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Thursday, January 05, 2006

Fukuyama processa il multiculturalismo europeo

Mi sono accorto che stavolta ha proprio ragione Francis Fukuyama, pensatore che non apprezzo particolarmente, trattando in un lungo articolo tradotto ieri dal Corriere della Sera i problemi del multiculturalismo europeo. Per la verità il titolo «L'Europa è la Mecca dell'Islam globale» può far pensare a una tirata fallaciana contro l'immigrazione islamica, ma non è così. La sua è, anzi, un'attenta riflessione sulla necessità di corrette politiche d'integrazione. Inclusione, non esclusione, è la parola d'ordine. Il radicalismo islamico ha preso piede in Europa grazie ai danni provocati sia dalla malintesa forma di tolleranza del multiculturalismo europeo, sia dal carattere escludente dell'attuale modello sociale ed economico continentale.

Il senso di identità alla propria comunità nazionale nei paesi europei è ancora forte ma non è accessibile agli immigrati maghrebini e musulmani. A questa prima inaccessbilità si somma l'esclusione dalla vita economica e sociale dei nostri paesi causata da modelli che privilegiano i già garantiti e le corporazioni.
«L'integrazione è ulteriormente impedita perche la rigida legislazione europea in materia di occupazione ha reso difficile per gli stranieri di piu recente immigrazione o per i loro figli trovare lavori anche poco qualificati. Una percentuale notevole di immigrati vive così di sussidi, il che significa non avere la dignità di dare un contributo attraverso il lavoro alla società che li circonda. Loro e i loro figli si percepiscono perciò come esclusi».
A rispondere al problema dell'identità degli immigrati islamici arriva quindi «una versione universalistica e pura dell'Islam» che sfrutta «le medesime forme di alienazione nei giovani che nelle generazioni precedenti diventarono anarchici, bolscevichi, fascisti o membri della Baader-Meinhof. Cambia l'ideologia, non la psicologia che ne sta alla base». E l'Europa si ritrova con giovani musulmani arrabbiati che si fanno esplodere in metropolitana, ammazzano registi, o si danno al teppismo urbano.

Secondo Fukuyama, bisogna in primo luogo «capovolgere le controproducenti politiche multiculturaliste che hanno protetto il radicalismo, e dall'altro reprimere gli estremisti. In secondo luogo, devono però anche riformulare le loro definizioni di identità nazionale in modo da renderle più adatte a ricevere persone con un background non occidentale». Il primo nodo è più facile da sciogliere:
«La tolleranza liberale è stata interpretata come rispetto non per i diritti dei singoli ma dei gruppi, alcuni dei quali proprio loro intolleranti (con l'imposizione, ad esempio, di chi le proprie figlie dovessero frequentare o sposare). Per un senso sbagliato di rispetto nei confronti delle altre culture, si è dunque lasciato che le minoranze musulmane autodisciplinassero i propri comportamenti, un atteggiamento che si coniugava con un approccio corporativo tradizionalmente europeo nei confronti dell'organizzazione sociale. In Olanda, dove lo Stato sostiene scuole separate cattoliche, protestanti e socialiste, è stato abbastanza facile aggiungere un "pilastro" musulmano che si è rapidamente trasformato in un ghetto, separato dalla società circostante».
Il secondo, quello di un'identità nazionale che sia «fonte di inclusione, non di esclusione», è più complicato.

Nel luglio scorso avevamo provato a mettere «sotto processo» il multiculturalismo, a partire dalle riflessioni di Magdi Allam sul «doppio binario giuridico» e dalle preoccupazioni di Adriano Sofri per una convivenza con le comunità islamiche all'interno delle nostre società che troppo spesso diviene connivenza con una legalità, parallela a quella statuale, che impone violenze, brutalità, sottomissione.

Questo fraintendimento sul significato dell'integrazione fra culture e comunità religiose diverse, osservavamo, è stato affiancato e aggravato dallo spirito concordatario che anima i nostri Stati. Anziché integrare individui abbiamo cercato di integrare comunità, invece di assicurare l'esercizio di libertà e diritti a quei singoli individui, all'interno delle nostre città abbiamo concesso delle autonomie etnico-confessionali, se non veri e propri rapporti privilegiati con lo Stato, a etnie e gruppi religiosi in quanto comunità. Esse, e non il singolo individuo, sono così divenute i naturali soggetti di diritto, portatrici di istanze meritevoli di attenzione e destinatarie dei benefici di solerti sindaci. Così, in nome di una malintesa tolleranza, abbiamo chiuso un occhio su usanze e comportamenti contrari, non alla nostra cultura, non è questo il punto, ma al nostro diritto positivo basato sul rispetto della persona e dei diritti individuali. E accusando di "razzismo" chi chiedeva rispetto della legalità e maggiori controlli, abbiamo sacrificato sull'altare del relativismo la possibilità di una vera integrazione fondata su principi di convivenza civile condivisi.

Occorre recuperare la dimensione dell'individuo come soggetto di diritti, dando minore spazio a politiche pubbliche incentrate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo. Altrimenti il rischio è quello di trovarci di fronte a società tribalizzate, frammentate, prive di centro politico, dove molti gruppi culturali affermano la propria identità attraverso il vittimismo, il risentimento, l'ideologia politica. Nel novembre scorso Marco Pannella a Radio Radicale metteva in guardia: «Se multiculturalismo significa creare situazioni concordatarie con organismi detti rappresentativi di ambienti religiosi o altro, sono contrario. Il pluralismo è un valore che non ritengo tale, sono sulle posizioni di Martin Luther King: gli individui vanno tutelati nei loro diritti e quanto più sono negati, tanto più è un problema generale di tutti gli individui».

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