Da una parte vi e ci sta bene! Volevate il trasporto pubblico? Non avete alcun trasporto. Volevate l'acqua pubblica?? Manca anche l'acqua. E' un diritto, dicevate, ma siccome l'avete voluta pubblica e a gestirla sono quindi i politici, oggi è un po' meno diritto... rischia di diventare un diritto vuoto, prosciugato, come molti altri diritti fasulli in Italia.
Stanno per chiudere l'acqua a Roma, in Italia abbiamo acquedotti così fatiscenti e bucati che se ne disperde in media il 50%, ma il presidente della Regione Lazio Zingaretti non trova di meglio che prendersela con Trump per l'uscita degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima... Lo scaricabarile arriva fino alla Casa Bianca, fino a che punto ci facciamo prendere per il culo?
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Saturday, July 22, 2017
Friday, November 09, 2012
Fondo Giavazzi? Più che una goccia, una lacrima
Renato Brunetta è tornato a confermarlo anche ieri: nella legge di stabilità, all'esame della Camera, ci sarà spazio per un "fondo Giavazzi" – la cui formula lo stesso ex ministro ammette essere «un po' vaga» – in cui far confluire le risorse provenienti dal riordino del sistema dei sussidi pubblici alle imprese (una spesa totale di 33 miliardi annui) per finanziare un credito d'imposta per ricerca e innovazione e la riduzione dell'Irap, secondo lo schema suggerito dal professore bocconiano.
Passi il fatto che il rapporto Giavazzi non contemplava l'ennesimo credito d'imposta (semmai si limitava a "salvare" dai tagli suggeriti le agevolazioni fiscali sulle spese per ricerca e sviluppo), della proposta originaria sembra essere rimasto solo il nome del suo autore, il quale a questo punto dovrebbe dire la sua. Il rapporto che il governo stesso gli ha commissionato, infatti, si è perso per quasi sei mesi nelle stanze dei ministeri per riemergere, infine, completamente svuotato. I 10 miliardi di risparmi ipotizzati, passati al vaglio dei "tecnici" dei ministeri, sono diventati prima 3, poi 500 milioni, secondo quanto riporta Alessandro Barbera su La Stampa: un ventesimo (l'1,5% della spesa totale).
(...)
Un po' poco perché si possa ritenere credibile lo sforzo compiuto e perché si possa parlare di una vera “spending review”, che per definizione di chi l'ha inventata dovrebbe portare a rigiustificare da zero euro ogni singolo programma di spesa. E qui si tratta di mille minuscoli rivoli, alcuni tra l'altro con denominazioni talmente oscure e incomprensibili da legittimare il sospetto che chi li gestisce, nei ministeri, abbia interesse a non condividere lealmente le informazioni e a lasciare tutto com'è.
I “poteri forti” che si oppongono, evidentemente con successo, ad ogni taglio ai cosiddetti «contributi alle imprese» si possono distinguere in tre diverse categorie. Ci sono i grandi gruppi pubblici, che grazie ai trasferimenti statali si garantiscono una posizione di monopolio, o comunque di forza, nei loro rispettivi mercati. Le aziende municipalizzate, quindi gli enti locali, e le Regioni, che attraverso l'elargizione dei fondi, in forme più o meno velate, più o meno spudorate, controllano il consenso sul territorio. E infine, a livello centrale e apicale della pubblica amministrazione, i vertici dei ministeri, dove il gioco si fa più sottile e inafferrabile. E' enorme, infatti, nei decenni, accelerata dal rapido susseguirsi dei governi, la stratificazione di fondi e crediti d'imposta di cui i politici non possono avere memoria ma certo la conservano gli apparati burocratici, che li conoscono e, di fatto, li gestiscono. Il rischio è che questa miriade di minuscoli fondi, dalla denominazione incomprensibile e dagli scopi ancor più ambigui, vengano utilizzati con estrema discrezionalità, e spesso come strumenti di autopromozione presso i politici e dei ministri di turno, dagli alti e inamovibili burocrati dei ministeri. Gli stessi guarda caso chiamati a verificare la fattibilità di un rapporto che propone di tagliarli. E che con un'opacità più che sospetta, una padronanza della materia un po' “sacerdotale”, ci spiegano che servono, anche se non a cosa, e che si possono tagliare solo 500 milioni.
Possibile che il professor Giavazzi e il suo team siano stati così imprecisi nella stima dei fondi da tagliare? Sarà questa la dotazione del fondo dei "volenterosi" Brunetta e Baretta? E dei 6,7 miliardi liberati dalla rinuncia alla riduzione dell'Irpef (1 miliardo nel 2013, 3,2 nel 2014 e altri 2,5 nel 2015), cosa rimane per il taglio dell'Irap se nei primi due anni se ne spendono 2 per lavoro e famiglia, come previsto dall'accordo tra i relatori, e se restano da finanziare la salvaguardia di altri "esodati", minori tagli ai Comuni, alla scuola e al comparto sicurezza, e altre misure «per il sociale»? Resta una goccia, o piuttosto una lacrima. Nominare "Giavazzi" un fondo così finanziato e concepito sarebbe solo un modo per confondere le acque. Far credere che si è agito laddove non si è mosso un dito è il miglior modo per difendere lo status quo.
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Passi il fatto che il rapporto Giavazzi non contemplava l'ennesimo credito d'imposta (semmai si limitava a "salvare" dai tagli suggeriti le agevolazioni fiscali sulle spese per ricerca e sviluppo), della proposta originaria sembra essere rimasto solo il nome del suo autore, il quale a questo punto dovrebbe dire la sua. Il rapporto che il governo stesso gli ha commissionato, infatti, si è perso per quasi sei mesi nelle stanze dei ministeri per riemergere, infine, completamente svuotato. I 10 miliardi di risparmi ipotizzati, passati al vaglio dei "tecnici" dei ministeri, sono diventati prima 3, poi 500 milioni, secondo quanto riporta Alessandro Barbera su La Stampa: un ventesimo (l'1,5% della spesa totale).
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Un po' poco perché si possa ritenere credibile lo sforzo compiuto e perché si possa parlare di una vera “spending review”, che per definizione di chi l'ha inventata dovrebbe portare a rigiustificare da zero euro ogni singolo programma di spesa. E qui si tratta di mille minuscoli rivoli, alcuni tra l'altro con denominazioni talmente oscure e incomprensibili da legittimare il sospetto che chi li gestisce, nei ministeri, abbia interesse a non condividere lealmente le informazioni e a lasciare tutto com'è.
I “poteri forti” che si oppongono, evidentemente con successo, ad ogni taglio ai cosiddetti «contributi alle imprese» si possono distinguere in tre diverse categorie. Ci sono i grandi gruppi pubblici, che grazie ai trasferimenti statali si garantiscono una posizione di monopolio, o comunque di forza, nei loro rispettivi mercati. Le aziende municipalizzate, quindi gli enti locali, e le Regioni, che attraverso l'elargizione dei fondi, in forme più o meno velate, più o meno spudorate, controllano il consenso sul territorio. E infine, a livello centrale e apicale della pubblica amministrazione, i vertici dei ministeri, dove il gioco si fa più sottile e inafferrabile. E' enorme, infatti, nei decenni, accelerata dal rapido susseguirsi dei governi, la stratificazione di fondi e crediti d'imposta di cui i politici non possono avere memoria ma certo la conservano gli apparati burocratici, che li conoscono e, di fatto, li gestiscono. Il rischio è che questa miriade di minuscoli fondi, dalla denominazione incomprensibile e dagli scopi ancor più ambigui, vengano utilizzati con estrema discrezionalità, e spesso come strumenti di autopromozione presso i politici e dei ministri di turno, dagli alti e inamovibili burocrati dei ministeri. Gli stessi guarda caso chiamati a verificare la fattibilità di un rapporto che propone di tagliarli. E che con un'opacità più che sospetta, una padronanza della materia un po' “sacerdotale”, ci spiegano che servono, anche se non a cosa, e che si possono tagliare solo 500 milioni.
Possibile che il professor Giavazzi e il suo team siano stati così imprecisi nella stima dei fondi da tagliare? Sarà questa la dotazione del fondo dei "volenterosi" Brunetta e Baretta? E dei 6,7 miliardi liberati dalla rinuncia alla riduzione dell'Irpef (1 miliardo nel 2013, 3,2 nel 2014 e altri 2,5 nel 2015), cosa rimane per il taglio dell'Irap se nei primi due anni se ne spendono 2 per lavoro e famiglia, come previsto dall'accordo tra i relatori, e se restano da finanziare la salvaguardia di altri "esodati", minori tagli ai Comuni, alla scuola e al comparto sicurezza, e altre misure «per il sociale»? Resta una goccia, o piuttosto una lacrima. Nominare "Giavazzi" un fondo così finanziato e concepito sarebbe solo un modo per confondere le acque. Far credere che si è agito laddove non si è mosso un dito è il miglior modo per difendere lo status quo.
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Thursday, October 11, 2012
Legge di stabilità "politica": così Monti ribadisce di essere in campo
In modo del tutto inatteso il premier Mario Monti ha tirato fuori dal cilindro della legge di stabilità un mini-taglio delle prime due aliquote Irpef, che passano dal 23 al 22% e dal 27 al 26%. Ma il taglio delle tasse non è che un abile illusionismo, degno di un governo politico alla ricerca di consenso in piena campagna elettorale. La riduzione Irpef dal 2013, infatti, è più che compensata sia dall'aumento di un punto dell'Iva, dal 10 all'11% e dal 21 al 22%, dal prossimo luglio, che dal "riordino" delle agevolazioni fiscali e dall'introduzione dell'Irpef anche sulle pensioni di guerra e d'invalidità. Per non parlare della Tobin Tax, che se entrerà davvero in vigore non colpirà certo i grandi speculatori internazionali, quanto i normali risparmiatori.
Se tutto in Cdm fosse andato come da pronostici della vigilia, ieri mattina ci saremmo svegliati ascoltando dai giornali-radio la notizia che i temuti aumenti dell'Iva erano stati scongiurati. Invece, la notizia è stata: il governo taglia l'Irpef per i redditi più bassi. Se nella sostanza la pressione fiscale resterà invariata, e semmai rischia di salire ancora, la sensazione trasmessa all'opinione pubblica, attraverso la gran cassa mediatica di stampa e tv compiacenti, è che si è iniziato un percorso di riduzione delle tasse. Il che magari è anche nelle intenzioni del premier e del suo governo, ma ad oggi, alla vigilia del voto, non lo è nei fatti. Non l'Irpef, inoltre, ma l'elevatissimo costo del lavoro, il cuneo fiscale, impedirà la crescita anche per tutto il 2013, secondo tutte le più autorevoli organizzazioni internazionali, dall'Ocse al Fmi.
Il prestigiatore Monti però ha voluto lanciare lo stesso un chiaro messaggio: la sua "agenda" sta funzionando. E con orecchio attento ai malumori del ceto medio, ha voluto far capire di essere sempre più "in campo" per un bis a Palazzo Chigi. È stato lui stesso, in conferenza stampa, a decifrare il messaggio: «La disciplina di bilancio paga, conviene... abbiamo voluto dare il chiaro segnale che quando ci sono segni di stabilizzazione finanziaria ci si può permettere qualche sollievo». E il segnale sta, appunto, nell'«inizio della riduzione Irpef», nella speranza, ha aggiunto, che gli italiani vedano che la rotta «ha senso», che può portare a «benefici concreti». Una finanziaria elettorale, la si sarebbe definita in altri tempi, anche se bisogna riconoscere al professore di non aver agito con la stessa rozzezza dei governi passati.
Nel suo complesso la manovra, da 11,6 miliardi, appare più calibrata sui tagli alla spesa rispetto ai precedenti interventi del governo Monti, ma purtroppo ancora troppi risparmi appaiono destinati a nuove spese di dubbia utilità. E come al solito, quei pochi tagli che ci sono bisognerà difenderli dagli urlatori di professione e dai demagoghi della "macelleria sociale".
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Se tutto in Cdm fosse andato come da pronostici della vigilia, ieri mattina ci saremmo svegliati ascoltando dai giornali-radio la notizia che i temuti aumenti dell'Iva erano stati scongiurati. Invece, la notizia è stata: il governo taglia l'Irpef per i redditi più bassi. Se nella sostanza la pressione fiscale resterà invariata, e semmai rischia di salire ancora, la sensazione trasmessa all'opinione pubblica, attraverso la gran cassa mediatica di stampa e tv compiacenti, è che si è iniziato un percorso di riduzione delle tasse. Il che magari è anche nelle intenzioni del premier e del suo governo, ma ad oggi, alla vigilia del voto, non lo è nei fatti. Non l'Irpef, inoltre, ma l'elevatissimo costo del lavoro, il cuneo fiscale, impedirà la crescita anche per tutto il 2013, secondo tutte le più autorevoli organizzazioni internazionali, dall'Ocse al Fmi.
Il prestigiatore Monti però ha voluto lanciare lo stesso un chiaro messaggio: la sua "agenda" sta funzionando. E con orecchio attento ai malumori del ceto medio, ha voluto far capire di essere sempre più "in campo" per un bis a Palazzo Chigi. È stato lui stesso, in conferenza stampa, a decifrare il messaggio: «La disciplina di bilancio paga, conviene... abbiamo voluto dare il chiaro segnale che quando ci sono segni di stabilizzazione finanziaria ci si può permettere qualche sollievo». E il segnale sta, appunto, nell'«inizio della riduzione Irpef», nella speranza, ha aggiunto, che gli italiani vedano che la rotta «ha senso», che può portare a «benefici concreti». Una finanziaria elettorale, la si sarebbe definita in altri tempi, anche se bisogna riconoscere al professore di non aver agito con la stessa rozzezza dei governi passati.
Nel suo complesso la manovra, da 11,6 miliardi, appare più calibrata sui tagli alla spesa rispetto ai precedenti interventi del governo Monti, ma purtroppo ancora troppi risparmi appaiono destinati a nuove spese di dubbia utilità. E come al solito, quei pochi tagli che ci sono bisognerà difenderli dagli urlatori di professione e dai demagoghi della "macelleria sociale".
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Monday, September 24, 2012
Prendi i soldi e... dimettiti!
Dite quello che volete, ma più passano i giorni e più abbiamo la conferma che il problema non è come i consiglieri Pdl hanno speso i fondi del loro gruppo. Quei soldi non dovevano proprio essere presi, né dal Pdl, né dagli altri gruppi, mentre invece se li sono presi all'unanimità, tutti i gruppi. Le dimissioni annunciate dei consiglieri Pd-Idv sono il massimo dell'ipocrisia e della viltà, suonano come un "prendi-i-soldi-e-scappa". Da un lato champagne e maschere da maiale, ma si può sapere come hanno speso i nostri soldi Pd, Idv, Sel e tutti gli altri? E perché non li restituiscono prima di andarsene?
Il concetto è ben espresso da Emma Bonino, in un'intervista a la Repubblica:
Come anche qui ho cercato di spiegare, la questione è di etica pubblica, non di costume, o di "estetica" e gusti privati. Riguarda tutti, non solo il Lazio e non solo il Pdl. Soddisfa gli istinti più demagogici inveire sul peccatore e sul suo squallido spaccato, ma non porsi la domanda di come debellare, o almeno frenare, il peccato. Non è una differenza meramente concettuale. Nel primo caso si tende a individuare la soluzione nei controlli (quindi più spesa e più burocrazia), mentre i rimedi sono altri: abolire i finanziamenti pubblici ai partiti, in qualsiasi forma, e livellare gli stipendi degli eletti al pil pro capite degli elettori.
E responsabilizzare le autonomie, in modo che ogni euro che spendono hanno anche la responsabilità di andarselo a trovare e di farselo consegnare. Come scrive Luca Ricolfi, su La Stampa:
Il concetto è ben espresso da Emma Bonino, in un'intervista a la Repubblica:
«Non dubito che con quei soldi il Pd non abbia fatto festini, magari avrà fatto concerti di musica classica. Tuttavia, vede, non è una questione - come dire - di eleganza. Il nodo è che i soldi quando arrivano al gruppo vengono utilizzati come fossero di proprietà privata. Sono destinati alle esigenze dei consiglieri, ma non a quelle della comunità. Poi se queste esigenze sono di farsi una biblioteca, pubblicare opuscoli o di ingaggiare escort questo dipende dai gusti che, per definizione, sono personali. Dire "non potevamo darli indietro" è penoso. Potevano. Anzi: dovevano».
Come anche qui ho cercato di spiegare, la questione è di etica pubblica, non di costume, o di "estetica" e gusti privati. Riguarda tutti, non solo il Lazio e non solo il Pdl. Soddisfa gli istinti più demagogici inveire sul peccatore e sul suo squallido spaccato, ma non porsi la domanda di come debellare, o almeno frenare, il peccato. Non è una differenza meramente concettuale. Nel primo caso si tende a individuare la soluzione nei controlli (quindi più spesa e più burocrazia), mentre i rimedi sono altri: abolire i finanziamenti pubblici ai partiti, in qualsiasi forma, e livellare gli stipendi degli eletti al pil pro capite degli elettori.
E responsabilizzare le autonomie, in modo che ogni euro che spendono hanno anche la responsabilità di andarselo a trovare e di farselo consegnare. Come scrive Luca Ricolfi, su La Stampa:
«Se il federalismo è vero federalismo, non può piacere al ceto politico. E se piace al ceto politico, è perché non è vero federalismo».
Friday, September 21, 2012
Le vere lezioni della "sprecopoli" laziale
Anche su L'Opinione
Se non riusciamo a guardare tra le pieghe dello scandalo Lazio, oltre lo squallore delle scene che ci propinano per colpire il nostro immaginario e suscitare il nostro sdegno, continuerà a sfuggirci il vero bandolo della matassa, e dovremo assistere a nuove scene di questo tipo. Se è furba, la Polverini dovrebbe dimettersi, per cercare di passare da vittima e non complice del "sistema". Una furbata che gli permetterebbe di gettare fumo negli occhi di tanti cittadini, ma non di tutti: con una sanità in dissesto e le addizionali Irpef più alte d'Italia, è una colpa imperdonabile anche solo non essersi accorta, in due anni e mezzo, di quel che accadeva.
Lo sperpero del gruppo Pdl in Regione Lazio, così sensazionale e pacchiano, vero e proprio schiaffo non solo alla miseria ma anche alla classe media che suda per portare i soldi a casa, non deve però far dimenticare che sperperi di egual misura, sebbene meno appariscenti, avvengono con poche eccezioni in tutte le regioni: stipendi stellari, governatori che guadagnano il doppio del presidente Obama, vitalizi generosi, fondi ai gruppi. E poco importa, ai fini della contabilità generale, se questi soldi vengono scialacquati in ostriche e champagne, oppure in consulenze, corsi, e in noiosi convegni su improbabili argomenti, il cui scopo è comunque saziare le proprie clientele locali: l'hotel da cui si affitta la sala, l'azienda che fornisce il catering, quella che manda le hostess, gli autorevoli oratori. La vera vergogna non è come i soldi vengono spesi, ma il fatto stesso che vengano spesi, regalati ai partiti sostanzialmente per alimentare le proprie clientele. Inorridiamo pure, ma ricordiamocene al prossimo piagnisteo dei presidenti di regione per i tagli ai trasferimenti. Se ancora non hanno abolito vitalizi e spese varie, vuol dire che grasso da tagliare ancora ce n'è. Si può obiettare che preferiscono sacrificare i servizi piuttosto che i loro privilegi, ma se qualcosa si muove anche da quel punto di vista, e se quanto meno nessuno è più disposto a chiudere un occhio, è perché abbiamo appena cominciato ad affamare la bestia. Bisogna continuare.
Nel tritacarne mediatico è finito anche De Romanis per il suo «toga-party alla vaccinara». Una festa trash, ma tutto sommato innocente (non un "festino", termine che indica ben altre e più ristrette situazioni), e fino a prova contraria pagata coi suoi soldi, non con i fondi del gruppo Pdl, come si insinua tra le righe. Ma rappresenta comunque lo specchio del sistema: si celebra un'elezione in consiglio regionale come una mega-vincita al superenalotto, eppure non dovrebbe permettere a nessuno di sentirsi "sistemato" per la vita.
Può darsi, come sostiene Serra su Repubblica, che «Fiorito siamo noi», che sia un «normotipo popolare italiano». Ogni popolo ha i rappresentanti che si merita, c'è del vero. Dunque, Fiorito «prodotto della democrazia»? Forse sì, se ci riferiamo a quel particolare e sghembo tipo di democrazia rappresentativa (la «democrazia diretta» non c'entra davvero nulla) che abbiamo in Italia. A ben vedere però Fiorito è il prodotto non della democrazia, ma delle preferenze, che non garantiscono ai cittadini alcun potere di scelta, bensì ai candidati con le clientele più numerose di essere eletti, così come i listini servono a promuovere portaborse e funzionari di partito che nessuno conosce. Fiorito è uguale a quelli che hanno espresso la preferenza per lui, cioè ai suoi "clientes", una estrema minoranza degli elettori.
Se non riusciamo a guardare tra le pieghe dello scandalo Lazio, oltre lo squallore delle scene che ci propinano per colpire il nostro immaginario e suscitare il nostro sdegno, continuerà a sfuggirci il vero bandolo della matassa, e dovremo assistere a nuove scene di questo tipo. Se è furba, la Polverini dovrebbe dimettersi, per cercare di passare da vittima e non complice del "sistema". Una furbata che gli permetterebbe di gettare fumo negli occhi di tanti cittadini, ma non di tutti: con una sanità in dissesto e le addizionali Irpef più alte d'Italia, è una colpa imperdonabile anche solo non essersi accorta, in due anni e mezzo, di quel che accadeva.
Lo sperpero del gruppo Pdl in Regione Lazio, così sensazionale e pacchiano, vero e proprio schiaffo non solo alla miseria ma anche alla classe media che suda per portare i soldi a casa, non deve però far dimenticare che sperperi di egual misura, sebbene meno appariscenti, avvengono con poche eccezioni in tutte le regioni: stipendi stellari, governatori che guadagnano il doppio del presidente Obama, vitalizi generosi, fondi ai gruppi. E poco importa, ai fini della contabilità generale, se questi soldi vengono scialacquati in ostriche e champagne, oppure in consulenze, corsi, e in noiosi convegni su improbabili argomenti, il cui scopo è comunque saziare le proprie clientele locali: l'hotel da cui si affitta la sala, l'azienda che fornisce il catering, quella che manda le hostess, gli autorevoli oratori. La vera vergogna non è come i soldi vengono spesi, ma il fatto stesso che vengano spesi, regalati ai partiti sostanzialmente per alimentare le proprie clientele. Inorridiamo pure, ma ricordiamocene al prossimo piagnisteo dei presidenti di regione per i tagli ai trasferimenti. Se ancora non hanno abolito vitalizi e spese varie, vuol dire che grasso da tagliare ancora ce n'è. Si può obiettare che preferiscono sacrificare i servizi piuttosto che i loro privilegi, ma se qualcosa si muove anche da quel punto di vista, e se quanto meno nessuno è più disposto a chiudere un occhio, è perché abbiamo appena cominciato ad affamare la bestia. Bisogna continuare.
Nel tritacarne mediatico è finito anche De Romanis per il suo «toga-party alla vaccinara». Una festa trash, ma tutto sommato innocente (non un "festino", termine che indica ben altre e più ristrette situazioni), e fino a prova contraria pagata coi suoi soldi, non con i fondi del gruppo Pdl, come si insinua tra le righe. Ma rappresenta comunque lo specchio del sistema: si celebra un'elezione in consiglio regionale come una mega-vincita al superenalotto, eppure non dovrebbe permettere a nessuno di sentirsi "sistemato" per la vita.
Può darsi, come sostiene Serra su Repubblica, che «Fiorito siamo noi», che sia un «normotipo popolare italiano». Ogni popolo ha i rappresentanti che si merita, c'è del vero. Dunque, Fiorito «prodotto della democrazia»? Forse sì, se ci riferiamo a quel particolare e sghembo tipo di democrazia rappresentativa (la «democrazia diretta» non c'entra davvero nulla) che abbiamo in Italia. A ben vedere però Fiorito è il prodotto non della democrazia, ma delle preferenze, che non garantiscono ai cittadini alcun potere di scelta, bensì ai candidati con le clientele più numerose di essere eletti, così come i listini servono a promuovere portaborse e funzionari di partito che nessuno conosce. Fiorito è uguale a quelli che hanno espresso la preferenza per lui, cioè ai suoi "clientes", una estrema minoranza degli elettori.
Thursday, July 19, 2012
Con la Grecia in casa ci sentiremo tutti un po' più "tedeschi"
Cosa direbbero gli italiani se il governo Monti proponesse una tassa speciale per evitare il default della Sicilia? Con le debite differenze e in scala ridotta, potremmo ritrovarci presto in casa una piccola Grecia. Allora, forse, chi ha troppo facilmente accusato i tedeschi di miopia ed egoismo per aver condizionato gli aiuti ad Atene a tagli recessivi e scrupolosi controlli, comprenderà meglio la loro "ossessione" per il rigore, cosa significa dover garantire il debito contratto da altri o addirittura doverlo rimborsare a fondo perduto.
(...)
E' stato il numero due della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, in un'intervista al Corriere, a lanciare l’allarme: la Sicilia è «sull’orlo del fallimento». Stipendi e pensioni regionali sarebbero i primi a saltare, ma anche i servizi ai cittadini. Il debito accertato dalla Corte dei Conti è di 5,3 miliardi di euro, ma è «destinato a salire ulteriormente». Si sospetta infatti che false poste in bilancio e crediti inesigibili possano "coprire" una voragine ben superiore. La Regione, rivela la Cgia di Mestre, ha costi per la politica e per l'acquisto di beni e di servizi, in termini pro capite, 2,5 volte superiori alla media di tutte le altre regioni d'Italia, e quelli relativi agli stipendi del personale addirittura del triplo. Molte le inchieste giornalistiche che negli ultimi anni hanno documentato sprechi e privilegi.
(...)
Non è tutta responsabilità dell'attuale governatore, Raffaele Lombardo... Si tratta di un malgoverno che dura da decenni e del fallimento dello Stato unitario nel tentare di risolvere la cosiddetta "questione meridionale". Il Sud Italia proprio non ce la fa ad attestarsi a livelli di produttività, legalità ed efficienza amministrativa paragonabili a quelli del centro e del nord del paese. Colpa di un'autonomia intesa solo come libertà di spesa, a fronte di trasferimenti comunque assicurati da Roma, e di politiche keynesiane-assistenzialiste incapaci di creare sviluppo.
Un modello bocciato dalla storia, che però rischia di rappresentare un'anticipazione del prossimo futuro dell'Eurozona. Se da una parte cìè il rischio effettivo che la perdita di sovranità a favore dell'Ue corrisponda ad uno smembramento di fatto dell'Italia e ad una subordinazione alla potenza egemone, la Germania, dall'altra sembra più concreto il rischio di "italianizzazione" dell'Eurozona – un Nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso – se costringeremo la Germania e i paesi del nord Europa ad adottare nei confronti dell'Europa mediterranea le stesse politiche sbagliate che per oltre un secolo il nostro Stato unitario ha "somministrato" al Sud Italia.
Non sorprende che autorevoli voci della stampa internazionale ritengano arrivata l'ora di riconoscere il fiasco dello Stato unitario italiano. Secondo Tony Barber (Financial Times), l'ideale sarebbe un'Europa più piccola e compatta, corrispondente più o meno al Sacro Romano Impero, con il Nord Italia (fino a Roma) insieme a Francia, Germania e ai Paesi del Benelux. Mentre sul Wall Street Journal si osserva che «l'Italia non ha mai funzionato come Stato centralizzato» e si suggerisce il ritorno al modello delle Città-Stato rinascimentali. Sta a noi smentirli con i fatti.
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(...)
E' stato il numero due della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, in un'intervista al Corriere, a lanciare l’allarme: la Sicilia è «sull’orlo del fallimento». Stipendi e pensioni regionali sarebbero i primi a saltare, ma anche i servizi ai cittadini. Il debito accertato dalla Corte dei Conti è di 5,3 miliardi di euro, ma è «destinato a salire ulteriormente». Si sospetta infatti che false poste in bilancio e crediti inesigibili possano "coprire" una voragine ben superiore. La Regione, rivela la Cgia di Mestre, ha costi per la politica e per l'acquisto di beni e di servizi, in termini pro capite, 2,5 volte superiori alla media di tutte le altre regioni d'Italia, e quelli relativi agli stipendi del personale addirittura del triplo. Molte le inchieste giornalistiche che negli ultimi anni hanno documentato sprechi e privilegi.
(...)
Non è tutta responsabilità dell'attuale governatore, Raffaele Lombardo... Si tratta di un malgoverno che dura da decenni e del fallimento dello Stato unitario nel tentare di risolvere la cosiddetta "questione meridionale". Il Sud Italia proprio non ce la fa ad attestarsi a livelli di produttività, legalità ed efficienza amministrativa paragonabili a quelli del centro e del nord del paese. Colpa di un'autonomia intesa solo come libertà di spesa, a fronte di trasferimenti comunque assicurati da Roma, e di politiche keynesiane-assistenzialiste incapaci di creare sviluppo.
Un modello bocciato dalla storia, che però rischia di rappresentare un'anticipazione del prossimo futuro dell'Eurozona. Se da una parte cìè il rischio effettivo che la perdita di sovranità a favore dell'Ue corrisponda ad uno smembramento di fatto dell'Italia e ad una subordinazione alla potenza egemone, la Germania, dall'altra sembra più concreto il rischio di "italianizzazione" dell'Eurozona – un Nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso – se costringeremo la Germania e i paesi del nord Europa ad adottare nei confronti dell'Europa mediterranea le stesse politiche sbagliate che per oltre un secolo il nostro Stato unitario ha "somministrato" al Sud Italia.
Non sorprende che autorevoli voci della stampa internazionale ritengano arrivata l'ora di riconoscere il fiasco dello Stato unitario italiano. Secondo Tony Barber (Financial Times), l'ideale sarebbe un'Europa più piccola e compatta, corrispondente più o meno al Sacro Romano Impero, con il Nord Italia (fino a Roma) insieme a Francia, Germania e ai Paesi del Benelux. Mentre sul Wall Street Journal si osserva che «l'Italia non ha mai funzionato come Stato centralizzato» e si suggerisce il ritorno al modello delle Città-Stato rinascimentali. Sta a noi smentirli con i fatti.
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Friday, July 06, 2012
Tagli poco ambiziosi, ma ora vanno difesi dai pescecani della spesa
Non si tratta del taglio della spesa pubblica che servirebbe, tale (non ci stancheremo di ripeterlo) da trasformare i risparmi in meno tasse su cittadini e imprese per far ripartire l'economia; e non è certo questo il passo con cui la Germania è riuscita a tagliare le sue spese di 5-6 punti di Pil in pochi anni. Nell'ultimo decennio la nostra spesa pubblica è cresciuta di quasi 200 miliardi; la spesa primaria, come certificato dalla Corte dei Conti, di circa il 5% in media l'anno. Ebbene, se nessuno ha notato clamorosi miglioramenti nei servizi pubblici e nelle prestazioni sociali rispetto a dieci anni fa (anzi!), vuol dire che almeno 100 di quei miliardi in più spesi si potrebbero recuperare senza "macelleria sociale".
Ma sapevamo che l'approccio seguito da questo governo è quello della manutenzione. Bisogna per lo meno riconoscere al premier Mario Monti di essere riuscito a non farsi spolpare il marlin appena pescato già durante la prima notte di navigazione. Al rientro in porto, però, ossia alla conversione in legge del decreto, mancano ancora parecchie notti in cui i pescecani (burocrazie, regioni ed enti locali, sindacati, partiti, demagoghi di ogni razza) ritorneranno all'assalto. E' per questo che non conviene sparare sul pianista, nonostante l’approccio poco ambizioso, il ritardo con cui il governo si è mosso (spinto solo dall'incubo spread), i dietrofront e i punti deboli.
Se non altro - dopo l'incauto rilassamento dei mesi scorsi (quando la crisi sembrava «quasi superata»), che ha contribuito al flop della riforma del lavoro - con il riacutizzarsi della tensione sul debito e la necessità di presentarsi con le carte in regola in Europa, Monti ha recuperato un certo senso di urgenza, riuscendo a superare quasi tutti i veti interni ed evitando di imbarcarsi in estenuanti trattative con sindacati ed enti territoriali, convocati solo per "comunicazioni". Non mancano, tuttavia, le retromarce: salvi i "mini-ospedali" e il fondo degli atenei, saltata la soppressione di alcuni enti, e forse anche la riduzione dei permessi sindacali e dei trasferimenti ai Caf.
Ma va detto innanzitutto che dei risparmi complessivi (4,5 miliardi nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel 2014), una parte cospicua andrà a finanziare nuove spese: nobili, come la ricostruzione nelle aree terremotate (2 miliardi), e meno nobili (altri 55 mila "esodati", che ci costeranno 4,1 miliardi nel periodo 2014-2020). E come mai, nonostante il risparmio di 10 miliardi su base annua l'aumento dell'Iva non è ancora scongiurato, ma solo ritardato di 9 mesi (luglio 2013) e ridotto dal 2014? Probabile che i brutti dati Istat sui conti pubblici nel I trimestre 2012 abbiano indotto alla cautela, ma non sarà il caso di chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nella ricetta?
Si chiama spending review, ma solo parte dei tagli è affidata a qualcosa di somigliante ad una riforma strutturale della spesa sul modello britannico. In realtà, si fa ampio ricorso ai tagli lineari, che però qui non demonizziamo affatto.
LEGGI TUTTO su L'Opinione
Ma sapevamo che l'approccio seguito da questo governo è quello della manutenzione. Bisogna per lo meno riconoscere al premier Mario Monti di essere riuscito a non farsi spolpare il marlin appena pescato già durante la prima notte di navigazione. Al rientro in porto, però, ossia alla conversione in legge del decreto, mancano ancora parecchie notti in cui i pescecani (burocrazie, regioni ed enti locali, sindacati, partiti, demagoghi di ogni razza) ritorneranno all'assalto. E' per questo che non conviene sparare sul pianista, nonostante l’approccio poco ambizioso, il ritardo con cui il governo si è mosso (spinto solo dall'incubo spread), i dietrofront e i punti deboli.
Se non altro - dopo l'incauto rilassamento dei mesi scorsi (quando la crisi sembrava «quasi superata»), che ha contribuito al flop della riforma del lavoro - con il riacutizzarsi della tensione sul debito e la necessità di presentarsi con le carte in regola in Europa, Monti ha recuperato un certo senso di urgenza, riuscendo a superare quasi tutti i veti interni ed evitando di imbarcarsi in estenuanti trattative con sindacati ed enti territoriali, convocati solo per "comunicazioni". Non mancano, tuttavia, le retromarce: salvi i "mini-ospedali" e il fondo degli atenei, saltata la soppressione di alcuni enti, e forse anche la riduzione dei permessi sindacali e dei trasferimenti ai Caf.
Ma va detto innanzitutto che dei risparmi complessivi (4,5 miliardi nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel 2014), una parte cospicua andrà a finanziare nuove spese: nobili, come la ricostruzione nelle aree terremotate (2 miliardi), e meno nobili (altri 55 mila "esodati", che ci costeranno 4,1 miliardi nel periodo 2014-2020). E come mai, nonostante il risparmio di 10 miliardi su base annua l'aumento dell'Iva non è ancora scongiurato, ma solo ritardato di 9 mesi (luglio 2013) e ridotto dal 2014? Probabile che i brutti dati Istat sui conti pubblici nel I trimestre 2012 abbiano indotto alla cautela, ma non sarà il caso di chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nella ricetta?
Si chiama spending review, ma solo parte dei tagli è affidata a qualcosa di somigliante ad una riforma strutturale della spesa sul modello britannico. In realtà, si fa ampio ricorso ai tagli lineari, che però qui non demonizziamo affatto.
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Thursday, July 05, 2012
Cominciano a calarsi le brache anche sui tagli?
Mentre la Bce taglia di un altro 0,25% i tassi (al minimo storico di 0,75%) - insomma, Draghi sta facendo il suo dovere, lui sì - a poche ore dal Cdm che dovrebbe varare il secondo decreto di tagli alla spesa, quello più corposo, emergono le prime nefandezze che fanno temere l'ennesimo flop montiano. I sindacati piagnoni intanto i loro interessi se li sono fatti: si sarebbero salvati dai tagli, infatti, i permessi sindacali degli statali e i finanziamenti ai Caf e ai patronati. Anche i piccoli ospedali sarebbero salvi: il taglio delle strutture con meno di 80 posti letto avverrà eventualmente in un secondo momento, dopo "attenta riflessione". Il taglio praticamente diventa un "invito" alla razionalizzazione rivolto alle regioni. Scommettiamo che la stessa sorte subirà il taglio dei tribunali e delle sezioni distaccate? E' il paradigma di come viene pretestuosamente usata l'accusa dei "tagli lineari": tagliare indiscriminatamente è da infami, ma quando il governo affonda il bisturi, ecco che spunta l'autonomia, la "potestà" di regioni ed enti locali. Rinviati al terzo decreto (semmai ci sarà) anche il taglio delle Province, la sforbiciata del 20% agli enti pubblici e il riordino dei piccoli Comuni.
Per non parlare dello scandalo della Regione Sicilia, che ha più dipendenti di Downing Street (il governo dovrebbe bloccare trasferimenti e fondi finché non li riducono), e delle pensioni d'oro intoccabili (il "tetto" sarebbe incostituzionale, ha detto ieri Giarda).
Va tenuto presente, nel giudicare cosa uscirà fuori, che sul totale dei tagli previsti dal decreto (presumibilmente 7-8 miliardi tra 2012 e 2013), solo 4,2 miliardi andrebbero considerati come vera riduzione della spesa corrente, perché gli altri 3-4 servirebbero a finanziare ulteriori spese più o meno nobili: gli aiuti ai terremotati e le risorse per "salvaguardare" gli esodati.
Mentre fuori dal palazzo proseguono le rivolte (i governatori delle regioni minacciano la "rottura", gli avvocati addirittura s'incatenano e Vendola ritira fuori il solito armamentario retorico della "macelleria sociale"), all'interno è in corso l'assedio dei ministri (su tutti, immaginiamo, Balduzzi e Patroni Griffi) a Monti e a Grilli.
Peccato che il tempo stringe. In Europa si aspettano conferme della volontà e capacità dell'Italia di proseguire nelle riforme, prima di concederci qualcosa sullo scudo anti-spread, e i conti pubblici non sono poi così in sicurezza, come dimostrano i dati Istat sul I trimestre dell'anno. Gli effetti sono per lo più ancora quelli delle manovre tremontiane e comincia a farsi sentire l'esplosione del costo del nostro debito dal luglio scorso in poi.
Ma l'aumento del fabbisogno delle pubbliche amministrazioni e il calo delle entrate, per l'acuirsi della recessione, sono i prevedibili danni (solo i primi) di un consolidamento fiscale perseguito attraverso aumenti di tasse e taglio delle spese in conto capitale, quella che Draghi ebbe modo di definire come la via politicamente più facile ma anche la più sbagliata al risanamento. Per questo è urgentissimo invertire la rotta cominciando a tagliare la spesa corrente, come suggerisce da sempre la Bce. E per rilanciare l'economia le riduzioni di spesa pubblica dovrebbero essere tali da consentire una sensibile riduzione delle tasse su impresa e lavoro, ma non sembra ancora questa la strada intrapresa dal governo Monti.
Per non parlare dello scandalo della Regione Sicilia, che ha più dipendenti di Downing Street (il governo dovrebbe bloccare trasferimenti e fondi finché non li riducono), e delle pensioni d'oro intoccabili (il "tetto" sarebbe incostituzionale, ha detto ieri Giarda).
Va tenuto presente, nel giudicare cosa uscirà fuori, che sul totale dei tagli previsti dal decreto (presumibilmente 7-8 miliardi tra 2012 e 2013), solo 4,2 miliardi andrebbero considerati come vera riduzione della spesa corrente, perché gli altri 3-4 servirebbero a finanziare ulteriori spese più o meno nobili: gli aiuti ai terremotati e le risorse per "salvaguardare" gli esodati.
Mentre fuori dal palazzo proseguono le rivolte (i governatori delle regioni minacciano la "rottura", gli avvocati addirittura s'incatenano e Vendola ritira fuori il solito armamentario retorico della "macelleria sociale"), all'interno è in corso l'assedio dei ministri (su tutti, immaginiamo, Balduzzi e Patroni Griffi) a Monti e a Grilli.
Peccato che il tempo stringe. In Europa si aspettano conferme della volontà e capacità dell'Italia di proseguire nelle riforme, prima di concederci qualcosa sullo scudo anti-spread, e i conti pubblici non sono poi così in sicurezza, come dimostrano i dati Istat sul I trimestre dell'anno. Gli effetti sono per lo più ancora quelli delle manovre tremontiane e comincia a farsi sentire l'esplosione del costo del nostro debito dal luglio scorso in poi.
Ma l'aumento del fabbisogno delle pubbliche amministrazioni e il calo delle entrate, per l'acuirsi della recessione, sono i prevedibili danni (solo i primi) di un consolidamento fiscale perseguito attraverso aumenti di tasse e taglio delle spese in conto capitale, quella che Draghi ebbe modo di definire come la via politicamente più facile ma anche la più sbagliata al risanamento. Per questo è urgentissimo invertire la rotta cominciando a tagliare la spesa corrente, come suggerisce da sempre la Bce. E per rilanciare l'economia le riduzioni di spesa pubblica dovrebbero essere tali da consentire una sensibile riduzione delle tasse su impresa e lavoro, ma non sembra ancora questa la strada intrapresa dal governo Monti.
Wednesday, July 07, 2010
Manovra accerchiata/2
Come sospettavo, l'obiezione circolata di non penalizzare le Regioni "virtuose" con tagli lineari ai trasferimenti era la cortina fumogena dietro cui in realtà si celava un più banale tentativo di ridiscutere l'entità complessiva dei tagli, e non pochi osservatori - da quelli orientati contro il governo ai più attenti e obiettivi - hanno abboccato in pieno. In Commissione Bilancio infatti è stato presentato dal relatore un emendamento che, confermato il taglio per 8,5 miliardi di euro, introduce un sistema di flessibilità. Prevede che sia la Conferenza Stato-Regioni a decidere, entro tre mesi dall'entrata in vigore della manovra, con quali criteri saranno adottati i tagli. Criteri che verrebbero poi recepiti per decreto. Se lo vorranno davvero, dunque, e se troveranno un accordo tra di loro, i governatori potranno far pesare i sacrifici della manovra in modo più lieve sulle Regioni più "virtuose" e più gravoso su quelle "viziose". Se però la Conferenza Stato-Regioni non stabilirà i criteri entro i tre mesi indicati, allora sarà il governo a fissare le regole. Ragionevole, no?
Eppure, nonostante questo, la «frattura» con il governo rimane, a sentire Errani e Formigoni, che non sembrano intenzionati a demordere. Bisogna quindi dedurre che le motivazioni erano altre: non si vuole ridurre la spesa. E in particolare Formigoni, che potrebbe cominciare a tagliare il "contributo" regionale di 234 mila euro al Meeting di CL, sospettiamo che voglia molto demagogicamente approfittare della situazione per guadagnarci soprattutto un po' di visibilità personale. Alla Fini, per intenderci.
Tutto questo ci conferma che a parte le pressioni di Confindustria, che pare sia riuscita a far cancellare norme di autentica barbarie fiscale, tutte le altre sono volte ad "annacquare" la manovra laddove piuttosto andrebbe rafforzata. Cari liberali sui blog e sui giornali, possiamo discettare quanto vogliamo, ma l'amara realtà è che questa manovra può essere solo difesa, Tremonti è la diga, rotta la quale non ci sarebbero meno tasse, meno spesa, più mercato, ma ahimé l'esatto contrario. Nessuno, né nell'opposizione, né nella maggioranza, né nel governo, né le Regioni né gli Enti locali, né le "forze sociali". Insomma, nessuno che abbia una qualche reale influenza invoca tagli più coraggiosi, riforme strutturali, meno tasse o roba del genere. Tutti sono, ciascuno per ciò che lo riguarda, scontenti dei tagli che già ci sono e tenta di attenuarli. E' una situazione che va tenuta presente quando si prende posizione politicamente sulla manovra e sul ministro dell'Economia. Tremonti non mi-ci piace, ma quali sono le reali alternative?
Eppure, nonostante questo, la «frattura» con il governo rimane, a sentire Errani e Formigoni, che non sembrano intenzionati a demordere. Bisogna quindi dedurre che le motivazioni erano altre: non si vuole ridurre la spesa. E in particolare Formigoni, che potrebbe cominciare a tagliare il "contributo" regionale di 234 mila euro al Meeting di CL, sospettiamo che voglia molto demagogicamente approfittare della situazione per guadagnarci soprattutto un po' di visibilità personale. Alla Fini, per intenderci.
Tutto questo ci conferma che a parte le pressioni di Confindustria, che pare sia riuscita a far cancellare norme di autentica barbarie fiscale, tutte le altre sono volte ad "annacquare" la manovra laddove piuttosto andrebbe rafforzata. Cari liberali sui blog e sui giornali, possiamo discettare quanto vogliamo, ma l'amara realtà è che questa manovra può essere solo difesa, Tremonti è la diga, rotta la quale non ci sarebbero meno tasse, meno spesa, più mercato, ma ahimé l'esatto contrario. Nessuno, né nell'opposizione, né nella maggioranza, né nel governo, né le Regioni né gli Enti locali, né le "forze sociali". Insomma, nessuno che abbia una qualche reale influenza invoca tagli più coraggiosi, riforme strutturali, meno tasse o roba del genere. Tutti sono, ciascuno per ciò che lo riguarda, scontenti dei tagli che già ci sono e tenta di attenuarli. E' una situazione che va tenuta presente quando si prende posizione politicamente sulla manovra e sul ministro dell'Economia. Tremonti non mi-ci piace, ma quali sono le reali alternative?
Friday, June 18, 2010
Riflessi keynesiani
Qualche puntualizzazione in merito alle composte «elaborazioni» di Phastidio.net su questo mio post di ieri.
Mi si rimprovera di aver rappresentato una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia, mentre ad essere stato "macchiettizzato" casomai è il mio post. «Una manovra che tagli le spese riduce la domanda aggregata, punto». A parte il fatto che il «punto» si può mettere solo se le altre "domande" che compongono la domanda aggregata rimangono fisse, e infatti la stessa Bankitalia è stata per la verità molto cauta nel prevedere un possibile effetto recessivo della manovra («a condizioni invariate»), quel che conta ai fini di ciò che mi si contesta è che non ho affatto descritto la Banca d'Italia come un covo di keynesiani. Ho semplicemente scritto che quella specifica, per quanto cauta, previsione, riferita dal direttore centrale Salvatore Rossi in un'audizione al Senato, a mio avviso risente di un'impostazione keynesiana. Dunque, sembrerà un dettaglio, ma leggendo in modo obiettivo il mio post, senza andare alla ricerca di qualcosa da "macchiettizzare" a tutti i costi, non mi pare che identificare come keynesiana una singola valutazione, di un singolo rappresentante, in una singola relazione, equivalga a bollare come keynesiana tutta la Banca d'Italia (e comunque non mi pare equivalga a dare del «mostro» a qualcuno).
«Una riduzione della "crescita" italiana a prefisso telefonico» può certamente verificarsi, ma (ed è questo che intendevo dire nel post) collegarla ai tagli alla spesa pubblica previsti nella manovra - e non, per esempio, alla mancanza di altre politiche - politicamente significa offrire su un piatto d'argento un bell'argomento a chi si oppone ai tagli alla spesa pubblica. E questo certamente al di là delle intenzioni di Banca d'Italia, che non vedo affatto «nelle vesti dell'ottuso suggeritore delle virtù della spesa pubblica», tanto che nella stessa audizione il direttore centrale nella sostanza promuoveva la manovra, ribadiva l'urgenza dei tagli, e anzi suggeriva - come da sempre fa Bankitalia - di proseguire sulla strada dei tagli e delle riforme. Quindi, Dio salvi Bankitalia.
Ho solo osato evidenziare come un particolare riflesso keynesiano rischia (e dal modo in cui tutti i giornali si sono concentrati su quel passaggio della relazione si direbbe che quel rischio sia fondato) di rafforzare le convinzioni dei tanti, a destra come a sinistra, che vedono nella spesa pubblica - nelle sue varie forme - un fattore di promozione della crescita. Basta sentire Bersani stamattina a Radio Anch'io per rendersene conto. Per quanto riguarda i 'finiani' (spero che anche questo non sia un insulto, sarà ripetitivo, ma lo si prenda per comodità espositiva), qualche «proposta operativa» l'hanno già avanzata e Lakeside Capital ha segnalato alcune possibili controindicazioni.
P.S. - Poi, questa mattina, navigando in cerca di pareri più autorevoli del sottoscritto per accertarmi di non aver scritto fesserie - sì, lo confesso, non sono un economista, né un analista finanziario - mi imbatto in un articolo di Oscar Giannino, sul numero di questa settimana di Tempi. Dà ragione a Formigoni sui «tagli lineari» alle regioni, mentre nel mio post mi permettevo di dubitare che la reale preoccupazione delle regioni fosse quella di evitare tagli punitivi nei confronti delle più virtuose tra di loro. Ma di Bankitalia Giannino sembra rappresentare una visione che Phastidio.net definirebbe forse «macchiettistica». Nel suo articolo, Giannino anticipa una possibile obiezione ai suoi argomenti («Ma che cosa scrivi, caro Giannino? La Banca d'Italia sostiene invece che la manovra Tremonti taglia di mezzo punto la già troppo asfittica crescita italiana, che sembrava fin troppo ottimista quantificare all'1 per cento di Pil in più nel 2010...»).
Ed ecco la replica di Giannino al suo immaginario interlocutore: «Questo è un altro paio di maniche, signori miei. Io non sono keynesiano come gli economisti dell'ufficio studi di Bankitalia, che adottano multipli alti della spesa pubblica ai fini degli effetti sulla domanda, ma detto questo noi siamo comunque costretti a seguire la via di tagli vigorosi al deficit tendenziale». Siamo almeno in due ad avere una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia. Non credo Giannino sia ottimista sulla crescita del Pil italiano (come non lo sono io), ma evidentemente anche lui una frecciatina alla relazione meno spesa-meno crescita espressa in quell'audizione l'ha voluta assestare.
Mi si rimprovera di aver rappresentato una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia, mentre ad essere stato "macchiettizzato" casomai è il mio post. «Una manovra che tagli le spese riduce la domanda aggregata, punto». A parte il fatto che il «punto» si può mettere solo se le altre "domande" che compongono la domanda aggregata rimangono fisse, e infatti la stessa Bankitalia è stata per la verità molto cauta nel prevedere un possibile effetto recessivo della manovra («a condizioni invariate»), quel che conta ai fini di ciò che mi si contesta è che non ho affatto descritto la Banca d'Italia come un covo di keynesiani. Ho semplicemente scritto che quella specifica, per quanto cauta, previsione, riferita dal direttore centrale Salvatore Rossi in un'audizione al Senato, a mio avviso risente di un'impostazione keynesiana. Dunque, sembrerà un dettaglio, ma leggendo in modo obiettivo il mio post, senza andare alla ricerca di qualcosa da "macchiettizzare" a tutti i costi, non mi pare che identificare come keynesiana una singola valutazione, di un singolo rappresentante, in una singola relazione, equivalga a bollare come keynesiana tutta la Banca d'Italia (e comunque non mi pare equivalga a dare del «mostro» a qualcuno).
«Una riduzione della "crescita" italiana a prefisso telefonico» può certamente verificarsi, ma (ed è questo che intendevo dire nel post) collegarla ai tagli alla spesa pubblica previsti nella manovra - e non, per esempio, alla mancanza di altre politiche - politicamente significa offrire su un piatto d'argento un bell'argomento a chi si oppone ai tagli alla spesa pubblica. E questo certamente al di là delle intenzioni di Banca d'Italia, che non vedo affatto «nelle vesti dell'ottuso suggeritore delle virtù della spesa pubblica», tanto che nella stessa audizione il direttore centrale nella sostanza promuoveva la manovra, ribadiva l'urgenza dei tagli, e anzi suggeriva - come da sempre fa Bankitalia - di proseguire sulla strada dei tagli e delle riforme. Quindi, Dio salvi Bankitalia.
Ho solo osato evidenziare come un particolare riflesso keynesiano rischia (e dal modo in cui tutti i giornali si sono concentrati su quel passaggio della relazione si direbbe che quel rischio sia fondato) di rafforzare le convinzioni dei tanti, a destra come a sinistra, che vedono nella spesa pubblica - nelle sue varie forme - un fattore di promozione della crescita. Basta sentire Bersani stamattina a Radio Anch'io per rendersene conto. Per quanto riguarda i 'finiani' (spero che anche questo non sia un insulto, sarà ripetitivo, ma lo si prenda per comodità espositiva), qualche «proposta operativa» l'hanno già avanzata e Lakeside Capital ha segnalato alcune possibili controindicazioni.
P.S. - Poi, questa mattina, navigando in cerca di pareri più autorevoli del sottoscritto per accertarmi di non aver scritto fesserie - sì, lo confesso, non sono un economista, né un analista finanziario - mi imbatto in un articolo di Oscar Giannino, sul numero di questa settimana di Tempi. Dà ragione a Formigoni sui «tagli lineari» alle regioni, mentre nel mio post mi permettevo di dubitare che la reale preoccupazione delle regioni fosse quella di evitare tagli punitivi nei confronti delle più virtuose tra di loro. Ma di Bankitalia Giannino sembra rappresentare una visione che Phastidio.net definirebbe forse «macchiettistica». Nel suo articolo, Giannino anticipa una possibile obiezione ai suoi argomenti («Ma che cosa scrivi, caro Giannino? La Banca d'Italia sostiene invece che la manovra Tremonti taglia di mezzo punto la già troppo asfittica crescita italiana, che sembrava fin troppo ottimista quantificare all'1 per cento di Pil in più nel 2010...»).
Ed ecco la replica di Giannino al suo immaginario interlocutore: «Questo è un altro paio di maniche, signori miei. Io non sono keynesiano come gli economisti dell'ufficio studi di Bankitalia, che adottano multipli alti della spesa pubblica ai fini degli effetti sulla domanda, ma detto questo noi siamo comunque costretti a seguire la via di tagli vigorosi al deficit tendenziale». Siamo almeno in due ad avere una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia. Non credo Giannino sia ottimista sulla crescita del Pil italiano (come non lo sono io), ma evidentemente anche lui una frecciatina alla relazione meno spesa-meno crescita espressa in quell'audizione l'ha voluta assestare.
Thursday, June 17, 2010
Manovra accerchiata
No, non mi fido. Non mi fido dei cambiamenti che da più parti si vorrebbero apportare alla manovra, per lo più in nome della crescita. A saldi invariati, il governo si dice aperto a contributi e modifiche migliorative. Quindi, ben vengano altri tagli, ma qui e là si riaffacciano brutti modi di ri-spendere subito le poche risorse raccolte. La manovra va difesa così com'è, purtroppo in Italia non c'è spazio per i distinguo, perché nel dibattito su come migliorarla si nascondono in troppi che vogliono solo annacquarla per favorire le loro clientele. Se si apre un pertugio, non si sa mai chi ci si può infilare.
I 'finiani', per esempio, abboccano in toto alla versione keynesiana di Bankitalia secondo cui ogni cent tagliato di spesa pubblica frena la crescita, già fioca, e quindi giù con le proposte per sostenerla, rischiando però di ricadere nel vizio dei pacchetti di stimolo (per giunta con pochissime risorse). In breve, la ricetta prevederebbe non meglio identificati investimenti "tecnologici" qui e là e il ritorno del credito d'imposta per le imprese, a sostituire, scrivono, la «marea di miliardi di euro che ogni anno lo Stato dà alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto». Ma Lakeside Capital si è già incaricato di segnalare le controdindicazioni di questa politica. E il dubbio è che i maggiori tagli proposti (ripeto: ben vengano) servano a dispensare gli amati statali dai "sacrifici" previsti dalla manovra, come si poteva facilmente scorgere in un post di due giorni fa dell'on. Bocchino.
Diffido anche delle reali intenzioni delle regioni e delle buone ragioni di bravi governatori come Formigoni. E' vero che tagli uguali per tutte le regioni, in proporzione ai trasferimenti ricevuti, non è il migliore dei modi di procedere, perché non si distingue tra virtuosi e viziosi, premiando i primi e colpendo i secondi. Ma, primo, anche nelle regioni più virtuose la spesa è tale che esistono ampi margini per tagliare (pensioni di invalidità, eccessi di personale, sussidi vari, enti e imprese inutili); secondo, proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe se il governo, d'un tratto, dicesse, alla Lombardia che è stata brava togliamo 5, e alla Calabria che è stata pessima togliamo 15, e in mezzo tutte le altre. E' vero che sarebbe questa una logica coerente con il federalismo fiscale, ma per ora il meccanismo ancora non c'è e un criterio simile per questa manovra sarebbe visto come ancora più arbitrario.
Resta inoltre un pesante interrogativo. Se Tremonti e Berlusconi hanno dall'inizio assicurato disponibilità a discutere sul come tagliare, fermo restando il quanto, non dovrebbero esserci problemi. Perché, se il problema è davvero non punire le regioni virtuose, la Conferenza delle Regioni non propone al governo un meccanismo per cui i tagli colpiscano meno chi ha ben governato? Dunque, o mentono Tremonti e Berlusconi (non sono disponibili a discutere, neanche sul come), oppure le regioni ci marciano: in realtà, vogliono solo subire minori tagli complessivamente, e non distribuirli in modo più intelligente e meritocratico.
I 'finiani', per esempio, abboccano in toto alla versione keynesiana di Bankitalia secondo cui ogni cent tagliato di spesa pubblica frena la crescita, già fioca, e quindi giù con le proposte per sostenerla, rischiando però di ricadere nel vizio dei pacchetti di stimolo (per giunta con pochissime risorse). In breve, la ricetta prevederebbe non meglio identificati investimenti "tecnologici" qui e là e il ritorno del credito d'imposta per le imprese, a sostituire, scrivono, la «marea di miliardi di euro che ogni anno lo Stato dà alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto». Ma Lakeside Capital si è già incaricato di segnalare le controdindicazioni di questa politica. E il dubbio è che i maggiori tagli proposti (ripeto: ben vengano) servano a dispensare gli amati statali dai "sacrifici" previsti dalla manovra, come si poteva facilmente scorgere in un post di due giorni fa dell'on. Bocchino.
Diffido anche delle reali intenzioni delle regioni e delle buone ragioni di bravi governatori come Formigoni. E' vero che tagli uguali per tutte le regioni, in proporzione ai trasferimenti ricevuti, non è il migliore dei modi di procedere, perché non si distingue tra virtuosi e viziosi, premiando i primi e colpendo i secondi. Ma, primo, anche nelle regioni più virtuose la spesa è tale che esistono ampi margini per tagliare (pensioni di invalidità, eccessi di personale, sussidi vari, enti e imprese inutili); secondo, proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe se il governo, d'un tratto, dicesse, alla Lombardia che è stata brava togliamo 5, e alla Calabria che è stata pessima togliamo 15, e in mezzo tutte le altre. E' vero che sarebbe questa una logica coerente con il federalismo fiscale, ma per ora il meccanismo ancora non c'è e un criterio simile per questa manovra sarebbe visto come ancora più arbitrario.
Resta inoltre un pesante interrogativo. Se Tremonti e Berlusconi hanno dall'inizio assicurato disponibilità a discutere sul come tagliare, fermo restando il quanto, non dovrebbero esserci problemi. Perché, se il problema è davvero non punire le regioni virtuose, la Conferenza delle Regioni non propone al governo un meccanismo per cui i tagli colpiscano meno chi ha ben governato? Dunque, o mentono Tremonti e Berlusconi (non sono disponibili a discutere, neanche sul come), oppure le regioni ci marciano: in realtà, vogliono solo subire minori tagli complessivamente, e non distribuirli in modo più intelligente e meritocratico.
Thursday, May 27, 2010
Colpe di sistema
In un commento apparso sul sito Libertiamo, con molta onestà intellettuale Giuliano Cazzola, deputato del Pdl e vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera, riconosce che, ad un esame «attento e disincantato», il «principale limite» della manovra è «una prudenza forse eccessiva». Gli altri Paesi europei, osserva, preparano «manovre più pesanti di parecchi miliardi e di più lunga prospettiva della nostra, nonostante i loro saldi di finanza pubblica siano assai migliori di quelli italiani. Di questo argomento - aggiunge Cazzola - ci serviamo per contrastare le accuse che ci rivolge l'opposizione, sapendo che essa non ci chiederà mai una maggiore severità, perché, ancora una volta, preferirà dare libero sfogo alla subcultura della protesta piuttosto che alimentare i primi vagiti di una prassi di governo».
Ma anche Cazzola ravvisa un problema di mancanza di ambizioni nella manovra e «in coscienza» pone al governo e alla maggioranza questa domanda: «Perché invece di puntare, in un tempo più lungo al pareggio di bilancio, ci accontentiamo di un deficit appena sotto il 3% tra due anni? Il fatto - è la sua risposta - è che noi siamo il Paese delle mezze misure. Non perché non sappiamo agire meglio, ma perché non possiamo fare altro: il sistema Italia non ce lo consente. Quando un governo - è la sua riflessione - tenta di risanare la situazione (soprattutto se è un esecutivo di centrodestra) deve mettere in conto un'ostilità ancor più determinata e preconcetta di quella di cui è normalmente oggetto. Gli interessi colpiti si rivoltano come ricci porcospini. E trovano ovunque sostenitori».
Cazzola cita l'esempio dei tagli ai trasferimenti agli enti locali, sottolineando come nessuno ricordi che «la spesa locale è aumentata dell'80% in un decennio, a fronte di un incremento del 38% di quella centrale», e che «quando si parla di sprechi ci si riferisce di solito a quelli delle amministrazioni statali, come se i Comuni, le Province e le Regioni fossero dei preclari esempi di civiche virtù e dei grandi fornitori di qualificati servizi ai cittadini». Si poteva tagliare di più, quindi, intervenire più in profondità nella struttura della spesa, ma il «sistema Italia» non lo avrebbe consentito. Giulio Tremonti «ha fatto il possibile» e «lo ha fatto nel migliore dei modi. Non è colpa del ministro dell'Economia (Dio ce lo conservi!) - conclude Cazzola - se alla classe dirigente del Paese manca una "visione" condivisa (dubito anche dell'esistenza di più "visioni") del futuro e del possibile ruolo dell'Italia».
E' condivisibile l'analisi di Cazzola, ma a chi è al governo e ha avuto i voti della maggioranza dei cittadini spetta il dovere di provarci, anche contro "il sistema", ha il dovere di continuare a coltivare ambizioni alte come l'abbattimento, e non solo il contenimento, del debito, e il taglio delle tasse, oltre al premio di consolazione di non aumentarle. Siamo ad un tema che più volte abbiamo discusso su questo blog: il centrodestra si accontenta di gestire l'esistente senza dissanguare ancor di più il Paese, guida la macchina Italia più prudentemente, mentre i governi di centrosinistra accelerano. Ma in fondo alla strada c'è il declino e nessuno riesce a invertire la rotta.
Un altro commento, quello di Oscar Giannino di ieri sera, prende di mira le «classi dirigenti», avvertendo che sono tali «non sono solo quelle politiche», ma anche «accademia e cultura, sindacato e professioni, banche e imprese, alta amministrazione e magistrati». Con le importanti eccezioni di Confindustria, banche, Cisl e Uil, nota una «inconsapevolezza diffusa» del fatto che «da qualche mese siamo entrati in un nuovo capitolo della grande crisi che ci accompagna dall'estate 2007», quello della «sostenibilità dei debiti pubblici», che ha «indotto Berlusconi e Tremonti a metter mano alla manovra correttiva».
Negli ultimi tre mesi i mercati hanno segnalato con forza che la prospettiva degli attuali debiti pubblici nei Paesi industrializzati è «insostenibile». «E' la consapevolezza di questo mondo nuovo - osserva Giannino - che scopre il bluff di sistemi sociali minati dal troppo debito accollato anche per via della crisi alle spalle delle prossime generazioni, ciò che molti stentano ancora a capire, continuando a ragionare come se tutto il mondo avanzato continuasse a vivere nel mondo di ieri. E' questa l'unica, grande, nuova e profonda consapevolezza che tutte le classi dirigenti dovrebbero condividere. Ed è esclusivamente alla luce di tale consapevolezza, che vanno commisurati i tre criteri fondamentali della manovra correttiva».
Riguardo il primo, Giannino nota che i tagli al deficit e alla spesa sono minori di quelli di Francia e Spagna e più o meno equivalenti a quelli tedeschi (anche se non siamo la Germania), ma sottolinea che le categorie che protestano ce l'hanno con i tagli che le riguardano, mentre «una classe dirigente consapevole» dovrebbe protestare contro i rinvii degli aumenti ai dipendenti pubblici o la sospensione delle prossime finestre previdenziali, misure che «non mettono ancora mano strutturalmente alle determinanti delle maggiori voci di spesa pubblica, quella per il welfare al 24% del Pil, quella previdenziale al 16%, quella in retribuzioni pubbliche all'11%». E anche lui come Cazzola ricorda che «nel decennio alle nostre spalle la spesa corrente centrale è cresciuta del 38%, quella locale di quasi l'80%», per cui le resistenze dei politici locali appaiono «desolanti».
Sul secondo criterio, quello delle entrate, Giannino giudica le misure anti-evasione «durissime» (con l'obiettivo di passare dagli oltre 9 miliardi concretamente recuperati nel 2009 - rispetto ai 6,4 di due anni prima sotto il centrosinistra - a 11 miliardi nel 2011, a 24 nel 2012), osserva che tra i 100 euro (Prodi-Visco) e i 5 mila euro (Berlusconi-Tremonti) come soglia per la tracciabilità c'è una bella differenza, ma obietta giustamente che senza meno tasse non è certo un bel vedere e che la tassa anti-Caltagirone è un «orrore». Ma soprattutto, Giannino ricorda qualcosa cui ci associamo, e cioè che «maggioranza e governo hanno un contratto con gli italiani: le tasse su lavoro e impresa devono scendere, e di parecchio, di qui a tre anni. Ed è per questo che occorre tagliare tanta altra spesa pubblica in più». Infine, il terzo criterio, la «credibilità». Le misure, avverte Giannino, per convincere i mercati dovranno essere attuate senza tentennamenti: «Siamo solo all'inizio di una lunga revisione del modello europeo, l'area del mondo che per via del suo Stato cresce meno».
Ma anche Cazzola ravvisa un problema di mancanza di ambizioni nella manovra e «in coscienza» pone al governo e alla maggioranza questa domanda: «Perché invece di puntare, in un tempo più lungo al pareggio di bilancio, ci accontentiamo di un deficit appena sotto il 3% tra due anni? Il fatto - è la sua risposta - è che noi siamo il Paese delle mezze misure. Non perché non sappiamo agire meglio, ma perché non possiamo fare altro: il sistema Italia non ce lo consente. Quando un governo - è la sua riflessione - tenta di risanare la situazione (soprattutto se è un esecutivo di centrodestra) deve mettere in conto un'ostilità ancor più determinata e preconcetta di quella di cui è normalmente oggetto. Gli interessi colpiti si rivoltano come ricci porcospini. E trovano ovunque sostenitori».
Cazzola cita l'esempio dei tagli ai trasferimenti agli enti locali, sottolineando come nessuno ricordi che «la spesa locale è aumentata dell'80% in un decennio, a fronte di un incremento del 38% di quella centrale», e che «quando si parla di sprechi ci si riferisce di solito a quelli delle amministrazioni statali, come se i Comuni, le Province e le Regioni fossero dei preclari esempi di civiche virtù e dei grandi fornitori di qualificati servizi ai cittadini». Si poteva tagliare di più, quindi, intervenire più in profondità nella struttura della spesa, ma il «sistema Italia» non lo avrebbe consentito. Giulio Tremonti «ha fatto il possibile» e «lo ha fatto nel migliore dei modi. Non è colpa del ministro dell'Economia (Dio ce lo conservi!) - conclude Cazzola - se alla classe dirigente del Paese manca una "visione" condivisa (dubito anche dell'esistenza di più "visioni") del futuro e del possibile ruolo dell'Italia».
E' condivisibile l'analisi di Cazzola, ma a chi è al governo e ha avuto i voti della maggioranza dei cittadini spetta il dovere di provarci, anche contro "il sistema", ha il dovere di continuare a coltivare ambizioni alte come l'abbattimento, e non solo il contenimento, del debito, e il taglio delle tasse, oltre al premio di consolazione di non aumentarle. Siamo ad un tema che più volte abbiamo discusso su questo blog: il centrodestra si accontenta di gestire l'esistente senza dissanguare ancor di più il Paese, guida la macchina Italia più prudentemente, mentre i governi di centrosinistra accelerano. Ma in fondo alla strada c'è il declino e nessuno riesce a invertire la rotta.
Un altro commento, quello di Oscar Giannino di ieri sera, prende di mira le «classi dirigenti», avvertendo che sono tali «non sono solo quelle politiche», ma anche «accademia e cultura, sindacato e professioni, banche e imprese, alta amministrazione e magistrati». Con le importanti eccezioni di Confindustria, banche, Cisl e Uil, nota una «inconsapevolezza diffusa» del fatto che «da qualche mese siamo entrati in un nuovo capitolo della grande crisi che ci accompagna dall'estate 2007», quello della «sostenibilità dei debiti pubblici», che ha «indotto Berlusconi e Tremonti a metter mano alla manovra correttiva».
Negli ultimi tre mesi i mercati hanno segnalato con forza che la prospettiva degli attuali debiti pubblici nei Paesi industrializzati è «insostenibile». «E' la consapevolezza di questo mondo nuovo - osserva Giannino - che scopre il bluff di sistemi sociali minati dal troppo debito accollato anche per via della crisi alle spalle delle prossime generazioni, ciò che molti stentano ancora a capire, continuando a ragionare come se tutto il mondo avanzato continuasse a vivere nel mondo di ieri. E' questa l'unica, grande, nuova e profonda consapevolezza che tutte le classi dirigenti dovrebbero condividere. Ed è esclusivamente alla luce di tale consapevolezza, che vanno commisurati i tre criteri fondamentali della manovra correttiva».
Riguardo il primo, Giannino nota che i tagli al deficit e alla spesa sono minori di quelli di Francia e Spagna e più o meno equivalenti a quelli tedeschi (anche se non siamo la Germania), ma sottolinea che le categorie che protestano ce l'hanno con i tagli che le riguardano, mentre «una classe dirigente consapevole» dovrebbe protestare contro i rinvii degli aumenti ai dipendenti pubblici o la sospensione delle prossime finestre previdenziali, misure che «non mettono ancora mano strutturalmente alle determinanti delle maggiori voci di spesa pubblica, quella per il welfare al 24% del Pil, quella previdenziale al 16%, quella in retribuzioni pubbliche all'11%». E anche lui come Cazzola ricorda che «nel decennio alle nostre spalle la spesa corrente centrale è cresciuta del 38%, quella locale di quasi l'80%», per cui le resistenze dei politici locali appaiono «desolanti».
Sul secondo criterio, quello delle entrate, Giannino giudica le misure anti-evasione «durissime» (con l'obiettivo di passare dagli oltre 9 miliardi concretamente recuperati nel 2009 - rispetto ai 6,4 di due anni prima sotto il centrosinistra - a 11 miliardi nel 2011, a 24 nel 2012), osserva che tra i 100 euro (Prodi-Visco) e i 5 mila euro (Berlusconi-Tremonti) come soglia per la tracciabilità c'è una bella differenza, ma obietta giustamente che senza meno tasse non è certo un bel vedere e che la tassa anti-Caltagirone è un «orrore». Ma soprattutto, Giannino ricorda qualcosa cui ci associamo, e cioè che «maggioranza e governo hanno un contratto con gli italiani: le tasse su lavoro e impresa devono scendere, e di parecchio, di qui a tre anni. Ed è per questo che occorre tagliare tanta altra spesa pubblica in più». Infine, il terzo criterio, la «credibilità». Le misure, avverte Giannino, per convincere i mercati dovranno essere attuate senza tentennamenti: «Siamo solo all'inizio di una lunga revisione del modello europeo, l'area del mondo che per via del suo Stato cresce meno».
Thursday, May 13, 2010
Chi tira la carretta e chi si fa tirare
Cinque regioni tirano la carretta in questo Paese, tutte le altre arrancano, si fanno tirare. E' quanto emerge dall'ennesima analisi della Cgia di Mestre. Solo cinque regioni infatti presentano "residui fiscali" attivi, cioè danno molto di più alle amministrazioni pubbliche - con imposte, tasse e contributi - di quanto ricevono sotto forma di trasferimenti e di servizi pubblici. Solo Lombardia, Veneto e Piemonte contribuiscono per oltre 50 miliardi di euro. La Lombardia risulta da sola in credito di 42,574 miliardi, il Veneto di 6,882 miliardi e il Piemonte di 1,219 miliardi. Contribuiscono in larga misura anche Emilia Romagna (+5,587 miliardi) e Lazio (+8,720 miliardi), grazie soprattutto a Roma.
A guadagnarci non sono solo le regioni del Sud, ma anche quelle a Statuto speciale del Nord. Se la Toscana presenta un deficit del residuo fiscale di 776 milioni e la Liguria di 3,304 miliardi, non sono da meno realtà a Statuto speciale come Trentino Alto Adige (-2,177 miliardi), Friuli Venezia Giulia (-2,104 miliardi) e Valle d'Aosta (-617 milioni). Il divario sale drasticamente in alcune Regioni del Sud, capitanate dalla Sicilia - dove il residuo fiscale è pari a -21,713 miliardi - seguita da Campania (-17,290 miliardi) e Puglia (-13,668 miliardi). La Lombardia da sola "mantiene" Sicilia e Campania.
Ma il dato più sorprendente è che negli ultimi anni, dal 2002 al 2007, nonostante le lagnanze meridionaliste, il flusso da Nord a Sud è addirittura aumentato. In Lombardia, ad esempio, l'attivo è aumentato del 47 per cento, in Piemonte del 33 per cento e in Veneto del 32 per cento. I cittadini di queste tre regioni probabilmente se ne sono accorti, mentre a Roma e nel Centrosud del Paese l'opinione prevalente è che non si faccia abbastanza per il Sud, che qualche "cattivone" abbia chiuso i rubinetti. Sarebbe ora, ma non è così. Per il Sud non si fa certamente abbastanza in termini di politiche, ma si va molto oltre la decenza in finanziamenti.
Proprio stamattina il governo ha giustamente negato l'utilizzo dei fondi per le aree sottoutilizzate (Fas) a Lazio, Campania, Molise e Calabria. Quei fondi devono servire per programmi di sviluppo regionale, e non per coprire il deficit del settore sanitario. Dunque, niente Fas senza piani di rientro adeguati e prima del raggiungimento degli obiettivi previsti. Naturalmente i governatori piangono, e qualcuno (il molisano Iorio e il campano Caldoro) sostiene che il governo gli avrebbe chiesto di alzare le tasse, mentre Scopelliti ha evocato il «rischio» di nuovi tributi. Non ci provate, la scelta di ripianare il deficit sanitario con più tasse è solo vostra. Al governo interessa che ci siano i piani di rientro e che siano rispettati. Se con tagli agli sprechi e alla spesa, o con nuove tasse, è una scelta politica che spetta ai governatori.
A guadagnarci non sono solo le regioni del Sud, ma anche quelle a Statuto speciale del Nord. Se la Toscana presenta un deficit del residuo fiscale di 776 milioni e la Liguria di 3,304 miliardi, non sono da meno realtà a Statuto speciale come Trentino Alto Adige (-2,177 miliardi), Friuli Venezia Giulia (-2,104 miliardi) e Valle d'Aosta (-617 milioni). Il divario sale drasticamente in alcune Regioni del Sud, capitanate dalla Sicilia - dove il residuo fiscale è pari a -21,713 miliardi - seguita da Campania (-17,290 miliardi) e Puglia (-13,668 miliardi). La Lombardia da sola "mantiene" Sicilia e Campania.
Ma il dato più sorprendente è che negli ultimi anni, dal 2002 al 2007, nonostante le lagnanze meridionaliste, il flusso da Nord a Sud è addirittura aumentato. In Lombardia, ad esempio, l'attivo è aumentato del 47 per cento, in Piemonte del 33 per cento e in Veneto del 32 per cento. I cittadini di queste tre regioni probabilmente se ne sono accorti, mentre a Roma e nel Centrosud del Paese l'opinione prevalente è che non si faccia abbastanza per il Sud, che qualche "cattivone" abbia chiuso i rubinetti. Sarebbe ora, ma non è così. Per il Sud non si fa certamente abbastanza in termini di politiche, ma si va molto oltre la decenza in finanziamenti.
Proprio stamattina il governo ha giustamente negato l'utilizzo dei fondi per le aree sottoutilizzate (Fas) a Lazio, Campania, Molise e Calabria. Quei fondi devono servire per programmi di sviluppo regionale, e non per coprire il deficit del settore sanitario. Dunque, niente Fas senza piani di rientro adeguati e prima del raggiungimento degli obiettivi previsti. Naturalmente i governatori piangono, e qualcuno (il molisano Iorio e il campano Caldoro) sostiene che il governo gli avrebbe chiesto di alzare le tasse, mentre Scopelliti ha evocato il «rischio» di nuovi tributi. Non ci provate, la scelta di ripianare il deficit sanitario con più tasse è solo vostra. Al governo interessa che ci siano i piani di rientro e che siano rispettati. Se con tagli agli sprechi e alla spesa, o con nuove tasse, è una scelta politica che spetta ai governatori.
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