La situazione nei territori palestinesi sembra precipitare verso il regolamento di conti se non la guerra civile. La comunità internazionale, non dicendo una parola chiara, rischia di dare una spinta a questo precipitare. Primo: i risultati elettorali non si toccano. Secondo: con i terroristi non si tratta. E' la posizione subito espressa da Washington, che non tratterà con chi vuole distruggere Israele, non tratterà con Hamas esattamente come non ha trattato con Arafat negli ultimi anni. L'incongruenza è evidente, ma necessaria.
Da una parte legittimare il risultato democratico è un'esigenza, ne va della credibilità della democrazia e della nostra convinzione in essa agli occhi di tutti i popoli arabi. Non possiamo, proprio noi democratici, abolire la democrazia quando i risultati non ci piacciono. Che dovremmo fare? Aiutare Fatah a riprendere il potere? Cambierebbe qualcosa? Israele sarebbe forse più sicura? Dall'altra però imporre la rinuncia al terrorismo, il disarmo delle fazioni, l'apertura della società palestinese, il rafforzamento di istituzioni e pratiche democratiche. Solo in tale contesto «i palestinesi prima o poi si accorgeranno di aver fatto una scelta sbagliata, di cui cominceranno presto, purtroppo, a subire le conseguenze».
Ieri Christian Rocca ha riportato le posizioni di alcuni diplomatici e analisti americani. Dennis Ross, l'ex inviato di Clinton in Medio Oriente e capo negoziatore a Camp David, ha spiegato che i palestinesi non hanno votato per Hamas perché favorevoli alla lotta armata contro Israele, ma perché rispondeva «ai bisogni e alle politiche locali» e per rabbia contro la corruzione dilagante nell'Anp. La cosa da fare però ora è «isolare la leadership di Hamas, affinché capisca che non potrà raggiungere alcun obiettivo se non rinuncia a quelli inaccettabili». Concorda Max Boot, del Los Angeles Times: «La vittoria di Hamas [è] dovuta più al disgusto nei confronti della corruzione di Fatah che al desiderio di dichiarare guerra totale contro Israele, anche se questo è certamente l'obiettivo di Hamas. Stati Uniti e Unione europea non dovranno dare nemmeno un centesimo alle istituzioni palestinesi guidate da Hamas». Steven Cook, del Council on Foreign Relations, avverte innanzitutto gli europei: «Non facciamoci prendere in giro, specialmente voi creduloni europei, magari pensando che Hamas in qualche magico modo si sia trasformato in un'organizzazione nuova...». Ciò non significa voltarsi dall'altra parte e non favorire pragmaticamente, ma senza compromessi sulla rinuncia al terrorismo, la trasformazione di Hamas in organizzazione civile.
L'incongruenza necessaria mi sembra manifesta anche nell'editoriale di oggi di Biagio De Giovanni, su il Riformista. Da una parte «giusto riconoscere, al primo segnale, il governo che nascerà in Palestina dopo la vittoria di Hamas. Si tratta quasi di un esperimento "in vivo" di scienza politica: verificare se l'insediamento, per via democratica, di una organizzazione terroristica al governo di quel paese, sia adeguato per produrre l'avvio della sua trasformazione in forza politica. Non c'è altro percorso, in Medio Oriente, dove l'avvio di esperimenti democratici non ha presupposti costituzionali, né valori universali condivisi, ma tutto si concentra nella novità del voto, su cui, peraltro, si stanno costruendo il nuovo Afghanistan e il nuovo Iraq... accanto a quel riconoscimento si stringa, per un lunghissimo periodo, la solidarietà di tutto il mondo civilizzato con Israele, non la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni, bensì la convinta scelta di difenderla con ogni mezzo, nessuno escluso...»
Come «stringerci» intorno a Israele? Senza sbraitare a vuoto verso Hamas e i mullah iraniani, scrive oggi Oscar Giannino, «basterebbe limitarsi a un solo atto di immensa portata politica». Israele nella Nato e, aggiungono i radicali ormai da anni, subito nell'Unione europea. «Stendendo il confine della sicurezza occidentale in tutto e per tutto a quello di Israele, che soddisfa pienamente i requisiti di adesione all'Alleanza Atlantica per essere una democrazia, a libero mercato e pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune anche dei suoi nuovi alleati, col suo 10% del pil di spese militari, 167 mila uomini e donne alle armi e 358mila della riserva». L'idea di aprire a Israele le porte della Nato è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, impraticabile l'opzione militare diretta agli impianti e senza sbocchi i negoziati, sarebbe questo l'unico modo per convincere gli ayatollah che proseguire con i piani nucleari non gli conviene.
«Non si possono cambiare le regole del gioco perché vincono gli avversari». Hamas ha vinto, che governi; discutiamo, ma «ponendo delle condizioni molto precise e soprattutto cercando di essere credibili», mi sembra il senso dell'intervista di Emma Bonino, oggi al Corriere della Sera, che al di là del titolo semplificatorio («Sono terroristi, ma trattiamo») mi sembra più sfumata e ambigua. Sbaglia però, chi volesse vedervi un cedimento al compromesso e al realismo. «E' un governo di gente che usa e ha usato il terrorismo, ma Arafat non era molto diverso». Discutere, aprire rapporti diplomatici, non significa per forza essere accondiscendenti, anche se le pessime prove dell'Europa indurrebbero a ritenere il contrario. Ma in questi anni l'Europa semplicemente non ha fatto diplomazia, si è schierata contro Israele.
«... in Palestina non abbiamo fatto abbastanza per la costruzione istituzionale, tant'è che all'Anp abbiamo dato centinaia di milioni di euro all'anno senza mai porre un limite alla corruzione, né allo spreco, né alla sovrapposizione di ben 14 servizi segreti intorno ad Arafat. L'Ue ha sostenuto a lungo che non c'era soluzione senza Arafat finché non se ne era occupato il padre eterno. E lo stesso abbiamo fatto e facciamo con tanti regimi: subiamo il fascino dei dittatori, in nome della stabilità a qualunque prezzo».Se questo atteggiamento cambia, diventa possibile discutere, non trattare, con Hamas, mettendo così un punto fermo sul rispetto delle regole democratiche, legittimando la democrazia stessa, instaurando rapporti diplomatici non più all'insegna delle "carote senza bastoni", come ha fatto finora l'Europa, ma delle "carote E bastoni". L'analisi della vittoria di Hamas è la stessa di Ross e Boot:
«In Palestina lo slogan era "riforme", non "vendetta": chi ha votato Hamas lo ha fatto non necessariamente contro Israele ma perché Hamas è apparsa meno corrotta di Al Fatah... Hamas ha vinto e ha promesso, in campagna elettorale, uno stato più efficiente, riforme, distribuzione della ricchezza. Dovrà mantenere le sue promesse e per questo avrà bisogno di riconoscimento internazionale. Quindi credo che con questi signori si debba discutere, ponendo delle condizioni molto precise e soprattutto cercando di essere credibili».Prima di tutte: «Sostenere lo sviluppo democratico del Paese, se verrà confermata la tregua con Israele»
«Certo è che non si promuove la democrazia con mezza mano. Si fa se ci si investe, non a intermittenza e con il minimo indispensabile. Non capisco perché ci sia venuto in mente di esportare la democrazia, quando forse basterebbe sostenere quei democratici che in moltissimi Paesi arabi cercano di fare una politica meno corrotta, più liberale. Penso a tutti gli emarginati di Arafat. Quando furono esclusi decine di candidati democratici in Iran, nessuno protesta in Occidente, l'Onu accetta di fare la conferenza mondiale sulle nuove tecnologie e la libertà di espressione a Tunisi, dove a presiederla c'è l'ex ministro degli Interni e capo dei servizi segreti... Dovremmo essere più coerenti per essere più efficaci».E' la critica indiretta con cui conclude l'intervista, la medesima che persino i neocon rivolgono, agli Stati Uniti perché quel che fanno è ancora troppo poco per promuovere la democrazia, «a intermittenza e con il minimo indispensabile», e all'Europa perché non fa proprio nulla.
2 comments:
Io ho commentato l'intervista in maniera un po' diversa. http://www.ilmegafono.net/archivio/per-emma-bonino-bisogna-trattare-con-hamas-per-me-no
Anch'io considero legittimo il governo futuro di Hamas ma prima di trattare non è meglio attendere l'abbandono del terrorismo e della distruzione di Israele?
Il rischio di una "deriva" realista secondo me esiste. E dobbiamo evitare di cadere nella trappola.
Domenico
www.ilmegafono.net
Robinik annuncia l'uscita da TV salvo poi esserne ancora dentro.
Bella coerenza.
E continua a censurare, offendere e prendere per il culo i radicali.
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