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Thursday, January 12, 2006

Per una cultura del «buon uso» degli psichedelici

Werner Horvath - Drugs I (Jim Morrison, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin)Caro Gianni,
credo che questo tuo secondo commento ci faccia giungere al dunque. Non contesto le ragioni e l'approccio di Hofmann sull'uso degli psichedelici, probabilmente dal punto di vista delle sue conoscenze molto fondati. Non importa se parlasse da scienziato, da filosofo, o da edonista, ammetto sulla fiducia che le sue scoperte siano tutte valide. Dico solo che a un certo punto si arriva a un imbuto, o a un bivio. Vediamo come.

Scrivi che «in un mondo tecnicizzato e consumista, per fortuna o sventura desacralizzato, e dove non esiste una cultura del peyotl o di sostanze affini, e però esiste una civile e sofisticata cultura del vino (a differenza del mondo islamico), gli psichedelici nel mondo moderno sono confinati nell'imbuto del privato. Nel filone che parte da Baudelaire fino a Walter Benjamin, le droghe sono esperienza privata (al pari della privatizzazione degli escrementi, della masturbazione e della morte iniziata nell'Ottocento). Nel mondo moderno, in altre parole, le droghe restano esperienze senza una cultura del buon uso delle droghe, senza rito-iniziazione. Senza quindi limitazione».

Ti rammarichi che non esista una «cultura del buon uso» degli psichedelici, che l'esperienza delle droghe sia confinata nel privato, mentre al contrario osservi che «esiste una civile e sofisticata cultura del vino», ma non ti chiedi il perché. Provo a dare io una risposta. E' il proibizionismo, e la clandestinità cui una sostanza è costretta, a impedire il formarsi intorno a essa di una cultura del suo corretto uso. Se oggi possiamo affermare che esiste una cultura addirittura «sofisticata» del vino è perché il suo consumo è libero e di massa. Certo, non manca chi ne fa un uso eccessivo e autolesionista. Citi Artaud e la sua attenzione a non superare la dose nel bere il ciguri, ma in definitiva dobbiamo ricordarci che è impossibile salvare qualcuno da se stesso. L'abuso di cibo, per esempio, uccide, ma nessuno pensa di limitarlo, al massimo di dissuaderlo.

Possiamo affermare, quindi, dopo decenni di sperimentazioni sul campo, che non solo le legislazioni proibizioniste non riescono a impedire il consumo delle droghe, ma impediscono il formarsi di una cultura del loro «buon uso». L'unico effetto che sembrano produrre è un uso disinformato e incontrollato che diviene facilmente abuso, il male peggiore. L'antiproibizionismo, al contrario, partendo dalla semplice constatazione che è letteralmente impossibile impedire a qualcuno di ingerire o iniettare nel proprio corpo una sostanza, promette proprio, o almeno, il libero formarsi di quella «cultura del buon uso» delle sostanze che tutti auspichiamo.

Obietti che «il buon uso di tali farmaci, un uso significativo e utile a se stessi e alla società, presuppone non solo uno scopo, un'intenzione, una finalità in accordo con la natura della spiritualità umana, ma anche opportune preparazioni interne ed esterne. Senza un limite, niente è cultura, niente ha più significato, ci si dissipa nell'illimitato... nella vanificazione e l'insignificanza dell'esperienza stessa». Personalmente mi sento lontano da una "cultura del limite", nel senso che se il mio agire non trova ostacolo esterno, rappresentato da una minaccia, un danno possibile, o dal rispetto che devo alla libertà altrui, credo che non abbia senso, in linea di principio, porre io stesso dei limiti al mio agire. Ma ammesso che sia il limite a fare la cultura, di sicuro questo non può essere imposto, deve semmai scaturire dalla libera interazione degli individui e dei gruppi sociali.

Come evitare allora «l'uso indiscriminato e illimitato» di psichedelici che condanni? E' qui che arrivi al bivio. Finora il tuo discorso è rimasto sul piano culturale, direi gnoseologico, ma ora devi scegliere se trarne delle conseguenze politiche. Non date la «carne di Dio» in pasto al popolo, poiché la massa, sostieni dimenticando che parliamo dell'esperienza più individuale, è incline «al saccheggio, all'incomprensione, alla demagogia, alla repressione e all'aggressività, alla spettacolarizzazione e alla pubblicità (...) Non sta bene mettere un bel pezzo di figa in mano ai bambini... Non solo sarebbe sciocco, ma non potrebbero apprezzarla e non saprebbero che farsene». Indubbiamente una frase del genere potrebbe essere estesa a ogni bene della vita, dalla mela di Adamo ed Eva a un auto, da un certo libro "proibito" al diritto di voto. Comprendi su quale piano scivoloso siamo finiti?

Seppure siamo liberi di speculare all'infinito su quanti siano gli sciocchi di questo mondo che dei beni della vita e della vita stessa non sanno godere, non apprezzano il significato, il problema di dar seguito a queste osservazioni che appaiono ragionevoli è sapere a chi, e sulla base di cosa, dare il potere di discernere tra lo sciocco e il capace. Chi giudica quanti siano «preparati» a sufficienza e quale sia «l'ambiente adeguato». Lasciamo che, come accade nella comunità scientifica, sia la comunità degli amanti degli psichedelici a formulare i propri, relativi e fallibili, protocolli del «buon uso» delle sostanze. Con il consumo libero e di massa generi una cultura delle droghe, come del vino, di un mondo moderno, mentre con il limite generi un nuovo strumento di potere di un mondo pre-moderno. La differenza tra la modernità e la pre-modernità sta in un peyotl: nella modernità è a disposizione di ciascuno, nella pre-modernità privilegio di uno sciamano, che ne esercita sugli altri il potere simbolico.

Se gli psichedelici permettono di rivelare a se stessi la propria psiche e lo schiudersi dell'anima, davvero qualcuno potrebbe assumersi la responsabilità di negarli ad alcuni suoi simili? In definitiva garantendo per sé un sapere iniziatico, senza intermediazione, alla maturità spirituale, e imponendo l'intermediazione a coloro che fossero ritenuti immaturi dai sacerdoti di queste nuove sostanze. Una casta di chierici farebbe da intermediario tra l'indivudo e la sua anima, «una realtà più larga, luminosa e accogliente... non dualista», cioè Dio? Di fronte a tale preclusione il rischio dell'abisso individuale e della dissipazione dell'esperienza non può che essere corso, ma come mostra il caso del vino è l'unica via alla «cultura del buon uso».

1 comment:

gdm said...

Caro Federico,
il proibizionismo, da te portato sul banco degli accusati, effettivamente non è la soluzione, ma anzi è parte del “problema droga” che attraversa la modernità da un paio di secoli. Drogarsi, tuttavia, resta fin dalla preistoria un comportamento naturale degli esseri umani, così come degli animali. Perché gli animali si drogano? Ne parla in un suo libro pubblicato da “Nautilus” l' etnomicologo Giorgio Samorini, nel filone del Mantegazza, il dimenticato primo studioso italiano del fenomeno droga. Samorini è tra i fondatori della Società Italiana degli Stati di Coscienza, diretta dall'amico dottor Gilberto Camilla, dopo la recente scomparsa del compianto dottor Marco Margnelli, neurofisiologo dell'estasi, ricercatore del CNR e consulente, tra l'altro, del Vaticano in quanto studioso della neurofisiologia di soggetti coinvolti in apparizioni mariane. Pare che il drogarsi animale svolga addirittura una funzione nell'evoluzione, sarebbe una ricerca di nuove vie evolutive. C'è dignità e presumibilmente una qualche utilità nell'estasi animale, ma l'uomo cosiddetto civilizzato diffida dell'estasi e sembra temere più la gioia, la gioia eccessiva, che non il più tranquillizzante dolore – forse perché il dolore rende più disponibili all'obbedienza. Nella sua forma ormai generalizzata di depressione individuale e pubblica, il cosiddetto “calo del desiderio” ( con conseguente demoralizzazione del pene in Occidente , della diminuzione delle nascite di nuovi bambini e della quasi scomparsa di ciò che un tempo con liguaggio politicamente scorretto definivamo “bei pezzi di figa”), fa per così dire da collante sociale più della gioia. Quando gli uomini e le donne provano gioia, non obbediscono più.
Nell'uomo il drogarsi, questo enigmatico comportamento naturale, è mediato dalla cultura e può assumere la forma di un vero e proprio desiderio dissidente : un desiderio di sconvolgimento sul quale non abbiamo ancora cessato d'interrogarci.

Nella nostra cultura, che eredita e integra la millenaria cultura greca e mediterranea del vino e quindi del buon uso del vino - ancorché esistano anche casi individuali di alcolismo, cioè di un pessimo uso dell'alcool – il problema droga oscilla fra moralismo e approccio politico, che il più delle volte, con le loro invadenti prospettive, impediscono un approccio antropologico e scientifico alla questione droga, che non appena evocata subito diventa “il problema droga”. Va anche osservato, per inciso, che il vino sta alle nuove droghe ( tipo l'Lsd, derivata dai funghi magici, e tipo DMT, composto della classe delle triptamine, presenti in molte piante e anche parte essenziale della bevanda sacra nota con il nome di ayahuasca o yagé) come la fisica classica sta alla fisica quantistica, come la polvere da sparo sta alla bomba atomica.

La ricerca profonda e libera degli anni Sessanta, avvenne anche attraverso un uso “esaltato” e come “accresciuto”del corpo giovanile sottratto alla famiglia, all'oratorio, al partito, tramite l'incontro tra giovani che si accomunavano al di fuori delle istituzioni e tramite la musica, la danza, l'uso di sostanze psichedeliche, rivelatrici cioè di psiche e in grado di sprigionare l'anima – vale a dire di rendere manifesti processi interni altrimenti invisibili. Naturalmente, da un inconscio ideologicamente descritto come “rizomatico e desiderante”, sebbene potesse anche essere, in taluni casi, meschino e polipesco, se non italiano, medio-italiano ( vedi i viaggi di mel
Marrakech del 1968 Rettifica di Gianni De Martino :http://www.shake.it/dmartino.html)

, veniva fuori di tutto: si poteva incontrare l'estasi ma anche il terrore. Lo chiamavano “trip”, in gergo un po' canagliesco. E ricordo che tale termine, “trip”, buttato lì come un arrosto di porco tra un cristiano e un musulmano, emergeva come una impietosa pietra di paragone tra chi era “in” e chi era “out”, insomma diagnosticava certi divorzi culturali dai quali, se ancora ne scriviamo, significa evidentemente che non ci siamo ancora ripresi, o perlomeno non ancora del tutto ripresi. In pratica, - tra molta arroganza e sacchi a pelo - non potendo affrancare il proletariato, ora il trend rivoluzionario era quello di affrancare tutti i sensi, mettendo in pratica il programma poetico di Rimbaud, di Re Lucertola e di Patty Smith. Ma l'imitazione di massa dello “sgretolamento” non rese quei giovani “veggenti”. E quando i “battelli ebbri” non si trasformavano in canestri ardenti di naufragio, ci si ritrovava cavalieri del nulla, e molti dissero che era stata solo una vacanza e – gettati alle ortiche i fiori, i colletti alla Mao e i calumet che facevano sognare - non pochi ritornarono in città, perché si ritorna sempre in una città, e oggi siedono su borghesissime poltroncine girevoli, un sigaro in bocca, un sorriso brillante come un getto di napalm.

Un approccio politico all'Lsd , non scientifico e antropologicamente fondato, fu quello di Leary, ad esempio, con il suo invito indiscriminato al “ turn on, tune in, drop out”, che gettò migliaia di giovani sulla strada, provocando peraltro le critiche dello stesso Jack Kerouac. Un approccio politico, ideologico e non antropologicamente fondato agli psichedelici fu anche quello di Ginsberg con il suo messaggio ai giovani “ allargate l'area della coscienza”. La mera espansione della coscienza tende all'infinito, può manifestare di tutto come un oceano che contiene sia elementi positivi che negativi, e una tale l'espansione è molto facile e in sé non serve a niente. Più difficile è invece “l'intensificazione” della coscienza e la reintegrazione in una coscienza e un io ben differenziato di ciò che si è “visto” al di là del muro durante l'esperienza metafisica o “ipernormale”. Una tale esperienza non è effetto di un'espansione illimitata quanto piuttosto di una “intensificazione” della coscienza. E molto dipende sia dall'ambiente sia dall'orientamento e dalla preparazione del soggetto, il quale difficilmente potrebbe ricavarne un qualche beneficio ove dovesse accedervi non importa come e non importa quando. Sarebbe come mettere uno in un missile e spedirlo fuori dalla Terra, vedrà cose meravigliose o sconvolgenti, ma – a differenza di un astronauta – non saprà dare significato alle cose viste, gli sembreranno una specie di film. Lo diceva anche zio Marx, mi pare: “ Non perché è nell'acqua, il nuotatore vi scopre le leggi di gravità”. Allo stesso modo, se voglio imparare a danzare, debbo studiare e prepararmi. Non sarei mai stato libero di danzare, se, paradossalmente, un maestro non mi avesse legato e detto “no”. Nel caso, molto delicato, dell'uso di potenti sostanze come l'Lsd, oggi sostituite da sostanze ancora più potenti e spesso di sintesi, dove sono i maestri ?

Nel caso in cui l'esperienza vada bene, non si risolva cioè nel classico bad trip ( anche per non aver potuto determinare la qualità e l'opportuno dosaggio della sostanza ingerita) , più che uno “sballo” si verifica ciò che i primi sperimentatori degli anni Sessanta chiamavano un “accendersi”.
E la sensazione, o piuttosto la concreta percezione, può essere quella di ardere, senza bruciare, sotto cupole di fuoco ardente, fra miliardi di dei iperluminosi e miriadi di aurore boreali in continuo mutamento . Una tale esperienza può certamente essere definita, a seconda delle varie culture, come “coscienza cosmica” ( Alan Watts) o sathori, con vocabolario orientale. E corrisponde a una esperienza centrale, non marginale, della cultura umana e delle esperienze più creative. Per esempio all' “enigma della felicità” di Benjamin dopo l'esperienza con l'hashish, alla “domenica della vita” di Hegel alla vista di certi quadri fiamminghi, alla “conoscenza per gli abissi” di Michaux nel corso di ciò che lui definiva “miserabile miracolo”, al “fuoco” di Pascal toccato dalla grazia, al “roveto ardente” di Abramo che si tolse le scarpe, alla “pasqua” con linguaggio cristiano, alla “sensazione di gloria universale” del surrealista Raymon Roussel – molto amato dagli hippies, perlomeno dagli hippies francofoni. Durante il periodo psichedelico l'accento, invece che sul “significato” fu messo sui fotismi, sui raggi luminosi poi riprodotti nelle discoteche psichedeliche e nell'arte lisergica, riducendo gli antichi raggi mistici a modeste anticipazioni dei raggi tecnologici. Per contrasto, in Huxley, nelle “Porte della percezione”, oltre che della meraviglia di visioni cristalline e iperluminose come la luce bianca descritta dalla Kubler-Ross nelle visioni dei morenti, la parola chiave, ricorrente nella sua evocazione dell'esperienza psichedelica, è la parola “significato”.

Il cuore dell'esperienza è la gioia che, dopo l'inevitabile angoscia, subentra alla scoperta improvvisa che la vita, così come noi stessi, e ognuno, ognuna, ogni più minuscolo filo d'erba, il pianeta Terra e l'Universo nel grande abbraccio della vita e della concreta vividezza della vita, abbiamo un “significato”. Poi possiamo chiamare tale “significato” in molteplici modi. Il dottor Hofmann, per aver sperimentato un “reale luminoso e accogliente, non duale”, lo chiama “Luce”, con la maiuscola, intendendo Dio. E' il dio della gnosi. Personalmente – segnato dall' educazione cattolica e dal rispetto per mio padre, mia madre i miei insegnanti e una storia che non ho alcun motivo per rinnegare, scelgo di fissare da me stesso, liberamente, i limiti della fedeltà a una storia e del disinteresse - e lo chiamo Cristo. Il “Cristo nella materia” di cui parlava Teillhard de Chardin, citato da Hofmann nel corso della mia intervista, certamente è Gesù; e però il Cristo non è solo Gesù, ma ovunque vi sia l'esperienza della gioia e della meraviglia nei confronti del vivente e un qualsiasi gesto, raro, di intelligenza – raro come qualsiasi altro raro e concreto gesto di poesia, di pietà o di compassione.

Ho avuto modo di parlarne al Convegno organizzato l'anno scorso dal Centro buddhista di Giaveno, con una comunicazione dal titolo “ Dal rimbombo psichedelico al silenzio della meditazione”. Dicevo che l'esperienza, generazionale, di una zona visionaria di confine è stata percepita perlopiù come pericolosa e invischiante per la costituzione di un “io” normale, il quale ancorché né solido né irrelato, ma continuo tentatito di strutturazione metaforica, sia perlomeno personale e ben individualizzato. Di fatto, proprio per la mancanza di una cultura della droga, di una “cultura della visione”, oggi limitata alla sola visione degli occhi corporei, è stato molto difficile, quasi impossibile, reintegrare l'esperienza in un significato di valore universale, e non pochi amici e compagni si sono fermati a una prima fase de-costruzionista, necessariamente distruttiva, continuando a puntare il dito – anche a ragione – contro il proibizionismo. Un po' contro il proibizionismo, un po' contro il governo ladro, e un po', ovviamente, contro la Chiesa cattolica, alla quale va molto di moda, e non da oggi, negare ogni forma di sapere sul bene, accusandola con un odio che ritengo immotivato di aver “sequestrato” l'esperienza mistica, che peraltro non è che “una” forma di un'ampia varietà di esperienze estatiche per le quali l'Occidente – nonostante la presenza delle tante acquisizioni artistiche e filosofiche delle avanguardie del Novecento - non possiede mappe, per così dire la cartografia. Non a caso, alcuni iniziatori del movimento psichedelico, come Richard Alpert e lo stesso Ginsberg – mentre altri, perlopiù arancioni come il povero Rostagno o il buon Valcarenghi, rinunciavano ai dèmoni del Novecento per affliggere il mondo con una pletora di angeli new age - si sono avvicinati al buddhismo vajrayana ( il buddhismo dei lama esuli dal Tibet, dal 1959, dopo l'invasione dell'Armata rossa) perché sembrò loro che, a differenza della cultura occidentale, il vajrayana custodisse le mappe di una vera e propria “cultura della visione”, riccamente articolata, a fini non solo artistici, estetici o filosofici ma specialmente a fini spirituali.

Di fatto, con le disponibilità estatiche potenzialmente presenti nel sistema nervoso, ed attivabili tramite l'uso di sostanze chimiche o anche di condizionamenti specifici come i riti, la meditazione o anche le pressioni del gruppo di appartenza, si può fabbricare di tutto: dai santi in estasi fino all'uomo-bomba oggi celebrato come shaid in gran parte del mondo islamico. In altre parole, l'induttore estatico è neutro, e molto dipende dall'orientamento del soggetto, dall'ambiente, dalla cultura e dalle aspettative del gruppo di appartenza. Così, ciò che provoca l'estasi dei santi, può anche provocare ebrezze criminali. E', questa, la naturale ambiguità di psiche, così come la naturale ambivalenza del farmaco psichedelico.

Non sono un proibizionista militante, ritengo anch'io come il dottor Hofmann che le droghe psichedeliche, gli “enteogeni”, come si dice oggi, debbano essere considerati tabu, specialmente per i giovani, ma non proibiti. Tabu è un termine che presuppone il “sacro”, e come esistono gli istruttori di volo per chi vuole fare il pilota, o i maestri di danza per chi vuole essere libero di danzare, mi riesce difficile capire per quale motivo non dovrebbero e non potrebbero esistere anche scienziati, sacerdoti e istruttori dell'anima. Certo, la Teoria democratica è un “valore”, ma ho visto non pochi malori provocati da un uso sconsiderato degli psichedelici per fare della democrazia un dogma astratto e crudele. I malori saranno anche causati dal proibizionismo, da un problematoco contesto d'incomprensione e di aggressività, però non tutti gli entronauti sono intronati e totalmente condizionati. Esiste un margine, sia pure esiguo, per l'esercizio di una libertà responsabile e la “colpa” non è sempre del solito “sistema”.

La libertà è sempre presente, non è il paradiso, e forse occorre imparare a pagarne il prezzo. Era Michaux che, sbagliandosi, profetizzava che questo secolo era stufo del paradiso e che ci saremmo accontentati di un po' di conoscenza. A quante pare, si vuole il paradiso, una specie di paradiso privo di tensioni, di fatica e di conflitti: simile, in un certo senso, alla placida orizzontalità dell'estasi animale. Insomma, ho non poche perplessità – date le condizioni demagogiche oggi esistenti per la costituzione di una coscienza, e per aver visto numerosi disastri, anche in forma di cadaveri di cari amici posti in orizzontale – sull'uso indiscriminato di massa di potenti sostanze psicotropiche, cioè modificatrici temporaneamente della coscienza, come l'Lsd, il peyotl, o le nuove droghe sintetiche; e personalmente diffido di quelle sostanze che danno assuefazione come l'eroina o la cocaina. Insomma, dell'eroina e della cocaina ho paura, specialmente se penso ai miei due figli che spero se ne tengano alla larga, mentre per gli psichedelici provo un sentimento di giusto timore, proprio come quei primitivi dei nostri antenati che, non senza saggezza, le consideravano sacre, com'è sacra la vita. Per quanto riguarda la marijuana, una tale sostanza derivata dalla nobile pianta della cannabis è certamente meno nociva del tabacco o dell'alcool, da un punto di vista scientifico, e però viene bandita da un punto di vista che resta politico, di opportunità politica. Tra due dogmi, quello del proibizionismo e quello dell'anti-proibizionismo, francamente non saprei cosa scegliere. Nell'attesa, non inerte, di chiarire a me stesso aspetti della questione che non ho ancora chiaramente messi a fuoco, resto, per così dire, in una posizione aporetica di tranquilla inquietudine e di paziente ricerca.

Riferimento bibliografico:
Zolla, Elemire ( a cura di)
Dio dell'ebbrezza (Il). Antologia dei moderni dionisiaci
Einaudi - Collana: Stile libero
http://www.liberonweb.com/asp/libro.asp?ISBN=8806143085- Contributi di:
... Antonin Artaud, Walter Benjamin, Gottfried Benn, ... William S. Burroughs, Carlos Castaneda, Jean Cocteau, Géza Csáth, Gabriele D'Annunzio, Gianni De Martino, Robert Eisler, Sigmund Freud, Federico García Lorca, Peter Gorman, Gus di Zerega, Herman K. Haeberlin, Sabine Hargous, Aldous Huxley, Wolfgang G. Jilek, Ernst Jünger, Tommaso Landolfi, D. H. Lawrence, Francesco Mari, Emilio Marozzi, Matgioi, E. Jean Matteson Langdon, Henri Michaux, Nguyen-Te-Duc-Luat, Friedrich Nietzsche, Mark Plotkin, Raymond Prince, Viviana Pâques, Thomas J. Riedlinger, Giorgio Samorini, Ronald K. Siegel, Janet Siskind, Lev Tolstoj, Susana Valadez, Ramón del Valle-Inclán, R. Gordon Wasson, Gerhart Zacharias