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Monday, May 17, 2010

Oltre i privilegi, oltre gli sprechi

La crisi del debito è allo stesso tempo crisi di non-crescita e crisi dello Stato sociale europeo

Stupisce chi si stupisce per la continua discesa dell'Euro: la crisi del debito ha messo in luce (poiché ne è la conseguenza) le difficoltà di crescita dei Paesi che fanno parte della moneta unica (e non solo quelli del Sud) e con un piano da 1 trilione non si può, al di là degli escamotage formali, far finta di non aver generato inflazione. Più moneta in circolo, è ovvio che valga di meno. Se non altro, al di là delle battute demagogiche contro gli speculatori, che servono ai politici per nascondere le proprie gravi responsabilità nella gestione finanziaria degli Stati, sembra che i governi europei abbiano compreso la causa e la natura della crisi e siano decisi a intervenire con cospicui piani di tagli alla spesa pubblica. Tuttavia, c'è modo e modo di tagliare. E da come si apprestano a farlo non sembra affatto che venga messo in discussione ciò che da anni, da ben prima della crisi economica, si sta rivelando sia la causa diretta del debito crescente, sia un ostacolo indiretto alla crescita: il modello di welfare europeo, il più costoso del pianeta, che non è più sostenibile così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.

Bisogna tagliare, e anche l'Italia comincia a pensarci sul serio. Si parla di 25 miliardi in due anni. Sono tanti, forse ne servirebbero di più. Se è vero - come è vero - che un taglio del 5% degli stipendi dei parlamentari e degli alti dirigenti pubblici (gli «alti papaveri») sarebbe una «briciola», allora Rizzo e Stella, sarcastici su Calderoli il «tagliatore», dovranno riconoscere che altrettanto demagogica è la loro inchiesta sui costi della casta. «Briciole» sarebbero i risparmi derivanti dalla proposta Calderoli, così come «briciole» sono i costi della casta da loro denunciati nel "mare magnum" della spesa pubblica. Come scrissi già all'epoca dell'uscita del loro libro, infatti, per quanto quei costi siano emblematici di una vasta realtà di spreco e di privilegi certamente da abbattere, restano poco rilevanti se inseriti negli ordini di grandezza della spesa pubblica.

Occorre dunque distinguere le due questioni: da una parte gli eccessivi privilegi della politica, dall'altra il tema dell'eccessiva spesa pubblica. Non è tagliando i costi della casta che si risolve il problema della spesa, ma ha comunque un significato simbolico che la classe politica faccia per prima uno sforzo (aggiungerei un taglio del 5% ai "rimborsi" elettorali ai partiti). In questo senso va intesa la proposta di Calderoli, identica a quella di Cameron in Gran Bretagna: nessuno dei due si illude che basti questo a risolvere il problema del deficit. «Il costo globale del ceto politico, anche inteso nella sua accezione più ampia (incluse le consulenze) - ricorda Luca Ricolfi su La Stampa - non supera i 4 miliardi di euro all'anno, il che significa che un taglio del 5% frutterebbe 200 milioni di euro... in 2 anni circa 0,5 miliardi di euro, ossia il 2%» dei 25 miliardi che servirebbero. La proposta Calderoli, come osserva giustamente Ricolfi, «dovrebbe essere sostenuta e semmai rafforzata, ma non per il suo impatto sui conti pubblici», bensì «per il suo significato simbolico, come un (minimo) segnale di serietà che la classe politica lancia al Paese».

«I veri costi della politica non sono quelli diretti, ossia l'ammontare degli stipendi della casta, ma i suoi costi indiretti, ossia lo spreco di risorse pubbliche che corruzione e malgoverno infliggono ogni anno al Paese», quella «incapacità di spendere oculatamente il denaro pubblico» che Ricolfi calcola in «80 miliardi». Abbiamo dunque i privilegi da tagliare; abbiamo gli sprechi da tagliare. Ma tutto questo non basta, e a ben vedere non è neanche fattibile, se prima non si mette in discussione qualcos'altro, che sta alla base ed è il presupposto sia dei privilegi che degli sprechi. La crisi del debito è allo stesso tempo crisi di non-crescita e crisi dello Stato sociale.

L'unico a sollevare il tema è Piero Ostellino, sul Corriere della Sera:
«Da tempo, le poche voci liberali che ancora compaiono sui giornali dicevano ciò che adesso scrive il Washington Post: "L'eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati". Ma nessuno ha dato loro retta e capito i prodromi della crisi dell'Euro. Eppure, essa è l'epifenomeno della crisi dello Stato sociale moderno. Se ciò che dà (col welfare) è più di quanto potrebbe, c'è squilibrio di bilancio che porta alla crisi finanziaria; se ciò che toglie (con le tasse) è più di quanto dovrebbe, la crescita del Paese si arresta. Lo Stato sociale moderno è oggetto di statolatria... L'alibi "sociale" ha giustificato l'ipertrofia e l'autoreferenzialità burocratiche dello Stato moderno, il quale produce "plusvalore politico" per chi ne detiene il potere con l'eccesso di spesa pubblica e di tassazione».
Nonostante l'esplosione della crisi del debito, anziché mettere in discussione lo Stato sociale, riducendo quindi le sue dimensioni, i governi preferiscono «divorare i loro cittadini per sopravvivere». Ed ecco, dunque, che lo Stato sociale mostra il suo vero volto tirannico, in nome di un malinteso senso di giustizia minaccia libertà e democrazia:
«I rappresentanti del popolo non esercitano il potere in nome, e al servizio, del popolo, ma è il popolo a essere al loro servizio al solo scopo di far funzionare la macchina pubblica dalla quale essi, quale ne sia il colore, hanno una "rendita politica"... In una società corporativa, il potere politico fa da mediatore fra le corporazioni in conflitto e, in una condizione di recessione economica, distribuisce le scarse risorse disponibili non secondo criteri di giustizia, ma in funzione della propria perpetuazione. A uscirne massacrati sono il singolo individuo, non protetto da una qualche corporazione, e le aziende che operano sul mercato. Le riforme si allontanano. I media, invece di guardare dentro la macchina dello Stato moderno e denunciarne costi e pericoli - in definitiva, invece di fare il loro mestiere hanno taciuto e ancora tacciono; vuoi per conformismo, vuoi per riflesso degli interessi extra editoriali dei loro editori, finendo col farsi dettare l'agenda dagli stessi responsabili della crisi».

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