Molte cose buone nella manovra correttiva varata ieri - alcune sia pure simboliche o poco più (come i tagli agli emolumenti di politici, partiti, magistrati e supermanager), ma autentiche sconosciute nel nostro Paese - e due critiche sostanziali. La prima, la mancanza di coraggio nei tagli. Nella situazione in cui è il nostro Paese, qualsiasi taglio alla spesa pubblica, a prescindere, è cosa buona e giusta, e spesso molto "costosa" politicamente. Tanti piccoli tagli (stretta su enti locali, ministeri, pubblico impiego, invalidità, farmaci, e a grande richiesta soppressione di enti inutili e 10 mini-province) che producono nell'insieme un taglio significativo del deficit (1,6% in due anni), ma non risolutivo. Nel senso che un governo di centrodestra dovrebbe nutrire l'ambizione dell'abbattimento del debito pubblico, almeno di programmarlo, e non del mero contenimento. Per questo, serve intervenire in profondità nei pilastri della spesa, riformandoli radicalmente. Mi riferisco a sanità e pensioni, apparati dello Stato, privatizzazioni.
La riforma Brunetta, per esempio, come abbiamo già osservato, è finalizzata a far funzionare meglio le amministrazioni pubbliche, ed è certo importante e auspicabile introdurre un buon meccanismo di incentivi-disincentivi, ma non mira al dimagrimento dell'apparato statale in termini quantitativi e qualitativi. E' una responsabile impostazione "statalista", di chi crede nei servizi statali e cerca di farli funzionare. All'Italia servirebbe invece, in una qualche misura, uno "smantellamento".
Adesso possiamo ripetere quanto ci apparve chiaro fin dall'inizio: non aver approfittato della crisi per fare le riforme più "costose" politicamente, sostenendo che non si potevano fare proprio a causa della crisi, è stato un errore. Perché ora la crisi del debito ci ha presi in contropiede e nell'urgenza non si sono potute mettere in campo, ammesso che avessero voluto, riforme strutturali che non erano state preparate. Ma nel valutare con occhio critico la manovra tremontiana bisogna sempre tener conto delle direzioni in cui hanno spinto e spingono le forze politiche, interne alla stessa maggioranza o dell'opposizione. Insomma, le alternative politiche concrete (non quelle auspicabili), hic et nunc, a Tremonti. Guardiamoci in faccia: tranne qualche volenteroso blog liberale, chi davvero vuole tagli alla spesa più coraggiosi, e traumatici, di quelli di Tremonti? E quanti, invece, tra i suoi critici, sarebbero pronti a gridare alla "macelleria sociale"?
Al ministro va riconosciuto infatti il merito di aver resistito alle tentazioni interne e alle pressioni esterne, ieri di quanti avrebbero voluto che si rispondesse alla crisi con cospicue misure di stimolo, che gli altri Paesi si sono potuti permettere - sia pure con effetti dubbi - ma che ci avrebbero condannati al destino della Grecia; oggi di chi cerca di salvare il proprio orticello dalla scure della manovra. Ormai note le reiterate richieste di Bersani - addirittura fino a ieri - per «soldi freschi» da mettere in un «vero pacchetto di stimolo». Ma le spinte dall'interno del governo e della maggioranza non sono di segno molto diverso. Come emerge dai resoconti passati, così come di questi giorni, le tensioni e i contrasti con Tremonti sono originati da tentativi di limitare e ammorbidire i tagli, non da richieste di intervenire più in profondità sulla spesa. Fa eccezione Berlusconi, che ha chiesto al ministro di rendere possibile il taglio delle tasse.
Se agisce piuttosto bene sul fronte del deficit, il principale difetto della manovra - e siamo alla seconda critica, e alla seconda mancata ambizione - è sul versante della crescita. Non può sfuggire la fiscalità di vantaggio per il Sud prevista almeno come possibilità - a quanto pare di capire sarà concessa a discrezione delle regioni interessate, che potranno ridurre o azzerare una tassa sostitutiva dell'Irap - ma la manovra interviene sul numeratore del rapporto deficit-Pil, non sul denominatore. Ed è il denominatore la chiave di volta, la bacchetta magica. Quel Pil che non riuscendo più a farlo crescere, qualcuno vorrebbe liquidare come indicatore antiquato. Peccato che i nostri creditori guardino innanzitutto alla nostra capacità di creare ricchezza con i soldi che ci prestano. Se da un lato la situazione dei conti pubblici e la crisi non consentono di ridurre le tasse, dall'altro è anche vero che riducendo le tasse si può rilanciare la crescita, che a sua volta, in modo più indiretto ma persino più efficace, può aiutare la finanza pubblica.
Il problema però è capire come crescere e questo non è affatto scontato. Parlare di crescita è facile, tutti ne parlano, ma bisogna distinguere tra chi propone cosa. Bisogna fare attenzione, perché in Italia coloro che battono sul tasto della crescita si dividono in due tipologie: nella maggioranza dei casi purtroppo il partito della crescita nasconde un partito della spesa, cioè di chi è convinto che una politica per la crescita sia quella dei pacchetti di "stimoli". Soldi che vengono da tagli alla spesa o da nuove entrate per alimentare altra spesa. Questa è redistribuzione, nella migliore delle ipotesi una politica per la crescita dirigista e altamente inefficiente. E non manca chi usa lo slogan delle "riforme strutturali" a vanvera, perché di moda, ma poi sarebbe il primo a parlare di "macelleria sociale" nel caso in cui certe riforme si facessero per davvero.
Il giudizio sulla manovra dipende molto quindi da cosa si deciderà di fare con i 24 miliardi di euro incassati. Se saranno quasi interamente utilizzati per ridurre la spesa e il deficit, bene; se saranno in parte utilizzati per la crescita, ma producendo la solita spesa di "stimolo", male; se saranno investiti almeno in parte in una riforma fiscale anche graduale, o nella riduzione del cuneo fiscale, allora benissimo, perché è il modo "sano" per crescere.
Ultimo appunto, la conversione che Tremonti ha imposto al governo e persino a Berlusconi sulla tracciabilità, un tabù cui eravamo affezionati: tra la soglia dei 5 mila euro e i 500 o i 100 euro di Visco c'è (ancora) una grande differenza, ma diciamo che questo governo fa un ulteriore passetto verso quello «Stato di polizia tributaria» che giustamente si rimproverava alla coppia Prodi-Visco di volere. Personalmente, ho una visione opposta sul problema dell'evasione e dell'economia sommersa. Considerando l'enorme spesa pubblica, e dunque l'incredibile quantità di sprechi e inefficienze, c'è da dubitare che ogni singolo cent recuperato vada a miglior causa (sia in termini morali che di efficienza economica) rispetto a quella cui lo avrebbe destinato l'evasore, sia che lo impiegasse per l'acquisto di un nuovo yacht, sia per mandare avanti la sua azienda (con annessi lavoratori).
Rimane un espediente demagogico, quello della lotta all'evasione, ma evasione e sommerso oggi rendono possibile impresa e lavoro laddove con i costi imposti dallo Stato non sarebbero possibili. Sono in realtà spesso, soprattutto al Sud, una costosa ma forse indispensabile forma di ammortizzatori sociali. E visto l'elevato livello di tassazione, l'impressione è che più si incrudelisce la lotta, più nel medio-lungo termine avrà un effetto depressivo.
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