte le regioni, le dichiarazioni di Emma Bonino lasciano intravedere una candidata tutta proiettata verso il voto, in pieno "flirt" con una possibile vittoria a tavolino. «Dura lex, sed lex», è la risposta pronta alle recriminazioni della sua avversaria. È comprensibile la difficoltà della Bonino, stretta tra una "battaglia di legalità" che portata alle estreme conseguenze, come fanno i dirigenti del suo partito, non può che condurre ad una autodenuncia dell'intero sistema politico, e quindi all'annullamento delle elezioni, e una campagna elettorale che se non altro per rispetto della coalizione che sostiene la sua candidatura va portata avanti, nonostante quanto sta accadendo e magari puntando l'indice sulla sciatteria e l'incapacità dei propri avversari.
Già l'iniziativa dello sciopero della fame e della sete aveva messo in luce le contraddizioni. «Assolutamente no», gli elettori del Lazio «non possono avere la certezza di poter votare Emma», avvertiva Pannella a la Repubblica, adombrando un possibile ritiro, coerente dal suo punto di vista con la totale mancanza di legalità, ma suscitando allarme e disappunto nelle file del centrosinistra. La stessa Bonino è dovuta intervenire, smentendo il suo leader, per rassicurare Bersani ricordandogli di essere «persona leale» («se prendo un impegno lo porto a termine»).
L'analisi che fanno i Radicali della realtà del nostro Paese, e quindi la loro linea politica, l'intransigenza della loro denuncia dell'illegalità, fino all'ultimo timbro, e della non-democrazia italiana, è difficilmente compatibile con la traiettoria della carriera politica di Emma Bonino, oggi arrivata ad un punto particolarmente stridente: commissaria europea con Berlusconi, ministro del governo Prodi, ora vicepresidente del Senato e candidata del centrosinistra alla presidenza della regione Lazio. Difficile ottenere tutto ciò in un "regime". Che non sia un "regime"? Non si spiega come Emma Bonino possa starsene tranquillamente a fare campagna elettorale in un Paese da cui Pannella minaccia di fuggire in esilio restituendo il passaporto. C'è qualcosa di stonato e l'iniziativa dello sciopero della sete non può bastare alla Bonino per conciliare l'anima di lotta "partigiana" (così la definisce Pannella) e l'ambizione di governo.
Una contraddizione che infatti riemerge anche in queste ore...
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Wednesday, March 03, 2010
Aspettate a cantare vittoria
Sono in attesa di altre illustri esclusioni dalla competizione elettorale, ma sembra che tardino ad arrivare. Come mai? Come mai, se l'illegalità è così sistematica e generalizzata come denunciano i radicali, per ora sono stati esclusi solo i "listini" di Formigoni in Lombardia e Polverini nel Lazio? Dove sono gli altri "casi Formigoni"? Che fine hanno fatto i «controlli in tutta Italia»? In Emilia e in Toscana... in Campania e in Basilicata, tutto regolare?
Radicali e centrosinistra dovrebbero aspettare prima di cantare vittoria. Innanzitutto, i problemi di Roma e Milano sono molto diversi tra di loro. Come ho già scritto, a Roma sono stati determinanti il dilettantismo e la stupidità dei dirigenti locali del Pdl, mentre i radicali e la farraginosità della legge hanno giocato solo il ruolo delle comparse nella vicenda. E' ovvio infatti che per quanto le regole per la presentazione e l'ammissione delle liste di candidati possano essere semplici e chiare, le migliori possibili, un termine di scadenza ci sarà sempre, e se uno è tanto idiota da non rispettarlo, non ci sono complotti politici o assurdità burocratiche che lo giustifichino. Per questa ragione la situazione della lista del Pdl nella provincia di Roma è più complessa, direi quasi irrecuperabile. Ha a che fare invece con la legge, e con quanto i radicali hanno sempre, da anni, denunciato (la sua inapplicabilità e, dunque, l'illegalità della raccolta delle firme), la situazione in Lombardia. Ma lì le irregolarità appaiono "tecniche" e quindi - ma lo sapremo con certezza solo nelle prossime ore - più superabili.
In particolare i radicali, se si aspettano di uscire da questa vicenda come i vincitori, quelli che avevano ragione loro e lo avevano sempre detto, rischiano di rimanere delusi. Posto che quanto accaduto a Roma non ha nulla a che fare con la loro storica battaglia di legalità sulla raccolta delle firme, come mai a seguito delle loro denunce è stato "pizzicato" solo Formigoni in Lombardia? Delle tre l'una: o perché non è vero, come dicono, che hanno presentato denunce nelle altre regioni; o perché Formigoni è stato l'unico caso in cui ci sono state irregolarità, mentre altrove tutti sono riusciti a presentare regolarmente le proprie liste; o perché la Corte d'Appello di Milano ha avuto uno strano occhio di riguardo nei confronti del governatore lombardo, che altre Corti d'Appello, per esempio in Toscana o in Emilia Romagna, non hanno avuto.
In tutte e tre le ipotesi emerge che non siamo affatto in presenza di una illegalità tanto generalizzata e sistematica da gridare a elezioni non democratiche e alla mancanza di stato di diritto, come da anni denunciano i radicali. Al massimo un caso, seppure clamoroso perché riguarda uno schieramento che mobilita in Lombardia circa il 60% del consenso, ma pur sempre un solo caso. Se fosse vera la terza ipotesi, inoltre, la loro battaglia di legalità si trasformerebbe nello strumento dell'arbitrarietà dei tribunali, nel migliore dei casi, se non della solita persecuzione giudiziaria ad opera dei magistrati milanesi.
Se poi dovessero essere accolti i ricorsi del centrodestra in Lombardia, i radicali dovrebbero ammettere di avere da sempre sbagliato con la loro interpretazione letterale della legge, di aver rinunciato per formalità giudicate irrilevanti a presentare le loro liste in svariate tornate elettorali e di aver speso inutilmente i loro soldi in tutti questi anni. Non solo. Se adesso il Pdl è indubbiamente in difficoltà e tramortito, nel caso in cui i "listini" di Formigoni e Polverini vengano riammessi, potrà efficacemente gridare al "sabotaggio", accusando gli avversari politici di aver giocato "sporco", di aver tentato di "vincere facile", di escluderlo dalla competizione sulla base di presunte irregolarità che si sarebbero poi dimostrate meri cavilli procedurali.
Il danno d'immagine recato al Pdl dai suoi stessi delegati per la mancata presentazione della lista nella provincia di Roma rimane, ma a quel punto, dimostrata la pretestuosità della denuncia contro il "listino" di Formigoni, i pronunciamenti di riammissione diventerebbero un 'boomerang' per i radicali e il centrosinistra, che certo non uscirebbero da questa vicenda come campioni di democrazia e legalità agli occhi dei cittadini.
Radicali e centrosinistra dovrebbero aspettare prima di cantare vittoria. Innanzitutto, i problemi di Roma e Milano sono molto diversi tra di loro. Come ho già scritto, a Roma sono stati determinanti il dilettantismo e la stupidità dei dirigenti locali del Pdl, mentre i radicali e la farraginosità della legge hanno giocato solo il ruolo delle comparse nella vicenda. E' ovvio infatti che per quanto le regole per la presentazione e l'ammissione delle liste di candidati possano essere semplici e chiare, le migliori possibili, un termine di scadenza ci sarà sempre, e se uno è tanto idiota da non rispettarlo, non ci sono complotti politici o assurdità burocratiche che lo giustifichino. Per questa ragione la situazione della lista del Pdl nella provincia di Roma è più complessa, direi quasi irrecuperabile. Ha a che fare invece con la legge, e con quanto i radicali hanno sempre, da anni, denunciato (la sua inapplicabilità e, dunque, l'illegalità della raccolta delle firme), la situazione in Lombardia. Ma lì le irregolarità appaiono "tecniche" e quindi - ma lo sapremo con certezza solo nelle prossime ore - più superabili.
In particolare i radicali, se si aspettano di uscire da questa vicenda come i vincitori, quelli che avevano ragione loro e lo avevano sempre detto, rischiano di rimanere delusi. Posto che quanto accaduto a Roma non ha nulla a che fare con la loro storica battaglia di legalità sulla raccolta delle firme, come mai a seguito delle loro denunce è stato "pizzicato" solo Formigoni in Lombardia? Delle tre l'una: o perché non è vero, come dicono, che hanno presentato denunce nelle altre regioni; o perché Formigoni è stato l'unico caso in cui ci sono state irregolarità, mentre altrove tutti sono riusciti a presentare regolarmente le proprie liste; o perché la Corte d'Appello di Milano ha avuto uno strano occhio di riguardo nei confronti del governatore lombardo, che altre Corti d'Appello, per esempio in Toscana o in Emilia Romagna, non hanno avuto.
In tutte e tre le ipotesi emerge che non siamo affatto in presenza di una illegalità tanto generalizzata e sistematica da gridare a elezioni non democratiche e alla mancanza di stato di diritto, come da anni denunciano i radicali. Al massimo un caso, seppure clamoroso perché riguarda uno schieramento che mobilita in Lombardia circa il 60% del consenso, ma pur sempre un solo caso. Se fosse vera la terza ipotesi, inoltre, la loro battaglia di legalità si trasformerebbe nello strumento dell'arbitrarietà dei tribunali, nel migliore dei casi, se non della solita persecuzione giudiziaria ad opera dei magistrati milanesi.
Se poi dovessero essere accolti i ricorsi del centrodestra in Lombardia, i radicali dovrebbero ammettere di avere da sempre sbagliato con la loro interpretazione letterale della legge, di aver rinunciato per formalità giudicate irrilevanti a presentare le loro liste in svariate tornate elettorali e di aver speso inutilmente i loro soldi in tutti questi anni. Non solo. Se adesso il Pdl è indubbiamente in difficoltà e tramortito, nel caso in cui i "listini" di Formigoni e Polverini vengano riammessi, potrà efficacemente gridare al "sabotaggio", accusando gli avversari politici di aver giocato "sporco", di aver tentato di "vincere facile", di escluderlo dalla competizione sulla base di presunte irregolarità che si sarebbero poi dimostrate meri cavilli procedurali.
Il danno d'immagine recato al Pdl dai suoi stessi delegati per la mancata presentazione della lista nella provincia di Roma rimane, ma a quel punto, dimostrata la pretestuosità della denuncia contro il "listino" di Formigoni, i pronunciamenti di riammissione diventerebbero un 'boomerang' per i radicali e il centrosinistra, che certo non uscirebbero da questa vicenda come campioni di democrazia e legalità agli occhi dei cittadini.
Thursday, December 11, 2008
Ecco perché Alitalia doveva restare italiana
Ecco perché la proprietà della compagnia di bandierina doveva rimanere italiana. Per garantire ai politici, soprattutto di regioni ed enti locali, di continuare a influenzarne le scelte in funzione delle loro clientele. Così ecco l'ultimo, inutile, braccio di ferro tra Formigoni e Alemanno, tutto in casa PdL. «Malpensa sarà l'aeroporto di riferimento e privilegiato per Cai», annuncia tronfio il governatore della Lombardia. «Ipotesi inaccettabile e infondata», la replica di Alemanno, a cui invece consiglierei di rispondere alla romana: "Ma che ce frega, ma che ce 'mporta".
La Nuova Alitalia sarà per forza di cose una compagnia molto più piccola della vecchia Alitalia e che Fiumicino resti deserto è un'ipotesi che può far solo sorridere chiunque sia dotato di un minimo di buon senso. Se non ci sarà Cai, le compagnie di tutto il mondo faranno a pugni per esserci. Stiamo parlando del principale scalo di Roma, con una posizione invidiabile, al centro dell'Italia e del Mediterraneo. Alemanno si rilassi.
La Nuova Alitalia sarà per forza di cose una compagnia molto più piccola della vecchia Alitalia e che Fiumicino resti deserto è un'ipotesi che può far solo sorridere chiunque sia dotato di un minimo di buon senso. Se non ci sarà Cai, le compagnie di tutto il mondo faranno a pugni per esserci. Stiamo parlando del principale scalo di Roma, con una posizione invidiabile, al centro dell'Italia e del Mediterraneo. Alemanno si rilassi.
Thursday, July 17, 2008
Tagli alla spesa, ricomincia il piagnisteo bipartisan
Ciò che più mi allarma di Tremonti, come ho scritto qualche giorno fa, è la sua tendenza a guardare oltre confine, quasi che sul fronte interno ci sia poco da fare, oltre a rispettare i vincoli di bilancio, e che sul fronte esterno, nella lotta contro la "speculazione", si decida il nostro futuro economico. La crisi internazionale è seria e figurarsi se voglio negare il carattere interdipendente dell'economia globalizzata. Tuttavia, l'Italia, per la sua arretratezza, ha molti margini di miglioramento, persino in una situazione di crisi. Faremmo bene quindi a guardare più al nostro interno che ai massimi sistemi. Il nostro "male", prim'ancora che nella speculazione, è nello Stato. Mentre Tremonti sembra rassegnato al fatto che tutto si giochi fuori dall'Italia, a me pare che la partita più importante si giochi dentro.
Dovremmo smetterla però con un vecchio vizio che vedo riaffiorare sia nell'opposizione che nella maggioranza. Ci riempiamo tutti la bocca della necessità di tagliare la spesa. Poi, quando da qualche parte si comincia, ci stracciamo le vesti. Gli operatori del settore protestano e i leader dell'opposizione, Veltroni in testa, irresponsabilmente si accodano. Sulla sanità e sulla sicurezza hanno torto Formigoni e i sindacati di polizia. Ma chi l'ha detto che per migliorare un servizio servono più soldi? Che non si possa persino migliorare diminuendo i costi? E che ai tagli alle voci di spesa debbano per forza corrispondere meno servizi per i cittadini?
Proprio riguardo la sanità e la sicurezza tutti i dati - numero di addetti e bilanci - parlano chiaro: spendiamo di più, ma peggio, di molti Paesi europei. Più spesa uguale più servizi e servizi migliori, è questa la scriteriata logica che ha trainato verso l'alto la spesa pubblica e gonfiato il debito nel nostro Paese. Il compito dei ministri - e dei governatori - non è chiedere più soldi (troppo facile!), ma far funzionare la macchina con il minimo della spesa. La sfida è utilizzare in modo più efficiente le risorse che si hanno. C'è qualcuno che ai livelli di spesa in cui siamo ha forse il coraggio di sostenere che non ci siano i margini? Ricordo che in un suo articolo Ricolfi aveva addirittura parlato di 80 miliardi l'anno di sprechi. Nella sanità la "responsabilizzazione del singolo cittadino-paziente", come scrive Mingardi, per esempio rimborsando i cittadini anziché le strutture convenzionate, sarebbe elementare buon senso.
Dovremmo smetterla però con un vecchio vizio che vedo riaffiorare sia nell'opposizione che nella maggioranza. Ci riempiamo tutti la bocca della necessità di tagliare la spesa. Poi, quando da qualche parte si comincia, ci stracciamo le vesti. Gli operatori del settore protestano e i leader dell'opposizione, Veltroni in testa, irresponsabilmente si accodano. Sulla sanità e sulla sicurezza hanno torto Formigoni e i sindacati di polizia. Ma chi l'ha detto che per migliorare un servizio servono più soldi? Che non si possa persino migliorare diminuendo i costi? E che ai tagli alle voci di spesa debbano per forza corrispondere meno servizi per i cittadini?
Proprio riguardo la sanità e la sicurezza tutti i dati - numero di addetti e bilanci - parlano chiaro: spendiamo di più, ma peggio, di molti Paesi europei. Più spesa uguale più servizi e servizi migliori, è questa la scriteriata logica che ha trainato verso l'alto la spesa pubblica e gonfiato il debito nel nostro Paese. Il compito dei ministri - e dei governatori - non è chiedere più soldi (troppo facile!), ma far funzionare la macchina con il minimo della spesa. La sfida è utilizzare in modo più efficiente le risorse che si hanno. C'è qualcuno che ai livelli di spesa in cui siamo ha forse il coraggio di sostenere che non ci siano i margini? Ricordo che in un suo articolo Ricolfi aveva addirittura parlato di 80 miliardi l'anno di sprechi. Nella sanità la "responsabilizzazione del singolo cittadino-paziente", come scrive Mingardi, per esempio rimborsando i cittadini anziché le strutture convenzionate, sarebbe elementare buon senso.
Friday, May 30, 2008
I vantaggi del "buono scuola"
Sensate le parole del governatore della Lombardia Roberto Formigoni, chiamato a commentare le parole del Papa, che ieri ha chiesto l'aiuto dello Stato per le scuole cattoliche. Guai a cadere nell'errore del finanziamento diretto, perché oltre a violare il principio di laicità, secondo cui lo Stato non dovrebbe finanziare i culti, non sarebbe nemmeno utile a migliorare la qualità di un servizio fondamentale come quello dell'istruzione.
Secondo Formigoni, «i finanziamenti dovrebbero premiare le scuole libere, non solo quelle cattoliche». E andrebbero premiate «le scuole che danno un'offerta educativa di qualità», «introducendo il principio di concorrenza». Ricorrendo, quindi, al meccanismo del «buono scuola», che in Lombardia è già stato sperimentato.
Se i soldi del finanziamento passano per le mani dei cittadini, che possono decidere dove investirli, se in una scuola pubblica, in una privata, o nei libri di testo, questi sceglieranno in base al prestigio di cui godono gli istituti per fornire ai figli l'istruzione che ritengono migliore.
Secondo Formigoni, «i finanziamenti dovrebbero premiare le scuole libere, non solo quelle cattoliche». E andrebbero premiate «le scuole che danno un'offerta educativa di qualità», «introducendo il principio di concorrenza». Ricorrendo, quindi, al meccanismo del «buono scuola», che in Lombardia è già stato sperimentato.
Se i soldi del finanziamento passano per le mani dei cittadini, che possono decidere dove investirli, se in una scuola pubblica, in una privata, o nei libri di testo, questi sceglieranno in base al prestigio di cui godono gli istituti per fornire ai figli l'istruzione che ritengono migliore.
Saturday, December 29, 2007
I poco credibili difensori di Malpensa
Gli effetti negativi della vendita di Alitalia ad Air France su Malpensa non c'entrano nulla con la questione settentrionale e con le politiche punitive che questo governo ha sì attuato nei confronti dei ceti produttivi e, quindi, in gran parte nei confronti del Nord Italia.Malpensa è uno scalo aeroportuale di proprietà del Comune di Milano sul quale ogni compagnia aerea può (e dovrebbe) decidere in piena autonomia se e quanto puntare, se e quanto investire, seguendo logiche commerciali. Finora Alitalia non ha potuto seguire quelle logiche, proprio per gli interessi e le pressioni della politica, non solo romana ma anche locale. Il Tesoro, azionista di maggioranza, ha dovuto tenere conto di tutte le istanze "politiche" nella gestione della compagnia di bandiera. Proprio queste palle al piede non hanno permesso ad Alitalia di essere gestita secondo logiche di mercato e l'hanno resa una compagnia da 400 milioni di euro di perdite l'anno. Coloro che oggi protestano per Malpensa sono parte del problema che ha portato Alitalia al fallimento.
E nel caso Malpensa abbiamo la migliore dimostrazione di quanto siano trasversali agli schieramenti i cosiddetti veto-player: veti corporativi, localistici, clientelari, posti da sindacati, partiti, enti locali di sinistra o di destra che sanno solo dire no e opporsi alle decisioni prese da Roma nell'interesse generale, come nel caso della Tav, o da un'azienda che per sopravvivere dovrebbe poter agire secondo logiche commerciali, come nel caso di Alitalia. Nel caso della Tav sono Verdi, comunisti, Disobbedienti e altre formazioni antagoniste, oltre ai sindaci della Val Susa. Oggi, nel caso di Malpensa, è Formigoni a guidare la protesta, gettando la maschera da liberale e mostrando le sua cultura democristiana. Protesta cavalcata anche da An e Lega, in compagnia dei sindacati. Eccolo qui il problema del nostro paese: per una volta che all'interno di un governo fallimentare prevale il "partito del mercato", è dall'opposizione di centrodestra che si leva la bandiera dell'italianità, strumentale a nascondere la voglia di partiti e sindacati di avere ancora le mani in pasta in Alitalia.
D'altra parte, come si spiega il no a Ryanair, che si è offerta di coprire in parte il parziale ritiro di Alitalia, per quanto riguarda le rotte internazionali a breve-medio raggio? Si vuole a tutti i costi mantenere una compagnia italiana a Malpensa, di proprietà dello Stato o delle banche, su cui poter esercitare la propria influenza politica e sindacale. Certo, passando ad Air France-Klm (primo vettore mondiale), quei partiti non potrebbero più tracciare rotte di loro comodo oppure sistemare "compagni" dirigenti.
Sono «senza senso» le proteste del «partito del Nord», spiega Andrea Giuricin, fellow dell'Istituto Bruno Leoni: «Alitalia ha scelto Roma Fiumicino nel suo piano industriale presentato in settembre. La stessa scelta viene ora portata avanti da Air France, probabile futuro acquirente della compagnia italiana. Sarà il mercato a dire se tale scelta industriale compiuta è giusta o meno... la realtà dura e cruda è solo una: Alitalia non è mai stata in grado di avere un doppio hub (Roma e Milano), se non con perdite di milioni di euro l'anno. Non deve essere lo Stato a salvare Malpensa, così come non doveva essere lo Stato a gestire Alitalia così male per così tanti anni».
Se Alitalia cederà gli slot su Malpensa, ciò non significa che non possano essere acquisiti da altre compagnie. Se non lo fossero, vuol dire che non c'è sufficiente traffico aereo e in quel caso autorità pubbliche e privati dovrebbero sforzarsi per attrarne. Il problema, quindi, è come sviluppare al meglio Malpensa, non più obbligando Alitalia a scelte autolesionistiche perché tanto pagano i contribuenti, ma puntando su una seria strategia commerciale. Il Comune di Milano, primo azionista della SEA Milano, «deve agire come un privato e cercare nuovi clienti». La domanda a questo punto è: saprà farlo?
«Se la domanda di traffico è reale, resterà tale, a prescindere da chi offrirà i voli», spiega anche Oscar Giannino, su Libero, rivolgendosi direttamente al presidente della Lombardia Formigoni. Il Nord, Malpensa, non sono stati traditi oggi, ma quando si «fece credere che, malgrado le perdite di Alitalia già evidenti, la compagnia avrebbe potuto senza problemi allestire una seconda propria base di armamento a Malpensa» e «in tutti gli anni successivi, fino a quando è apparso evidente anche ai più testoni, che ormai Alitalia era in condizioni puramente fallimentari, fuori dalle rotte internazionali, con il ricco traffico business del Nord sempre più aspirato da Monaco e Francoforte, con una flotta sempre più vecchia e velivoli che non valgono più nemmeno il prezzo della lega metallica con cui sono realizzati».
Sunday, December 23, 2007
Alitalia. Anche il centrodestra ha i suoi Pecoraro Scanio
La vera «sconfitta nazionale» di cui parla Bonanni, segretario della Cisl, è non aver ristrutturato Alitalia secondo logiche di mercato, e non averla rilanciata privatizzandola, a suo tempo, quando forse era ancora possibile, come parecchie compagnie di "bandiera" europee, compresa Air France, hanno fatto. Prima di scandalizzarsi delle offerte non certo esaltanti giunte da quelli che in definitiva sono suoi competitori, occorre ricordare a caratteri cubitali che con 400 milioni di euro di perdite l'anno Alitalia è da considerarsi una società fallita (ripeto: fallita). Quanto vale una società che produce 400 milioni di euro di debito l'anno? Non credo molto.Inutili dunque le pretestuose accuse che si levano da esponenti e giornali di centrodestra: sì, Prodi sta liquidando Alitalia. Qualcuno lo farà comunque, prima o poi, perché altro non si può fare. Sì, Air France-Klm-Alitalia faranno di Malpensa l'uso che a loro più conviene dal punto di vista commerciale. E a noi non risulta che altri paesi europei mantengano due hub delle dimensioni attuali di Malpensa e Fiumicino. E intanto ci manca un vero e proprio hub di dimensioni adeguate alle esigenze e all'importanza del nostro paese.
Ma alle molte voci demagogiche che si sono alzate in queste ore e che continueranno ad alzarsi, il consiglio d'amministrazione della compagnia ha risposto con una decisione responsabile, motivata in un «documento» oggi apprezzato, sul Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi: contiene «argomentazioni di buon senso», un «confronto preciso fra le due offerte» e «analisi industriali e finanziarie» fondate sui «pareri tecnici degli advisor della società». Pensiamo davvero che una compagnia solo italiana, seppure privatizzata, possa sostenere la concorrenza di grandi gruppi a livello europeo? E pensiamo che potrebbe farlo sostenendosi quasi unicamente sul flusso di voli da e per l'Italia?
Eppure, dopo un anno di tentennamenti, in cui tutte le questioni sul tavolo sono state analizzate e vivisezionate, il Governo si è preso altre due settimane per decidere. Due settimane che sembrano incoraggiare gli oppositori dell'opzione franco-olandese. Come dire: "Chi vuol esercitare pressioni, lo faccia ora e sarà ascoltato, o mai più".
E quello che Giavazzi ha definito «il partito del Nord» non ha tardato a farsi sentire. Un coro straordinariamente compatto di voci. Ci sono sindacati, banchieri, politici di maggioranza e di opposizione, sindaci, presidenti di regione, il presidente di Confindustria.
Da una parte la difesa della corporazione di steward e piloti; dall'altra, interessi localistici e il mito dell'"italianità". Solo all'interno della squadra di governo, il ministro per i Trasporti, il comunista Bianchi («La partita non è ancora chiusa»), e il ministro della Cultura, Francesco Rutelli («Partita aperta»).
Ma a mostrare il loro vero volto sono le componenti corporative e anti-mercato del centrodestra, che tanta responsabilità hanno se la privatizzazione non si è fatta nella scorsa legislatura e se, oltre ad aver perso negli ultimi anni centinaia di milioni di euro l'anno, ora quella di Alitalia è una svendita.
La Lega Nord, ovviamente: «È in atto un attacco organizzato nei confronti del Nord, colpevole non solo di mantenere tutti ma anche di voler avere un ruolo nelle politiche decisionali del Paese», ha proclamato Calderoli, minacciando persino blocchi autostradali, come No-Tav e Disobbedienti; e An: una scelta che «rischia di penalizzare in modo grave personale e scali aeroportuali», ha avvertito Gasparri.
Ma anche il presidente della Lombardia Formigoni, al quale addirittura quella del CdA Alitalia sembra una «scelta folle, concepibile solo da una compagnia come Air France, che ha interesse strategico a sviluppare i propri hub di Parigi e Amsterdam avendo poi una piccola propaggine al sud, a Roma, e togliendo di mezzo il proprio concorrente più importante, che è Malpensa. Che Air France persegua questo interesse è comprensibile ma che Alitalia si metta in mano al proprio nemico storico autolimitandosi a diventare una compagnia regionale e al massimo che serve metà del paese, il centro sud d'Italia, questo appare inaccettabile». Ma oggi Alitalia è ancor meno della compagnia regionale che Formigoni teme possa diventare.
Anche il centrodestra ha i suoi No-Tav, i suoi veto-player, i suoi Pecoraro Scanio. Ci auguriamo che Berlusconi non voglia più subire il prezzo dell'inazione dovuto alla loro linea e che vada dritto per la strada di un partito a «vocazione maggioritaria».
Thursday, November 08, 2007
Tagliare le tasse si può
Tagliare le tasse si può. Lo ha fatto Roberto Formigoni, alla guida della Lombardia: azzeramento dell'addizionale Irpef regionale sino ai 15mila e 500 euro di reddito annuale, che riguarderà oltre 4 milioni di contribuenti, e lo sgravio conseguente un altro milione e mezzo che supera tale tetto; azzeramento del ticket regionale sanitario di 10 euro e dell'imposta sul metano. In tutto, si calcolano minori esborsi per i cittadini lombardi pari a 400 milioni di euro.
Applausi pochi, per la verità, anche da quella che dovrebbe essere la sua coalizione di appartenenza a livello nazionale, la CdL, ma almeno quello di Oscar Giannino, oggi su Libero.
Applausi pochi, per la verità, anche da quella che dovrebbe essere la sua coalizione di appartenenza a livello nazionale, la CdL, ma almeno quello di Oscar Giannino, oggi su Libero.
«Com'è evidente, la vera battaglia per l'abbattimento fiscale su persone fisiche e imprese - volto a una maggior crescita dell'economia, a far emergere gettito non solo da più alta crescita ma dalla maggior convenienza a rispettare aliquote più "umane", e infine a spiazzarci di meno nella comparazione internazionale che vede più alti investimenti concentrarsi laddove più basso è il disincentivo fiscale - va combattuta a livello centrale. È lì che si concentra l'Idra, con il suo esercito di privilegiati da una spesa pubblica superiore al 50% del Pil, ed è lì che va sconfitta. Ma il buon esempio e la rottura possono anche venire dal basso, come dimostra la Lombardia».
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