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Thursday, July 13, 2006

Con il fiato sospeso

Colpi d'artiglieria israelianaIsraele ha deciso il blocco del Libano. Le navi controllano i porti e gli F-16 hanno bombardato l'aeroporto internazionale di Beirut e la sede della tv Hezbollah. Nel frattempo, il sud del Libano, da dove partono gli attacchi di Hezbollah, viene martellato da raid aerei e dall'artiglieria. Una "disinfestazione" dei confini che si rende periodicamente necessaria, ma stavolta è difficile che Israele permetterà ai guerriglieri di riprendere le postazioni. Anche il Ministero degli Esteri palestinese è stato colpito in un raid aereo.

Quella degli Hezbollah questa volta non è stata una delle solite incursioni, come ce ne sono a centinaia, quasi giornaliere, ma un vero e proprio attacco, che ha provocato 8 vittime tra i soldati israeliani, mentre altri due sono stati sequestrati. Dunque, quello di Israele, è un contropiede.

Il Governo libanese si dissocia, non approva, ma non basta. Lacerato al proprio interno, e ancora sottoposto a pesanti influenze esterne, si rifiuta di disarmare Hezbollah, organizzazione terroristica presente persino in Parlamento, e di impedire i rifornimenti di armi e materiale militare che transitano sul suo territorio, in porti e aeroporti, e vengono usati negli attacchi contro Israele. La decisione di attaccare gli scali è stata presa in seguito al rifiuto del governo libanese di bloccare tali traffici, affermano le autorità israeliane. E' chiaro che tale situazione non è tollerabile e il Libano è chiamato a rispondere di una responsabilità oggettiva per essere una vera e propria roccaforte del terrorismo.

«Consideriamo Siria e Iran responsabili», è stato il primo commento ufficiale della Casa Bianca, che ha chiesto «l'immediato rilascio dei due soldati israeliani sequestrati». Siria, Iran e il Governo dell'Anp di Hamas hanno giustificato gli attacchi di Hezbollah e il rapimento dei due soldati israeliani.

Pare essere destino del povero Libano, da poco faticosamente ricostruito e avviato a una vita un poco normale, soprattutto dopo la spinta popolare in risposta all'omicidio di Hariri per mano siriana, quello di pagare per colpa di altri.

Hezbollah non si è mosso infatti, senza il consenso congiunto di Siria e Iran, principali finanziatori e fornitori di armi. Fonti arabe hanno rivelato che il 16 giugno s'è tenuto un summit tra i ministri della Difesa siriano e iraniano per elaborare un nuovo piano di supporto a Hezbollah e Hamas. Teheran è da sempre guida religiosa e militare di Hezbollah e probabilmente mira a un'alleanza fra i due movimenti.

Ancora una volta il popolo palestinese, come quello libanese, rimane vittima degli interessi di Stati che si dicono amici. L'Iran, preoccupato che la deriva del dialogo sul suo programma nucleare possa portare a pesanti ritorsioni internazionali, e la Siria, completamente isolata, hanno tutto l'interesse a giocare la carta anti-israeliana, della destabilizzazione regionale, per esercitare pressione sulla comunità internazionale, sull'Occidente in particolare. Di cui l'Europa è un ventre molle, come dimostra il viceministro degli Esteri Ugo Intini, che, associandosi alle critiche francesi (e russe!) sulle operazioni militari di Israele, ha definito quella israeliana una «reazione spropositata che colpisce un paese che stava tornando ad affacciarsi al progresso».

Secondo il ben poco acuto Intini «il governo libanese sarebbe ben contento di disarmare le milizie Hezbollah, ma non ci riesce». Affermazione che, in parte, può contenere elementi di verità, ma certo ciò, semmai, chiama in causa non Israele, ma la comunità internazionale. Cosa ha fatto finora per imporre, o aiutare, il disarmo di Hezbollah?

Intini ammette non il ruolo attivo di Iran e Siria, ma un più blando «ascendente su Hezbollah, organizzazione a prevalenza sciita». Il giornalista gli ha anche suggerito l'esistenza di un possibile legame della crisi con la questione del nucleare iraniano, ma Intini ha risposto che non vede questo legame «dietro il rapimento dei soldati israeliani da parte delle milizie Hezbollah».

Chi dimostra di non comprendere il ruolo che giocano Siria e Iran è, a questo punto, in totale malafede.

E rimasero in cinque gatti... o sciacalli

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: «E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Ecco, secondo qualcuno il figlio maggiore avrebbe dovuto presentare una mozione. Va bene accogliere il figlio "indegno" che si è pentito, ma addirittura far festa in suo onore, questo no.

E' finita miseramente, alla Camera, la mozione che impegnava il governo a trovare soluzioni, anche normative, per impedire che condannati per reati gravi contro la persona e le istituzioni democratiche, anche dopo aver espiato la pena, potessero accedere a cariche istituzionali di rilievo.

Per fortuna, in diversi hanno battuto quel colpo che mi aspettavo battesse Benedetto Della Vedova. Lo stesso Della Vedova (RL), l'intero gruppo della Lega Nord, che ha annunciato l'astensione sulla mozione, Tabacci (Udc), La Malfa (Misto), Mauro Del Bue (Nuovo Psi), Reina (MPA) e persino Teodoro Buontempo (video della seduta).

"Assolto il terrorista, ma i calciatori no", era il sobrio titolo in prima pagina su Libero, ieri. La politica «salva» D'Elia. Ma «assolto» da cosa? Non era in corso nessun nuovo processo contro D'Elia, ieri, alla Camera. «Salva» da cosa? Forse da un linciaggio? Tanto rischiava? Neanche la qualifica di "ex-" si vuole concedere a D'Elia? E soprattutto, cosa c'entrano i calciatori? Davvero una singolare acrobazia retorica, quella di Libero, che ormai quanto a mistificazione e alla violenza verbale degli attacchi è pari solo al Manifesto e a Liberazione.

La stessa cronista di Libero ammette che a fare «affondare» la mozione è stata «soprattutto una falla politica. Quella aperta nel Polo da qualche parlamentare di An, molti di FI e tutta la Lega che hanno dichiaratamente annunciato chi l'astensione, chi il voto contro. Viste le brutte, i firmatari della mozione l'hanno ritirata in corner, accortisi, dichiarazione di voto dopo dichiarazione, di essere rimasti quasi soli». Cinque gatti: Elio Vito, Sandro Bondi, Giovanardi, Volonté e Leone. Essendo stati così clamorosamente sconfessati da parte dei propri colleghi di partito e di coalizione, forse qualcuno ne dovrebbe pretendere le dimissioni da capogruppo.

L'editorialista, Michele Brambilla, è il genio dell'accostamento con i calciatori e si espone di più, rivelando molto dello spirito che animava la campagna contro D'Elia. La mozione, ammette con amarezza, «non solo non sarebbe mai passata, ma sarebbe naufragata vergognosamente». Al momento delle dichiarazioni di voto, «a catena i parlamentari dell'opposizione (...) hanno via via tirato indietro la manina con la quale avrebbero dovuto lanciare il sasso».

Insomma, ai parlamentari era richiesto di «lanciare il sasso». Non a caso un'immagine che fa tornare alla mente l'evangelico «scagliare la prima pietra». Ebbene, questi deputati si sono vergognati di scagliare la prima pietra. Probabilmente chiedendosi chi fosse «senza peccato». L'hanno fatto per proteggere se stessi, ha malignamente ipotizzato il Brambilla. Sì, i deputati si sono resi conto che fosse meglio non creare un precedente pericoloso per la democrazia, che si sarebbe potuto ritorcere su chiunque e avrebbe potuto limitare la libertà e le prerogative del Parlamento. Certe cose è meglio lasciarle a Travaglio, a Di Pietro... e al Signor Brambilla.

Patetica la scenetta finale. Vito ritira la mozione. Rivolto alle tribune del pubblico della Camera, saluta «i familiari delle vittime», ma i presenti sono solo militanti radicali e l'unico vero congiunto di una vittima degli anni di piombo, Potito Peruggini, nipote del brigadiere Ciotta, solidarizza con D'Elia che, «avendo espiato la pena ha tutti i diritti di coprire le funzioni a cui è stato eletto». Vito e La Russa hanno preso per provocazione lo spontaneo moto d'ilarità proveniente dai banchi dei radicali.

Oggi il fango sparso da quanti hanno voluto «sfruttare politicamente, da mercanti nel tempio, quella cosa sacra che è il dolore delle vittime» ricade su di essi. Per questa volta il sussulto della destra forcaiola, e ben poco "cristiana", è stato battuto.

Wednesday, July 12, 2006

Per gli avvocati più bravi e più giovani

L'avvocato Tom CruiseSi legge con piacere, non sempre sono d'accordo, e questa volta davvero no. Valentina Meliado sta con gli avvocati in rivolta.

Già con il principio secondo cui «ci sono categorie e categorie, e le liberalizzazioni sono sacrosante quando sono utili, non quando trasformano ogni aspetto della vita in un mercato globale» non ci siamo. Non conosco la sentenza della Corte europea a cui si riferisce e, semmai, l'Unione europea chiede esattamente l'opposto in termini di concorrenza.

L'elevato numero di avvocati in una città come Roma non garantisce di per sé la concorrenza, se nel contempo c'è un tariffario minimo. Non si capisce perché abolire le tariffe minime e consentire la pubblicità dovrebbe produrre «l'effetto di far scomparire gli studi legali medi e piccoli». I paginoni sui giornali se li compreranno i grossi studi, che continueranno a fare i loro affari, com'è ora. Però i piccoli e medi potranno crescere facendosi una clientela a prezzi più competitivi. Per i meritevoli varrà la miglior pubblicità: il passaparola. E non ci vedo nulla di male negli sconti tre per due e negli slogan da grande catena.

Ci sono categorie e categorie, e la mia svolge una funzione sociale troppo delicata dal punto di vista deontologico per rispondere a logiche di mercato, l'ordine è una tutela per l'utente. Ecco, questo è un ritornello o, meglio, un disco rotto, che ripete ciascuna categoria, la quale già oggi, guarda caso, è totalmente inadempiente rispetto alla sua ragione sociale, cioè incapace di garantire un livello minimo di professionalità. Per un semplice motivo. Perché l'alta professionalità non la garantisce una burocrazia, ma il mercato.

Un'obiezione importante, invece - l'aveva avanzata anche milton - riguarda la liquidazione delle spese legali disposte dai giudici. Questi, ci spiega milton, usano i tariffari minimi, ma spesso danneggiando il cliente, che si vede liquidare somme inferiori alle parcelle che è costretto a pagare al suo avvocato. Ebbene, partiamo dal fatto che già non è giusto com'è oggi. Non so se il decreto Bersani preveda qualcosa in merito, ma forse è l'occasione buona per porvi rimedio.

Per quanto riguarda l'indennizzo diretto, a me è capitato più spesso di essere raggirato da avvocati in combutta con le assicurazioni e non credo proprio che la nuova norma impedisca di aprire contenziosi con le assicurazioni. No, decisamente non è così.

Anche l'avversione alle «società di capitali» è ormai un'eco che si sente provenire solo dalla sinistra estrema. Se «la sensazione, tra i membri della categoria, è che si finisca come negli Stati Uniti», allora mi convinco ancora di più della bontà del pacchetto Bersani. A Valentina Meliado consiglio questo articolo uscito oggi su Il Foglio, che risponde a molte delle sue preoccupazioni. «E' chiaro che da questi provvedimenti gli avvocati più giovani e quelli più bravi hanno solo da guadagnare», chiarisce l'ecnomista Carlo Scarpa.

Corea del Nord. Da Roma parte il messaggio dei dissidenti

Il dittatore nordcoreano Kim Jong IlPer una politica estera fatta anche di promozione della democrazia

"Promuovere i diritti umani e la libertà religiosa in Corea del Nord: Quale via davanti a noi?". E' questo il titolo di una conferenza che il Partito Radicale Transnazionale e Freedom House hanno organizzato oggi riunendo un gruppo di dissidenti nordcoreani per tentare di introdurre nell'attualità politica italiana il loro messaggio: «La difesa dei diritti umani, la promozione della democrazia e l'assistenza politica ed economica ai movimenti e ai dissidenti democratici non sono e non possono essere considerati elementi accessori della politica estera, ma devono costituirne parte integrante».
Qui la dichiarazione finale

Dissidenti nordcoreani? Chi li aveva mai sentiti parlare, o visti da vicino? Eppure ci sono. Molte anche le figure istituzionali italiane presenti, tutte di una sinistra liberale e antitolitaria, ancora minoritaria e scarsamente organizzata, ma determinata.

E' intervenuta Emma Bonino (Rosa nel Pugno), ministro per il Commercio Estero e le Politiche comunitarie, che ha citato la difesa strenua dei diritti della persona come «componente essenziale delle relazioni internazionali». Tuttavia, ha avvertito, «siamo impreparati nei confronti dei regimi dittatoriali come quello nordcoreano. C'è il problema del "che fare" e del "come fare", stretti come siamo tra interventi militari e diplomazia tradizionale. Se riuscissimo a sostenere i democratici presenti in questi Paesi avremmo già fatto notevoli passi avanti. Il problema è complesso e non è un problema di import-export della democrazia». Per il ministro, il regime nordcoreano rappresenta «un dato di follia crudele, non catalogabile in nessun altro modo. Bisogna far conoscere ciò che esperti, cancellerie e vittime già conoscono».

Fame, deportazioni nei gulag, torture, lavori forzati, esecuzioni pubbliche. Questa è la realtà nordcoreana, ma «viene troppo spesso dimenticata, o peggio ancora, ignorata dalla comunità internazionale», ha denunciato Matteo Mecacci, rappresentante del Partito Radicale Transnazionale alle Nazioni Unite. «La Corea del Nord rappresenta oggi un vero e proprio gulag per 23 milioni di persone».

Anche il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti (Margherita) si è espresso senza mezzi termini: «La Corea del Nord è uno dei più brutali e oppressivi regimi del pianeta, ma appare sui media solo in occasione di test missilistici e non fa notizia per il terrificante quadro dei diritti umani». Il rimedio, secondo Vernetti e Mecacci, potrebbe essere quello di «riorientare» la cooperazione «per promuovere la sicurezza, lo sviluppo, la democrazia». E un primo strumento potrebbe essere una «Fondazione per la democrazia» a livello italiano ed europeo, dotata di risorse per sostenere in modo concreto la difesa dei diritti umani in situazioni come quella nordcoreana. Anche perché è «la promozione della democrazia e dei diritti umani deve diventare una priorità in quanto è un nostro interesse nazionale».

Secondo Umberto Ranieri (Ds), presidente della Commissione Esteri della Camera, la comunità internazionale «sottovaluta la gravità della situazione in Corea del Nord, un paese chiuso dove la gente versa in condizioni disastrose e c'è la totale assenza dei diritti umani più elementari». Kim Jong Il, ha chiarito, «non è un dittatore da operetta. Vuole durare e per farlo descrive ai nordcoreani un mondo ostile da cui devono difendersi. Ciò gli consente di guadagnare tempo. E' importante - ha aggiunto - che si mantenga l'unità della comunità internazionale per porre un alt a un regime copace di utilizzare missili per fare paura. E' importante che al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ci sia una valutazione comune».

Alla conferenza hanno partecipato oltre 20 esponenti democratici, leader religiosi e rappresentanti di organizzazioni per i diritti umani provenienti dalla Corea del Sud, oltre ad alcuni noti dissidenti politici fuggiti dalla Corea del Nord. Durante la sessione mattutina si è parlato di tortura ed esecuzioni, con la proiezione di alcuni video clandestini, mentre la sessione pomeridiana è stata dedicata al tema della libertà religiosa, con l'intervento conclusivo di Marco Pannella.

«La Corea del Nord non ha i soldi per pagare i diritti televisivi per i Mondiali di calcio in Germania, ma li ha per i suoi test missilistici». Con queste parole il dissidente nordcoreano, oggi giornalista a Seoul, Cheol Hwan Khang (autore del libro "Gli acquari di Pyongyang: dieci anni in un gulag nordcoreano"), intervistato oggi dal Corriere, ha offerto in poche righe un'immagine efficace di cos'è oggi la Corea del Nord. E' stata la Corea del Sud a pagare i diritti tv, consentendo ai nordcoreani di seguire l'evento calcistico, dando però una nuova prova di quella linea morbida, di riconciliazione, adottata negli ultimi anni ma forse controproducente.

Kim Sung Min, ex capitano di artiglieria fuggito nel 1997, ha creato una radio "Free North Corea" per dare voce ai dissidenti, ma al momento riesce a trasmettere con difficoltà soltanto 30 minuti al giorno. A Seoul hanno trovato rifugio anche Jung Mee Suk e Son Jong Hoon, anche loro vittime della brutalità del regime nordcoreano. Jung, ballerina di 30 anni, fuggita in Cina nell'agosto del 2000, rimase vittima dei trafficanti di esseri umani. Oggi ha lanciato un forte appello contro la tratta delle donne nordcoreane vendute ai contadini cinesi. Per Son, «il regime nordcoreano è più atroce di quello di Saddam Hussein, le violazioni dei diritti umani vanno ben oltre quello che possiamo immaginare».

Il Codice penale della Corea del Nord prevede la pena di morte per attività «in collusione con gli imperialisti», per i trafficanti di droghe, per «divergenza ideologica», «opposizione al socialismo» e «crimini controrivoluzionari». In base a questo genere di reati, ha ricordato Sergio D'Elia, Segretario di Nessuno tocchi Caino, sono stati giustiziati prigionieri politici, oppositori pacifici, disertori o transfughi rimpatriati, ascoltatori di trasmissioni estere, possessori di materiale stampato ritenuto "reazionario". Fedeli cristiani sono stati imprigionati, picchiati, torturati o uccisi per aver letto la Bibbia e predicato Dio, in particolare per aver avuto rapporti con gruppi evangelici operanti oltre confine in Cina. Proprio Pechino è responsabile del rimpatrio in Corea del Nord di nordcoreani poi giustiziati in quanto disertori. Essi, circa 300.000, sono ritenuti dalle autorità cinesi immigrati illegali piuttosto che rifugiati.

Tuesday, July 11, 2006

Una seduta blasfema: politicamente e giuridicamente

Un dibattito surreale quello che si sta svolgendo da due giorni alla Camera dei Deputati. Una mozione vorrebbe impegnare il Governo «ad assumere, nel doveroso ed assoluto rispetto delle prerogative del Parlamento, iniziative, anche normative, compresa la definizione di un codice di autoregolamentazione, che potrebbe essere proposto dalle forze politiche di maggioranza ed al quale l'opposizione potrebbe aderire, al fine di evitare che a cariche istituzionali di rilievo possano accedere coloro che siano stati condannati per reati gravi e violenti contro la persona e contro le istituzioni democratiche».

Non può che essere opera di Di Pietro, verrebbe da pensare. Invece, le firme su questa mozione sono quelle di Sandro Bondi, Elio Vito, Luca Volontè, Carlo Giovanardi e Antonio Leone. Si discute il cosiddetto caso D'Elia, ma in realtà va in scena la metamorfosi illiberale del centrodestra. Della Vedova dove sei? Se ci sei, batti un colpo.

Ora, bisogna ricordare che il nostro ordinamento già prevede molto di più per «evitare che a cariche istituzionali di rilievo possano accedere coloro che siano stati condannati per reati gravi e violenti contro la persona e contro le istituzioni democratiche». Si tratta dell'interdizione dai pubblici uffici. Certo, dev'esserci un giudice, dopo regolare processo, che la dispone e ne fissa la durata. Una volta terminato il periodo d'interdizione, o se a tale misura restrittiva non si viene condannati, l'individuo riacquista il pieno dei suoi diritti politici, di cui nessun altro potere o sottopotere dello Stato può privarlo.

Questi sono alcuni dei passaggi dell'intervento di Daniele Capezzone.
«La belva giustizialista può essere cavalcata, ma non guidata o controllata. Puoi essere tu che la cavalchi, ma è senz'altro lei che guida, controlla e comanda. E, com'è fin troppo evidente, nessuno (nessuno, nessuno!) guadagna - né nel breve, né nel medio, né nel lungo termine - quando queste tossine vengono diffuse nella società, e quando si creano o si alimentano le condizioni per il diffondersi delle metastasi criminalizzanti.
(...)
Per questo, dico con molta chiarezza che se è sacro (lo ripeto: sacro) il dolore delle vittime, di ogni vittima di ogni atto di violenza, non è sacro, ma è il contrario di sacro, cioè civilmente blasfemo, il tentativo da parte di altri di uso politico di quel dolore, per colpire un avversario, e per negare la sua storia, il suo percorso.
(...)
Oggi, la presenza di D'Elia in Palamento, qui, dovrebbe essere vissuta come una vittoria della democrazia, dello Stato, della nonviolenza, del principio costituzionale della pena... Spero, anzi sono certo che nessuno voglia trasformare questo luogo (contro ogni principio di diritto, e contro la volontà popolare) in una sorta di "tribunale delle coscienze", che stabilisca... chi possa entrare in questa Camera e chi no, chi gli elettori possano scegliere e chi no, e chi questa Camera possa destinare ad alcuni incarichi elettivi e chi no, con una mozione perfino irricevibile, a mio avviso. Sarebbe una pagina scura, e non certo per il collega D'Elia... ma per noi, per questa Camera».
UPDATE ore 17,57: Elio Vito ha ritirato poco fa la mozione per evitare la debàcle. Persino la Lega aveva annunciato l'astensione. Il deputato di FI, dopo essersi esibito nell'ultima tirata demagogica e provocatoria, con La Russa a intimare silenzio puntando minacciosamente l'indice verso qualche collega, è finito tutto in farsa, così com'era cominciato.

La questione iraniana al di là delle indiscrezioni

LibMagazineE' on line il VI numero di LibMagazine. L'ultimo prima della pausa per la stagione estiva, quindi godetevelo. Come promesso, il mio contributo di questa settimana è in risposta all'analisi "realista" di Andrea Gilli: «La questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica».

Da un'«indiscrezione» prende avvio l'analisi di Andrea Gilli (LibMagazine n° V, 28 giugno): «Tre anni fa, dopo la caduta di Baghdad, l'Iran avrebbe proposto agli Stati Uniti un dialogo che comprendesse, tra l'altro, la cooperazione sul programma nucleare, l'accettazione di Israele e la chiusura dei finanziamenti ad Hamas». Niente di meno. L'amministrazione Bush però, la cui politica estera sarebbe stata dirottata dai neocon e messa fuori strada con la prospettiva del regime change, «avrebbe respinto l'iniziativa». «Avrebbe», scrive Gilli, ma l'autorevolezza delle fonti, aggiunge, «non fa minimamente dubitare della veridicità dell'accaduto». Invece, qualche dubbio resta...
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A Roma per la Nazionale, a Teheran per la libertà

Mentre in Italia scendevamo in piazza per festeggiare la Nazionale di calcio, anche quest'anno, il 9 luglio, giorno del settimo anniversario della rivolta studentesca del 1999, migliaia di studenti universitari di Teheran, Isfahan, Mashad, Shiraz e Mahabad, hanno manifestato scontrandosi con le forze di sicurezza. Pare che a Teheran i dimostranti fossero più di 5 mila. Mentre in Occidente ci si concentra sulla questione nucleare, il divario tra la società civile iraniana e il regime degli ayatollah, con tutto il suo apparato repressivo, aumenta, testimoniato da scioperi e manifestazioni sempre più frequenti.

Presi dalle gesta degli Azzurri, forse abbiamo fatto poco caso alla doccia fredda arrivata in questi giorni dal ministro degli Esteri iraniano Mottaki: solo tra il 15 e il 22 agosto – cioè a Ferragosto – i 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sapranno se l'Iran accetterà di negoziare lo stop del suo programma nucleare con il pacchetto di proposte avanzato a inizio giugno e sul quale una risposta era attesa per il 6 luglio. Il Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, è stata costretta a ribadire che l'Iran deve fornire una risposta subito.

Talmente allettante venne giudicato quel pacchetto da indurre i più all'ottimismo. Solo un mese fa commentatori e analisti salutavano la lungimirante decisione degli Stati Uniti di entrare per la prima volta in modo diretto nel dialogo con Teheran sul nucleare: finalmente gli americani hanno capito che all'Iran interessa trattare.

Tuttavia, dopo i primi facili entusiasmi, la sensazione è che Teheran, come al solito, stia solo prendendo tempo, approfittando della pazienza e delle divisioni della comunità internazionale, e che sarebbe inutile impelagarsi nel gioco "del bastone e della carota", consumando invano un decennio come accaduto già per l'Iraq di Saddam Hussein.

Monday, July 10, 2006

Campioni! E quattro... Indimenticabili

Ancora negli occhi i festeggiamenti di questa notte (su Daw molti altri video). Siamo schizzati verso il centro poco dopo aver esultato per l'ultimo rigore messo a segno da Grosso. Il lungotevere ancora semivuoto, sporadici motorini e auto sbandieranti. Riusciamo ad arrivare quasi fino alla Bocca della Verità, dietro Circo Massimo, e a parcheggiare comodomente. Poi marciamo verso piazza Venezia, dove troviamo solo due-trecento tifosi già scatenati e chiassosissimi, che si spintonano davanti alle telecamere di Sky. Ma la nottata era solo all'inizio.

Inebriante vedere la piazza riempirsi, via del Corso stipata di tricolori e di teste a perdita d'occho, fino a piazza del Popolo. Una decina di palloni volteggiavano in aria prima di scomparire sotto le resse di ragazzi disposti a tutto per ricalciarli verso il cielo (ce l'ho fatta solo una volta!). Un fiume di persone che affluiva dai Fori Imperiali. Qualche fuoco d'artificio, fumogeni, cori e striscioni ("Napoleone frocione") ben poco oxfordiani. Ricordo bene la Finale dell'82, ma questa, con la festa in strada, a far roteare la bandiera, è indimenticabile.

Cannavaro alza la coppa al cieloL'Italia di tutti e non di Totti. Una vittoria della squadra, non di un unico campione trascinatore. Noi quest'anno non avevamo il nostro Zidane, che fino al suo più bel colpo di testa aveva dato lezioni di calcio a tutti... e a Totti. Noi avevamo 11 leoni e la qualità media superiore del Mondiale. Cannavaro e Grosso giganti, meritano una menzione particolare. Ma sono stati eccezionali anche Gattuso, Buffon, Pirlo, Zambrotta, Materazzi, Toni. Un ottimo Mondiale anche quello di Perrotta, Iaquinta, Gilardino. De Rossi e Del Piero freddi e lucidi almeno dal dischetto.

Dopo quel primo tempo ero sicuro che avrei visto una grande Finale e che avremmo vinto meritatamente nei 90' minuti. Mai mi sarei aspettato che con un giorno in meno di riposo i francesi avessero più birra di noi (?). Invece così è andata, siamo andati in difficoltà nel secondo tempo e, a differenza che nella semifinale, non ci siamo ripresi nemmeno ai supplementari. Cotti, ma troppo determinati, troppo grande la fame di vittoria - e non così forti i francesi - per perdere l'ennesima occasione.

Doveva essere il Mondiale della tolleranza zero, del fair play, e la Fifa smentisce se stessa premiando Zidane come miglior giocatore, dopo un gesto che ha macchiato la sua grande carriera. Di insulti in campo se ne prendono e se ne danno, ma chi reagisce in quel modo ha inappellabilmente torto. Punita l'arroganza francese.

Friday, July 07, 2006

Tutti sotto inchiesta per aver svolto il proprio lavoro

Occhio, Rocca non si tocca! Non so se Christian abbia voluto in qualche modo mettere le mani avanti, comunque il suo non è un articolo banale, solo di colore, come potrebbe apparire. E', invece, molto prezioso ed emblematico.

Tutta la vicenda che riguarda i vertici del Sismi va letta nell'ottica di un enorme vuoto di potere. La grande assente è la politica. I Governi, quello di oggi e il precedente, se ne lavano le mani. Ma il punto, forse, è che non se le sono mai volute sporcare. Insomma, ho l'impressione che non ci sia politica, quella alta, a guidare occhi e mani dei servizi segreti, ma il politichese di pasticcioni e incompetenti. E vili, aggiunge Cossiga.

La situazione è così ingarbugliata, il tipico, italico, ingorgo a uncino, che ormai anche chi ci è dentro pare che abbia completamente perso il bandolo della matassa. Da fuori, poi, non ci si capisce nulla.

I punti fermi sono pochi. Il capo del controspionaggio del Sismi, Marco Mancini, è stato arrestato su ordine della procura di Milano che indaga sul «rapimento» in Italia del cittadino egiziano Abu Omar ad opera di agenti della Cia. Il generale Gustavo Pignero è finito agli arresti domiciliari. La procura ha chiesto anche l'arresto di quattro cittadini statunitensi, tra i quali Jeff Castelli, ex capo della stazione Cia a Roma. Farina, e un altro giornalista di Libero, sono accusati di essere sul libro paga del Sismi come disinformatori e depistatori.

La procura conduce una battaglia ideologica. Contro il precedente Governo, contro i rapporti Italia-Usa, e contro chiunque cerchi di dimostrare l'inconsistenza dell'impianto accusatorio: il Sismi che ha collaborato al «rapimento» dell'imam Abu Omar. Insomma, l'unico caso al mondo in cui la magistratura fa politica estera. Anche perché la politica la lascia fare. E finisce che gli americani, come al solito, s'incazzano.

Al Governo, intanto, Amato e Minniti pensano di approfittarne per fare la riforma dei servizi segreti. Ce n'è bisogno? Forse sì, forse no, non è dato sapere. A me sembra che la domanda da porre sia ancora più radicale. Cioè, il punto non è se fare la riforma dei servizi o no, ma se l'Italia vuole avere dei servizi segreti o no. Non si tratta della solita esagerazione. L'inchiesta della procura di Milano ha del paradossale. Gli agenti segreti sarebbero accusati, leggo sul Corriere, di «dossieraggio» e «spionaggio abusivo». Cioè, in poche parole, né più né meno di fare il loro lavoro? Ma quale sarebbero le attività del Sismi se non proprio quelle di compilare dossier e "spiare"? Se a fare dello spionaggio è un servizio segreto, un'agenzia dello Stato adibita proprio a questa funzione, come può essere etichettato come «abusivo»?

Inchieste giornalistiche e giudiziarie accusano i servizi segreti e il governo di aver autorizzato i famigerati voli Cia, di sapere della cattura dell'imam Omar, o addirittura di avervi collaborato. Viene fuori che i vertici del Sismi hanno raccolto «fascicoli personali intestati a giornalisti e soprattutto a magistrati considerati "nemici"». Detta così suona male, ma pensiamo per un attimo che quelle accuse siano false. Non è forse normale annotare da parte di "chi", "come", e "di cosa" si viene accusati, e cercare di far passare il proprio punto di vista sulla stampa? Certo, i servizi segreti non danno conferenze stampa, ma possono far sapere la loro contattando in via del tutto lecita i giornalisti disposti ad ascoltarli.

Il famigerato «dossier contro Prodi che l'agente Pompa avrebbe inviato ai due giornalisti di Libero ora indagati» potebbe semplicemente contenere una notizia. Esiste o no questa agenda siglata ad Atene tra agenti del Dipartimento di Stato americano e della Commissione europea, che al paragrafo 4.1 dice: «Entrambe le parti si sono trovate d'accordo sul miglioramento della cooperazione, ovvero l'uso dei mezzi di transito europei per agevolare il ritorno di criminali o stranieri inammissibili, ... il miglioramento della cooperazione nel settore degli allontanamenti»? Nel testo in inglese viene usata la parola removals, sinonimo di rendition.

Insomma, tutto il caso potrebbe sgonfiarsi con la scoperta che tutti, in questa vicenda, stavano semplicemente facendo il proprio lavoro. Quelli del Sismi cercando di tutelare la segretezza del loro lavoro e di difendersi dagli attacchi; i giornalisti cercando di avere informazioni dalle loro fonti, agenti o pm non fa differenza (e il confine tra l'"usare" e l'"essere usati" è molto labile: vale per Farina, ma anche per D'Avanzo); e i pm a dare la caccia ai rapitori del barbuto. In tutto questo, forse, anche i governi avrebbero dovuto fare la loro parte, ma non l'hanno fatta, rifiutando di prendersi la responsabilità politica dell'operato dei servizi, o, in alternativa, sconfessando e sostituendo i loro vertici.

Koinè liberale per conquistare il «centro»

Caro direttore, la sua riflessione sul "centro" mi pare abbia colto uno dei nodi del partito democratico. Non dovrà fare l'errore di andare alla conquista del centro «inteso come spazio elettorale da occupare», quel 9% che viene fuori dalla ricerca che ha citato, ma del centro dei cosiddetti "non collocati" (addirittura il 38,7%), quegli elettori che vivono la politica in modo pragmatico e non ideologico, idealmente e mentalmente predisposti a rivedere di volta in volta le proprie scelte, a seconda dell'affidabilità della classe politica e della credibilità dei contenuti. Rendersi conto di ciò significa fare quel decisivo passo avanti, fatto già dai new democrats di Clinton e dal New Labour di Blair, cui si riferiva Giuliano da Empoli nel suo editoriale sulla rivista "Zero": «parlare alla società nel suo complesso... navigare nel mare aperto dell'opinione pubblica». Ebbene, quel "centro" non ha nulla a che fare con il moderatismo. E' un elettorato giovane e riformatore, che chiede alla politica - rimanendo spesso deluso da entrambi gli schieramenti - di modernizzare il nostro paese con gli strumenti della libertà. Non dalla questione comunista e da quella cattolica, ma dalla solidità della "koiné liberale" dipenderà la riuscita del Partito democratico. Per questo, ad oggi, rimango pessimista.

Thursday, July 06, 2006

Not in my backyard. Stangatina pure sulla cioccolata

Juliette Binoche in Chocolat«Lamentarsi dell'abilità dell'avversario è da mezze calzette»

Che nei particolari si nasconda il demonio ce lo conferma un'attenta lettura del pacchetto Visco. All'art. 36 del decreto, "Recupero di base imponibile", comma 1, si trova scritto: «Nella Tabella A, Parte III, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, concernente i beni e servizi soggetti all'aliquota del 10 per cento, sono soppresse le voci di cui ai numeri 62), 64), 123-bis), 127-decies) e la voce numero 122) è sostituita dalla seguente...»

Ebbene, la stangatina di Visco si abbatte anche su beni di consumo di prima necessità. Abbiamo scoperto che al numero 64) ci sono «cioccolato ed altre preparazioni alimentari contenenti cacao in confezioni non di pregio, quali carta, cartone, plastica, banda stagnata, alluminio o vetro comune» e al 62) ci sono «prodotti a base di zucchero non contenenti cacao (caramelle, boli di gomma, pastigliaggi, torrone e simili) in confezione non di pregio, quali carta, cartone, plastica, banda stagnata, alluminio o vetro comune».

Insomma, su cioccolata e caramelle l'Iva passa dal 10 al 20%. Un governo che ruba le caramelle ai bambini! Ci saremmo aspettati di vedere Berlusconi imprecare contro "l'Italia che odia" e invece è davvero strano come non si siano alzate, su questo punto, voci indignate dal centrodestra, i cui leader preferiscono arrampicarsi sugli specchi cercando di mettere in cattiva luce le liberalizzazioni. Non c'è nulla di più sbagliato che negare, o addirittura capovolgere, il valore delle liberalizzazioni decise da Bersani, parziali e incomplete quanto si vuole, ma pur sempre liberalizzazioni, di cui la misura sui Taxi costituisce la punta dell'iceberg e certo la meno incisiva, visto che la materia riguarda soprattutto i comuni.

«Più che un decreto di liberalizzazioni, è il via all'oppressione fiscale e burocratica», ha denunciato Berlusconi. Ma oltre è andato Tremonti, parlando di «liberalizzazioni costruite come coercizioni», lamentandosi per il «blitz» di Bersani, perché il blitz, ha sostenuto, «è l'opposto della concertazione». Ma come, invece di pretendere, come sarebbe giusto, che ora il governo faccia altri «blitz», che non sia ostaggio delle altre e più forti categorie, Tremonti denuncia il reato di lesa concertazione e ne chiede l'applicazione anche per le categorie minori? Lasciamo da parte, poi, le sprezzanti battute che Tremonti, da sempre, riserva agli odiati «mercatisti», che dovrebbero far infuriare per primo l'ex ministro Martino.

Non sarebbe molto più facile, ragionevole e comprensibile dire cosa va e cosa non va nel decreto? E non sarebbe più saggio non "rosicare", quando si avverte che gran parte dei propri elettori sa benissimo che nel pacchetto Bersani c'è qualcosa, poco o tanto non ha importanza, ma qualcosa che si aspettavano facesse Berlusconi? Non sarebbe più opportuno rilanciare, sfidare il governo a fare di più? Quello di buono e liberale che c'è, va riconosciuto. Per prima cosa perché è ingenuo pensare che gli elettori, soprattutto se pensiamo a quelli di centrodestra, non abbiano capito il segno delle pur parziali liberalizzazioni di Bersani.

Purtroppo invece, attraverso le loro dichiarazioni, i leader della CdL stanno saldando intorno a loro un fronte socialmente e politicamente immobilista e conservatore. Il partito del «not in my backyard», l'ha definito Capezzone. Il ministro Bersani si è impegnato a preparare altre liberalizzazioni che riguarderanno settori più complessi, con tutt'altri interessi in gioco: energia, telecomunicazioni, servizi pubblici locali. E' su questo che va aspettato al varco.

E' esattamente ciò che ha voluto dire a Libero anche Oscar Giannino. E' vero, quelli di Bersani sono «12 punti di maggior concorrenza che toccano innanzitutto lobbies e interessi che la sinistra considera ostili e lontani da sé, i tassisti, i professionisti, i farmacisti, i commercianti. Ma ciò non toglie che appartiene alla fisiologia dei sistemi politici, che ogni coalizione tocchi innanzitutto gli interessi che avverte come a sé più lontani. E se il centrodestra si è calato le mutande, quando ha messo al centro dell'agenda l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la colpa è solo sua e il merito invece della sinistra e del sindacato che l'hanno voluto, potuto e saputo battere. In politica non si regala nulla, e lamentarsi dell'abilità dell'avversario è da mezze calzette. Meglio avere una sinistra che liberalizza le lobbies più moderate e una destra che liberalizza quelle più progressiste del sindacato e del pubblico impiego, che non avere niente e brindare all’immobilismo. Io, almeno, la penso così».

Come i leader della CdL, così anche la Moratti non sembra avere alcuna intenzione di essere la «nostra Thatcher», come vorrebbe Alberto Mingardi: «Tiri fuori i muscoli... e mille nuove licenze», è l'accorato appello destinato a rimanere inascoltato.

Piuttosto, una volta dato a Bersani ciò che è di Bersani, il centrodestra dovrebbe essere in grado di spostare l'attenzione sul pacchetto Visco, che contiene più di una misura discutibile, ma aprendo un altro e ben più preoccupante capitolo. «Ogni banca o intermediario finanziario dovrà rendicontare elettronicamente all'Anagrafe tributaria ogni nostro minimo movimento di denari, tutto tranne i bollettini postali inferiori ai 1.500 euro. E' il Grande Fratello orwelliano che precede la patrimoniale secca, il sogno da sempre dell'egualitarismo comunista», denuncia Giannino.

Il nostro blogger economista di riferimento, Phastidio, ha già analizzato le pieghe del pacchetto fiscale, concentrandosi anch'egli sulla creazione di «un'anagrafe centralizzata dei rapporti bancari», che permette allo Stato «di identificare al centesimo le consistenze delle attività finanziarie dei contribuenti (azioni, obbligazioni, fondi, titoli di stato)». A quel punto, dice Phastidio, «sarebbe possibile «introdurre una maggiorazione della cedolare secca su interessi e dividendi (ad esempio, dal 12.5 al 20 per cento)...» o «imporre l'inserimento nella dichiarazione dei redditi dei proventi finanziari da azioni, obbligazioni e titoli di stato, che sarebbero quindi tassati ad aliquota marginale Irpef, come già accade in altri paesi europei».

Di fatto, spiega, sarebbe l'introduzione della «nominatività delle attività finanziarie, come non riuscì nemmeno ai governi di centrosinistra di inizio anni Sessanta». Che poi, ne siamo certi, i grandi capitali e le grandi speculazioni non avranno problemi a spostarsi all'estero o a comprare il "silenzio" delle banche, e saranno i piccoli e medi risparmiatori a vedersi decurtare i conti correnti. A Phastidio questa «evaporazione dei loopholes che consentono di sottrarre imponibile al fisco» ricorda «l'impostazione filosofica alla base della flat-tax». Ma senza flat-tax, cioè l'aliquota unica, aggiungiamo noi.

Riguardo la maggiorazione dell'Iva sulla cioccolata, nel nostro piccolo proveremo a lavorare sul presidente della Commissione Attività produttive della Camera. Chissà che non sia la lobby dei ghiottoni la più temibile...

Il brutto crinale

«L'Occidente è su un brutto crinale. Si sta offuscando il senso di Dio». Questo monito, che sostituendo Dio con Allah potrebbe facilmente essere attribuito all'imam della grande moschea Al Azar, al Cairo, giunge invece dal Cardinale Martino: «Colpa del relativismo che mette in discussione la trascendenza dell'essere umano, il significato di essere uomo o donna, i caratteri peculiari dell'amore e della sessualità, l'esclusione di tutte le espressioni di religiosità».

Per quanto riguarda le «espressioni» della religiosità, esse non mi sembrano affatto escluse dall'Occidente, né negli Stati Uniti né in Europa. Si svolgono, com'è giusto che sia, in tutta libertà feste religiose (riconosciute anche dai calendari ufficiali), processioni, riti pubblici, grandi eventi mediatici.

Per quanto riguarda, invece, «la trascendenza dell'essere umano, il significato di essere uomo o donna, i caratteri peculiari dell'amore e della sessualità», questi temi non possono che essere messi liberamente in discussione se vogliamo vivere in una società libera, dove ciascuno persegue la propria felicità lungo un cammino di ricerca personale.

Wednesday, July 05, 2006

Tutte le volte che possiamo...

... dobbiamo agire per liberare i popoli oppressi da chi li opprime. E' il compito di una sinistra "di governo", liberale e antitotalitaria, l'abolizione della tirannia. E' il senso dell'intervento di John Lloyd, tra i promotori dello Euston Manifesto, su la Repubblica di ieri.

Dobbiamo abituarci a pensare il mondo come un «unico spazio politico». E' questa la sfida politica della globalizzazione. In un mondo dove eserciti e deterrenza nucleare non ci mettono al riparo dalla violenza di chi vuole distruggere la democrazia e il nostro modo di vita, ogni singolo Stato fallito, ogni regione dove democrazia e diritti vengono conculcati, rappresenta per noi un potenziale pericolo.

Non bastano più le capacità diplomatiche, ma occorre «un ragionamento di principio», un principio che «unisce, o può unire, i democratici di tutte le opinioni». Adesso, scrive Lloyd, è «il turno della sinistra italiana di avvertire tutta la pressione di un nuovo tipo di globalizzazione, la globalizzazione della politica, degli ideali e delle decisioni da prendere sulla guerra e sulla pace».

«Laddove è possibile i tiranni debbono essere destituiti». Ciò non significa, ovviamente, guerra permanente, ma «prima di tutto, solidarietà e una più attiva promozione di campagne e pressioni su quei governi che palesemente rappresentano un pericolo per le loro popolazioni».

Una sinistra democratica è tale se sa portare dinanzi all'elettorato le importanti problematiche del mondo, invece di nasconderle per meglio gestire il consenso che le permette di restare al potere. E oggi, per Lloyd, occorre far capire che «con l'Islam radicale ci troviamo di fronte a un movimento che è più simile al fascismo di qualsiasi altro mai visto dall'ultima guerra a oggi». Mira a «distruggere la democrazia o contrastarne l'affermazione, a sostituirle la legge islamica dello stigma, che vorrebbe subordinare il singolo allo Stato e lo Stato alla parola di un Profeta le cui frasi sono interpretate in modo tale da negare i diritti delle donne, da considerare nemici i non musulmani e da legittimare l'omicidio e la mutilazione allorché sono praticati da quanti si definiscono giusti».

«Le tradizioni della sinistra democratica sono quelle della tolleranza, dell'eguaglianza e della giustizia. Non possono essere limitate a un solo paese. Devono invece diventare il diritto di tutti, acquisito alla nascita. Una delle ragioni per le quali la sinistra aspira al potere di governo è eliminare l'oppressione tutte le volte che può farlo».

Taxi. E se finisse come a New York?

De Niro in Taxi DriverUn tassista milanese confessa le proprie preoccupazioni a un giornalista: «Qui finirà come a New York!». Viene da ridere (o da piangere), perché a noi, invece, verrebbe da dire: magari!

Ma vediamo cosa dice il tassista di New York, sentito da Anna Guaita, inviata del Messaggero: «Ho deciso di fare un affitto lungo, perché io e mia moglie aspettiamo un bambino, quindi per un anno ho deciso di lavorare tantissimo, e mettere da parte più che posso». Quanto? «L'ho preso per un anno. Preferirei avere la macchina mia, ma non ho i 200 mila [!] dollari per la licenza. Così l'ho preso in affitto da un'azienda proprietaria di duecento macchine. Pago circa 500 dollari a settimana. E se lavoro tanto, se prendo su tanti clienti, e sto al volante dieci ore minimo, posso guadagnare 500 dollari al giorno». Gulp, con un giorno si ripaga l'affitto della macchina!

«Sono egiziano. Vivo qui da cinque anni. Ed è vero che noi tassisti siamo al novanta per cento immigrati. Questo è un lavoro facile, e puoi guadagnare decentemente. E' un buon inizio per chi vuole farsi una vita in America».

Appunto, in America. A New York ci sono 40 mila tassisti. Per fare il tassista si deve superare un esame di guida, dopo aver frequentato un corso di 80 ore. Omar, quattro anni fa, lo ho pagato 370 dollari. Poi bisogna superare un esame medico, un test antidroga e il controllo delle impronte digitali. Vietato bere e fumare in macchina. «Multe terribili per una serie di violazioni, non solo del traffico: se siamo scortesi con i passeggeri ad esempio, se non prendiamo a bordo persone di colore, se rifiutiamo il servizio a handicappati».

Anche nella Grande Mela c'è un tetto di taxi, che una Commissione ad hoc ha fissato in 12 mila macchine. Per avere un taxi proprio «bisogna aspettare un po' - spiega Omar - ma il turn over non è più come una volta. C'è più movimento. Non si sta tanto in attesa».

L'annunciata "marcia su Roma" diventa squadrismo

Tassisti o teppaglia?

Tentato suicidio politico di Fini. Tassisti «esasperati»? Ad essere esasperati sono piuttosto i cittadini-consumatori e se il centrodestra non è grado di comprenderlo, accontentandosi di coccolare questa o quella categoria, persino quando ricorre alla violenza, tutto per poche migliaia di privilegiati (versus milioni di utenti incazzati ma silenziosi), allora è destinato a lunghi anni all'opposizione. I tassisti hanno aggredito un ministro, Mussi. Un fatto gravissimo. L'annunciata marcia su Roma dei tassisti ha assunto i connotati di un vero e proprio attacco squadrista.

Il centrodestra, soprattutto An (con Storace, Alemanno, e persino Fini), si sta facendo prendere dalla tentazione di cavalcare la rivolta. Un clamoroso autogol, dopo aver sempre condannato la violenza di piazza contro gli atti di un governo legittimamente eletto.

Lo Stato, anche in questa occasione, si sta rivelando incapace di tutelare il diritto dei cittadini alla mobilità. Le "adunate" dei tassisti sono illegali. Se inoltri una richiesta per un "sit in" davanti Palazzo Chigi non te l'approvano. Ma se ci vai con la forza arrivi ad aggredire i ministri. Il nostro paese è fatto così. Le violenze che vengono generate in gruppo, dalla folla, nelle manifestazioni o durante eventi sportivi, rimangono sostanzialmente impunite. Aggredire qualcuno, anche un ministro, in gruppo è quasi un'attenuante, quando dovrebbe essere un'aggravante.

Per lo meno, sul piano politico, il Governo sembra intenzionato a tenere duro: «Se il governo si fa condizionare dalle pretese o dalle proteste di questa o quella categoria non può perseguire la sua missione», dichiara Prodi. «Se vogliamo un paese moderno, se più semplicemente vogliamo un paese normale, tutti - e dico davvero tutti - si assumano la responsabilità di fare passi in avanti per il rispetto dei diritti dei cittadini-consumatori». E la degenerazione violenta della protesta non fa che accrescere i consensi per l'operato del governo.

Il Riformista, per esempio, sembra aver capito la posta in gioco: «Più saranno sregolate, prepotenti, radicali e diffuse le proteste, meglio sarà per il governo e la maggioranza. A condizione, si capisce, che governo e maggioranza sappiano cogliere l'occasione d'oro che la ribellione dei tassisti offre loro su un piatto d'argento». Insomma, «se terrà fermo, se non chiuderà all'ultimo momento un accordo al ribasso che lasci tutto come prima». Non solo, ma «quando anche il governo dovesse cadere, cadendo sul fronte di una limpida battaglia politica - in cui sono chiarissimi ai cittadini vantaggi e svantaggi, interessi coinvolti, diritti e opportunità in gioco - la maggioranza potrebbe affrontare a testa alta una nuova campagna elettorale...». Prodi e Bersani «dicano no, pertanto, al ricatto della rivolta tassinara. E poi, sommessamente, grazie».

Un condivisibile appunto al Governo, che serva da pungolo per ulteriori liberalizzazioni, arriva dal solito, preciso Luca Ricolfi. Si è deciso di partire dalle categorie il cui «apporto elettorale è minimo». I notai sono 5 mila, i taxisti meno di 20 mila, le farmacie poco più di 15 mila. Complessivamente un elettore su 1000. «Possiamo indignarci per la natura corporativa delle loro proteste, come a suo tempo ci siamo indignati per quelle dei forestali calabresi, dei controllori di volo, degli autoferrotranvieri. Ma resta il fatto che ogni richiesta di sacrifici è tanto più debole quanto più è selettiva, ossia mirata a gruppi e categorie particolari».

Meritocrazia e concorrenza dovrebbero entrare anche nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nel mercato del lavoro. E «paradossalmente il messaggio del governo sarebbe più digeribile se il rischio non fosse concentrato su alcune categorie-simbolo, ma investisse credibilmente un po' tutte le categorie di cittadini: i taxisti si sentirebbero meno capro espiatorio, e chi oggi è risparmiato dalla prima ondata non maramaldeggerebbe troppo, perché saprebbe che lo tsunami non è finito».

Liberalizzazioni a 360°, dunque. Chi certamente l'ha capito è Emma Bonino, che avverte: «Sulle liberalizzazioni il governo non si deve fermare ma procedere sul fronte dei servizi pubblici e le municipalizzate, e trovare il coraggio di togliere i privilegi ovunque si trovino...». Ovunque è ovunque.

Franco Debenedetti suggerisce di presentare il volto positivo e non punitivo delle liberalizzazioni. In realtà esse rappresentano «meno vincoli e più libertà», anche per le categorie interessate, «per fornitori e utenti». L'opinione pubblica riconoscerà i benefici delle liberalizzazioni? Solo se sarà chiaro che «un nuovo spazio di libertà» si è aperto per tutti.
«Non solo un maggior numero di taxi, ma più libertà ai taxisti di lavorare quando e quanto vogliono. Non solo medicinali nelle cooperative, ma libertà a tutti gli esercizi di investire spazio e risorse per vendere un nuovo prodotto. Non solo tariffe minori da notai e professionisti, ma libertà di concordare compensazioni diverse per le loro prestazioni... Libertà è anche poter sbattere la porta in faccia a chi non ti ha soddisfatto, senza dover pagare un prezzo per cercare una alternativa: non dev'essere così in Italia se, secondo lo studio delle Generali citato da Bersani, nonostante le nostre assicurazioni siano le più care d'Europa, si cambia compagnia ogni dodici anni, tre volte di meno che in Germania e quattro che in Gran Bretagna».
Ma le liberalizzazioni, come si è detto, attendono anche «settori più delicati», come l'università, la scuola, la sanità, l'energia, e allora il Governo dovrà dimostrare di saper tenere duro non solo con i tassisti, ma anche con «le grandi centrali sindacali del pubblico impiego».

Annientata la Wehrmacht, Azzurri per primi a Berlino

L'esultanza di Grosso dopo il primo golPer i tedeschi una sconfitta senza dignità

Di solito, dopo una vittoria così, si rendono gli onori agli avversari. Non è questo il caso, ed è da qui che voglio iniziare a commentare la vittoria di ieri sera. E non me la prendo con la miseria di un giornale che per aumentare le vendite ci ha insultati (ne siamo pieni anche in Italia di simili strategie di marketing), ma con il fatto che, sul campo, gli «imbroglioni» sono stati per una volta i tedeschi e non gli italiani. Una sconfitta senza dignità, la loro.

Si sono visti due o tre interventi tremendi, non perché duri, ma perché mirati a far male all'avversario, graziati da una tolleranza arbitrale inedita in questo mondiale. In particolare Ballack, il giocatore più rappresentativo, il capitano tedesco, nel contendere una palla alta, dopo un suo svarione, interveniva sulla testa di Iaquinta con il gomito alzato, riuscendo anche a farsi assegnare una punizione inesistente a suo favore. Ma soprattutto, i tedeschi si sono più volte resi protagonisti di ciò che storicamente viene imputato ai calciatori italiani: hanno simulato platealmente di subire falli.

Ci hanno provato costantemente in modo indegno e in tutte le zone del campo. La simulazione, il giocatore a terra, i 60 mila fischi dagli spalti, Klinsmann che si sbraccia, la regia che occulta qualche replay, tanto per descrivere il contesto ben poco fair.

Klinsmann ha costruito una squadra solida, bisogna dargli atto, ma la Germania non è più quella del '70, dell'82, o del '90. Quelli erano signori. Menavano come fabbri, ma erano signori. E a loro dobbiamo forse qualche scusa per un po' di "furbizia" italiana. Per una volta, invece, sono i tedeschi che dovrebbero vergognarsi e noi sollevare il caso. E la prossima volta, mi raccomando, la semifinale... a Norimberga.

L'Italia ha strameritato di vincere la partita, ma ai supplementari. Nei 90' un controllo territoriale, tecnico e tattico, però sterile, anche se qualche buona occasione nel primo tempo aveva fatto ben sperare. Qui siamo stati sempre molto critici con la Nazionale, forse un pizzico di troppo, lo ammettiamo. D'altra parte incontrare la Germania, per tradizione calcistica e come squadra di casa, costituiva la prova della forza di questa squadra. Adesso si può dire che complessivamente è l'Italia ad aver espresso il miglior gioco di questo Mondiale. E lo è, finora, non per il genio di un singolo, ma per l'elevata qualità media della rosa.

Eppure, non è mai esplosa in modo definitivo e arrembante, come ci si potrebbe attendere dall'immensa qualità del suo attacco. Diciamolo chiaramente: abbiamo visto i nostri attaccanti davvero irresistibili in Serie A. Fateci caso. Ieri sera la Germania in fondo ha ripetuto la stessa brutta partita che fece nella famosa amichevole del 4 a 1. Solo che i nostri sentivano nelle gambe l'importanza della gara ed è umano che sia stato così.

Soprattutto, mi sono sembrati bloccati Pirlo e Totti. Se, come ha spiegato Lippi in modo convincente, la marcatura di un centrocampista su Totti ci ha regalato la superiorità a centrocampo, è anche vero che non siamo stati capaci di trasformarla in pericolosità in attacco nei 90'. Mancava, nelle gambe di Pirlo e Totti, la scintilla dello sprint. Il coraggio e la sicurezza di provare a saltare l'uomo, tentare la progressione ai venti metri, rischiare l'assist decisivo. Ha prevalso il timore di perder palla. Abbiamo visto da Materazzi lanci fuori misura, da Pirlo - pur decisivo all'ultimo - troppi passaggi sbagliati, Totti assente nel secondo tempo. Nei supplementari si sono sbloccati e si è visto.

Per altri giocatori, la consacrazione. Cannavaro e Buffon giganti. Grosso il miglior terzino/ala del Mondiale (anche se nullo in fase difensiva), Zambrotta un jolly unico. Rendimento straordinario anche di Perrotta e Gattuso, di Toni, Gilardino e Camoranesi. Anche Del Piero, nonostante abbia sciupato due occasioni incredibili, comunque era vivo e l'ha dimostrato realizzando lo stesso gol che sbagliò nel 2000.

La sensazione è che abbiamo vinto la partita perché Lippi ha saputo, al contrario di molti suoi predecessori, non cadere nel solito atteggiamento rinunciatario del nostro calcio. Ho temuto che una volta ai supplementari la solita Italia tirasse i remi in barca consegnandosi alla lotteria dei rigori. E' invece lì che Lippi ha visto la possibilità della vittoria, puntando sulla stanchezza dei tedeschi (arrivati ai rigori già con l'Argentina). I giocatori in campo sanno leggere bene le sostituzioni che fa il loro allenatore. E inserire per i supplementari Gilardino, Iaquinta e Del Piero, tenendo Totti anche se stanco, è stato un messaggio chiaro: "ragazzi, dài che la vinciamo prima dei rigori". Con questo spirito, con questa certezza mai presuntuosa, i nostri sono entrati in campo e hanno fatto loro la partita. La tensione ha impedito agli azzurri di "accarezzare" la palla nel modo in cui sanno fare e che solo al 118° minuto, come per magia, solo Pirlo e Grosso hanno saputo fare. E l'esultanza di Grosso rimarrà comunque negli Annali come quella di Tardelli.

I tedeschi non riescono a batterci. La loro "logica" calcistica non riesce a cogliere il quid di indefinito, imprevedibile, imponderabile, del calcio italiano. Lo sanno e lo temono. Da qui il loro complesso di inferiorità nei nostri confronti.

E ora? Meglio la Francia o il Portogallo? Sia chiaro, tiferò Portogallo, ma per l'Italia sarebbe meglio trovare la Francia. Tre ragioni e una preoccupazione. La Francia ha già giocato la sua Finale. Con il Brasile ha messo in campo la concentrazione nervosa di una finale, giocando la partita perfetta. Difficile che sappia ripetersi, mentre gli azzurri possono migliorare ancora. Conosciamo il calcio francese molto meglio di quello portoghese (soprattutto se si tratta del Portogallo rinnovato da Scolari), a cominciare da Zidane, che i nostri conoscono bene. Affrontando la Francia non corriamo il rischio di sottovalutare l'avversario, cosa in cui siamo molto bravi, e potrebbe scattare lo stimolo della rivincita. D'altra parte - ed è la preoccupazione - ci sono quei due recenti precedenti (Quarti di Finale nel Mondiale del '98; Finale agli Europei del 2000). Due autentiche beffe. Speriamo che i nostri non sentano nei confronti della Francia un complesso d'inferiorità simile a quello che i tedeschi provano con noi. In ogni caso, Forza Azzurri!

Ecco a voi i dissidenti nordcoreani

Più che mai attiva la testa di ponte radicale nella politica internazionale. Matteo Mecacci, Rappresentante all'Onu del Partito Radicale Transnazionale, ha organizzato, il prossimo 12 luglio, a Roma, una conferenza PRT/Freedom House con alcuni dissidenti democratici nordcoreani e rappresentanti politici italiani. «L'aiuto alle forze democratiche rappresenta la migliore tutela per la sicurezza internazionale». Partecipate numerosi.

Tuesday, July 04, 2006

Opposizione di governo o richiamo del branco?

«Tifare Bersani», è il titolo di ben due editoriali su Il Foglio di oggi. «Espressione paradossale ma non tanto per una opposizione di governo, seria, concreta, non ondeggiante e subalterna, vuol dire battersi perché la politica riprenda senso...». Semmai «rilanciando, indicando i nuovi settori da liberalizzare in fretta, evitando il rischio di azioni simboliche incapaci di reggere l'urto della protesta sociale in nome degli interessi colpiti, e di districarsi nella formidabile azione reticolare della politica italiana...»

E d'altra parte, non era un'opposizione «di governo, seria, concreta» quella che Berlusconi e i suoi alleati quando erano al governo chiedevano, con ottime ragioni, alla sinistra? Non rischia il centrodestra, con le reazioni scomposte di questi giorni, di ficcarsi da solo nello stesso angolo di irrilevanza politica in cui molta parte della sinistra è finita nella scorsa legislatura?

Qui il primo («Certo che c'è malizia nel decreto, ma chi ci prova va premiato, sempre») e il secondo («senza illusioni»). Mi pare che questo uno-due (ma si veda anche l'articolo di Davide Giacalone), insieme ai post di Phastidio e Ispirati su TocqueVille.it, chiuda gioco-partita-incontro con quanti, attratti dal richiamo del branco, preferiscono negare il condivisibile e l'utile che c'è nel pacchetto Bersani e, anzi, attaccare il "nemico" per partito preso, fino a diventare nemici delle liberalizzazioni, per puro spirito di schieramento. Un atteggiamento impolitico e velleitario che porta dritti nelle riserve...

P.S. Splendido post di No Way che chiude così la questione TocqueVille.it:
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. La tendenza esisteva da tempo e trovava sfogo nelle ricorrenti polemiche sui "confini" di Tocqueville, ma dopo che molti (e tra i migliori) blogger cittadini hanno espresso il loro apprezzamento per le liberalizzazioni del decreto Bersani c'è stato chi ha dato dei pecoroni a tutti sostenendo che il compito dei blog iscritti a TV consisterebbe nell'appoggiare incondizionatamente le scelte (o le non scelte) del centrodestra e nel criticare sempre e comunque i provvedimenti del governo Prodi. Non ci siamo. Non ci siamo per niente. No way. Ho visto troppe persone intelligenti ridursi ad agire esclusivamente in base al riflesso condizionato antiberlusconiano per augurarmi che altre persone intelligenti facciano la stessa fine per colpa del riflesso condizionato antiprodiano. C'è chi lo ha scritto chiaramente:
«TocqueVille dovrebbe essere il luogo in cui un blogger che non vuole sentire solo la campana martellante della propaganda mediatica e ideologica della sinistra viene per trovare riflessioni e analisi di fatti recenti, di fenomeni economici, di fatti storici, di pensieri politici, liberali e conservatrici, non la pagina in cui si entra per leggere che Prodi non ne fa mai una giusta e che Bondi finalmente gliele ha cantate».
TV (e questo blog) sono nati come strumento di resistenza all'informazione a senso unico offerta dalla grandissima maggioranza dei media italiani, sono nati dunque contro la propaganda. Basterebbe questo per capire che non possono e non devono diventare i ripetitori passivi degli slogan del centrodestra.

Israele subito nell'Ue. Israele subito nella Nato

Arafat con CraxiViceministro Intini, la sua posizione è vecchia di vent'anni: ritorni al futuro. Alla Farnesina prove di unità socialista all'ombra della Quercia

Con tutti i limiti di ogni generalizzazione si può affermare che la storia dello Stato d'Israele, dalla sua nascita, nel 1948, ad oggi, sia stata un'incredibile storia di esemplare uso moderato della forza. Ad occhi abituati a guardare il conflitto mediorientale attraverso le lenti del pregiudizio europeo, ciò potrà apparire paradossale. Eppure, è un miracolo che uno Stato la cui esistenza stessa è minacciata da sessant'anni, fin dalla sua costituzione, e la cui forza militare è così superiore ai suoi nemici, non si sia reso responsabile di stragi e massacri di vaste proporzioni e abbia preservato al proprio interno istituzioni solidamente democratiche. Addirittura, unico caso di uno stato che abbandoni unilateralmente territori occupati in seguito a una guerra difensiva vinta.

La domanda che ci dobbiamo porre è: fino a quando? Quanto potrà resistere l'"eccezionalismo" israeliano? Il rischio è che, prima o poi, la "logica delle cose", quella che fino ad oggi non ha avuto la meglio, prevalga sulla "logica degli uomini".

Israele che arresta i ministri di Hamas può aver scandalizzato qualche anima candida. Ma se questi fanno parte di un'organizzazione ufficialmente terroristica? A Israele non serve la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni. Senza sbraitare a vuoto, e sarebbe già qualcosa, verso Hamas e i mullah iraniani, si possono compiere due atti semplici ma di immensa portata politica. Il primo è l'adesione di Israele all'Unione europea, come i radicali sostengono ormai da anni, sentendosi proporre da Giuliano Amato la partnership, proprio contro ogni ipotesi di membership. Il tipico esempio di quel tanto di riformismo che impedisce ogni riforma.

Il secondo è far entrare Israele nella Nato, integrandolo in tutto e per tutto nel sistema di sicurezza occidentale. L'idea è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. D'altronde, già possiede tutti i requisiti per l'adesione all'Alleanza Atlantica: è una democrazia, ha un libero mercato, è pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune, con il 10% del Pil di spese militari, 167mila uomini e donne in armi e 358mila in riserva. Sarebbe, l'ingresso nella Nato, un valido deterrente nei confronti delle pericolose tentazioni iraniane.

L'unico a riprendere questa proposta è l'attuale sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti (Margherita): «Qual è il modo migliore per rispondere alla minaccia nucleare iraniana se non includere Israele nella Nato?». Vernetti dimostra così di aver compreso ciò che i radicali sostengono da tempo con la proposta di Israele nell'Ue: coinvolgere Israele, unica democrazia del Medio Oriente, in un sistema multilaterale di sicurezza, mirare a una sua maggiore integrazione con l'Europa e l'Occidente, significa a) prevenire possibili derive autoritarie e militariste cui un paese in guerra da sessant'anni può essere soggetto; b) ribadire il diritto di Israele a esistere e porre di fronte al mondo islamico il dato della sua esistenza come irrinunciabile per l'Europa e l'Occidente; c) assumere un ruolo di maggiore responsabilità nel processo di pace e prefigurare assetti di integrazione su base regionale tra Israele e i suoi vicini, incoraggiando i processi democratici degli altri paesi arabi.

La proposta è stata subissata da un coro di "no". «Irrealistica» per D'Alema, «imprudente» per Bobo Craxi, quasi una provocazione per la sinistra neocomunista.

Implicita la polemica di Vernetti con la politica della cosiddetta "equivicinanza" nei confronti di israeliani e palestinesi, rientrata alla Farnesina con Massimo D'Alema, che si pone come l'erede più autorevole della tradizionale politica filopalestinese degli anni '80, craxiana e andreottiana. D'Alema ha costituito una sorta di "direttorio" dell'"equivicinanza", chiamando vicino a sé un viceministro con delega al Medio Oriente, Ugo Intini, e un sottosegretario, Bobo Craxi, le cui vite politiche sono entrambe strettamente legate proprio alla politica filoaraba che fu di Bettino Craxi. Al contempo, dando vita sotto la sua egida quasi a un laboratorio di unità socialista subalterna alla Quercia.

E' sempre utile, quando si cita un sottosegretario, specificare tra parentesi in quale partito milita. Per esempio, un Vernetti, con la sua proposta, potrebbe venire confuso con un esponente della Rosa nel Pugno. Le sue, anche sull'Afghanistan, sono idee di una sinistra liberale e antitotalitaria. Non si può dire altrettanto del viceministro Intini (Rosa nel Pugno), che con la sua intervista, di pochi giorni fa al Corriere della Sera, dimostra di essere "equivicino" a D'Alema, se non, addirittura, ad Arafat.

Intini non si appunterebbe sulla giacca un fiocco blu per il soldato israeliano rapito, come proposto dal quotidiano israeliano Ha'aretz, perché troppi fiocchi neri dovrebbe appuntarsi tutti i giorni. Sottinteso: per le vittime del fuoco israeliano.

La sua è una politica "vecchia" maniera. Ci vogliono dialogo e diplomazia per risolvere la questione mediorientale. Ci auguriamo, quindi, che sia più dotato e più fortunato dei suoi predecessori. D'altra parte oggi, spiega, «si dice di Hamas quello che si è detto per anni di Arafat: che era a capo dei terroristi e non voleva riconoscere Israele. Invece poi ci furono gli accordi di Oslo. La Storia può ripetersi». Speriamo proprio, al contrario, che quella brutta storia non si ripeta. Dov'è stato Intini in questi anni, per non aver visto che di ambiguità in ambiguità, passando da un'intifada all'altra, Arafat ha finito per screditarsi completamente, ed essere isolato dai principali attori internazionali, su tutti Israele e Stati Uniti? Non ha visto, Intini, che dopo la sua morte Arafat è caduto rapidamente nel dimenticatoio?

Arafat viene oggi ricordato come un leader cinico e corrotto che ha usato il terrorismo, finendo per venirne usato a sua volta, e che ha fallito nel costruire quello che doveva essere un embrione di Stato palestinese. Vedere ancora oggi in Arafat un modello di interlocutore che Hamas può far suo è un abbaglio clamoroso. Intini dimostra così di non aver compreso minimamente la natura fondamentalista di Hamas e di ignorare cosa sia avvenuto dagli accordi di Oslo in poi. L'irriducibile doppiezza di Arafat, l'essere rimasto, in definitiva, un terrorista, mai trasformatosi in statista, sono i fattori che l'hanno reso parte del problema, non della soluzione. Intini sembra ancora legato all'idea romantica di un Arafat prima combattente, poi negoziatore - idea completamente superata dai fatti - e comodamente adagiato su una visione del conflitto israelo-palestinese che risale a vent’anni fa.

Il problema, nell'anno 2006 dopo-Cristo, è davvero trovare una «patria» ai palestinesi? Può tutto essere ricondotto a un episodio di decolonizzazione? Quella dei palestinesi può essere ritenuta una guerra di liberazione nazionale?

Prosegue Intini nell'intervista: «Gli omicidi mirati aumentano la spirale dell'odio e della violenza. Da uno Stato democratico ci si aspetta più prudenza e moderazione di quanto ci si aspetti da organizzazioni terroristiche». Perché aspettarsi da organizzazioni terroristiche qualcosa di diverso da stragi di civili? Intini è acuto: sa che è molto più facile, si fa più bella figura, "moderare" uno stato democratico, più portato a prestare ascolto ai paesi "amici". Non si rende conto, Intini, che concentrando su Israele le richieste di "moderazione" si sta in realtà chiedendo agli israeliani di combattere il terrorismo con mani e piedi legati? Come si fa a preoccuparsi più degli omicidi mirati di capi terroristici, che delle stragi di civili innocenti sugli autobus?

La conclusione è grottesca. Secondo Intini, il muro alzato da Israele (che poi muro non è, se non in brevissimi tratti) sarebbe cosa ben peggiore del Muro di Berlino, nonostante questo servisse a ingabbiare i cittadini di Berlino Est, e non a proteggerli da attacchi esterni. Motivo? Il "muro" israeliano è costruito «dentro il territorio altrui». Ma il viceministro ignora che la Suprema Corte israliana ha da tempo riconosciuto l'illegittimità delle parti del "muro" che superino i confini e il governo ha provveduto a spostare il tracciato.

Avevo già manifestato, con questo articolo per Notizie Radicali, le mie profonde perplessità in merito alle posizioni di politica estera espresse da Intini, lo scorso 3 marzo su il Riformista: in 4.192 battute non comparivano mai parole come "democrazia", "libertà", "diritti", né s'intravedevano gli iracheni o gli iraniani. Le critiche mosse dal capolista della Rosa nel Pugno all'amministrazione Bush per la sua politica in Medio Oriente andavano iscritte senza indugi alla scuola realista, mentre la promozione della democrazia - non la stabilità, o "equivicinanze" fra dittature e democrazie - dovrebbe essere, almeno per i liberalsocialisti, il parametro guida nella politica internazionale.

Intini stavolta si è meritato l'ironia di Andrea Marcenaro, nella sua Andrea's Version, su Il Foglio del 30 giugno:
Era struggente, ieri, «l'amico di Israele» Ugo Intini che respingeva con fastidio l'invito di Haaretz ad appuntarsi sulla giacca un fiocco blu fino a che il soldato israeliano rapito dal terrorismo palestinese non venga liberato. Che scemenza, ha risposto, «se mai bisognerebbe metterne uno nero tutti i giorni». Lei pone sullo stesso piano attacchi terroristici e omicidi mirati?, gli è stato chiesto. «Ovviamente no – è stata la risposta – però gli omicidi mirati aumentano la spirale dell'odio». Cioè, ovviamente sì. «E si sparla oggi di un Hamas terrorista come per anni si è sparlato di Arafat». Così, dopo aver trattato con sprezzante sufficienza il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, «sempre meglio di nessun ritiro», il viceministro degli Affari esteri con delega al medio oriente si è avventurato nell'elogio della superiorità del Muro di Berlino rispetto alla barriera antiattentati innalzata da Israele: «Uno era almeno al confine tra due stati, l'altro è costruito in territorio altrui». E si è capita lì la lungimiranza di Michele Serra che lo chiamò a suo tempo Ugo "Palmiro" Intini. Certo che Ugo "Palmiro Yasser" Intini sarebbe stato perfetto.

Campagne acquisti intelligenti

Questo Buglio si rivela sempre più un grande acquisto. Uno dice: ti prendi gli scarti dei Ds come ci si prendono gli scarti dalla Juve. Sì, ma con la differenza che la Juventus i campioni se li tiene, i Ds li danno via.
«In una società libera i tassisti hanno lo stesso diritto di tutti gli altri lavoratori di associarsi e lottare per difendere i propri interessi. Ad una condizione: che le forme di lotta restino rigorosamente nei limiti della legalità. Non è il caso delle agitazioni di questi giorni. E' stata violata la disciplina del conflitto sindacale nei servizi pubblici. E' stato bloccato il traffico stradale. E' stato impedito ai viaggiatori di recarsi in aeroporto o farne ritorno con i propri mezzi. Queste manifestazioni recano grave pregiudizio per la cittadinanza. Si deve ritornare alla normalità la qual cosa non sarà possibile con la sola precettazione...»
Sul tema delle liberalizzazioni e dello scontro sulle licenze dei tassisti, imperdibili i commenti di Pietro Ichino, sul Corriere, e di Mario Ricciardi, su il Riformista:
«Non cedere, e avere il coraggio di affrontare lo scontro se necessario, è anche un segnale importante, all'estero come all'interno, che stavolta il centrosinistra fa sul serio. Che le incertezze e le ambiguità sono un retaggio del passato e comincia una nuova epoca, quella della sovranità del cittadino consumatore».
Di Ichino riportiamo per intero questo passaggio:
«Il sistema della licenza rilasciata dal Comune svolge per i tassisti la stessa funzione che l'iscrizione obbligatoria a un albo svolge per i liberi professionisti e che il divieto di licenziamento svolge per i lavoratori dipendenti: una garanzia di sicurezza di continuità del lavoro e del reddito. Poiché la sicurezza è uno dei beni più importanti della vita, si capisce che ciascuna di queste categorie la difenda con le unghie e coi denti. Il problema è che questa garanzia funziona essenzialmente limitando la concorrenza, cioè proteggendo l'insider che ne gode contro il rischio di essere sostituito da un outsider. Donde un costo non solo per chi si vede sbarrato od ostacolato l'accesso al mestiere protetto, ma anche per gli utenti, in termini di riduzione dell'offerta del servizio e di prezzi più alti. La sicurezza del lavoratore, dunque, è un bene; ma non un bene assoluto: la sua protezione deve essere contemperata con gli interessi di altri. E qui i nostri tassisti non hanno davvero le carte in regola...»
I tassisti, tra l'altro, non hanno compreso bene il decreto, che non li priva del valore della licenza, ma gli offre la possibilità di diventare essi stessi imprenditori. Certo, non è cosa per chi se ne voglia stare a braccia incrociate come oggi, ma i primi che lo capiranno sapranno trarne grande vantaggio. Ed è triste vedere i cartelli razzisti che i dimostranti hanno esposto sulle loro auto: "Grazie a Prodi e Bersani sui taxi ci andranno gli africani"; "chiamate mustafà" e robaccia del genere.

Tornando alle campagne acquisti, Il Riformista ha da poco cambiato "allenatore". Paolo Franchi è succeduto alla breve parentesi Cingolani, vice di Polito, ora senatore della Margherita. E il gioco cambia subito. A pag. 1, il direttore risponde all'editoriale del lunedì di Polito: «Quanto ha scritto Polito aiuta a mettere in chiaro i termini di un franco dissenso politico. A che cosa dovrebbe servire il Partito democratico? Dice Polito e, con lui, immagino, Francesco Rutelli e numerosi altri esponenti della Margherita: "A prendere i voti dell'elettorato di centro quando il centrodestra si scioglierà". Benissimo. Anche se nessuno è in grado di dire se, come e quando Silvio Berlusconi si risolverà o sarà indotto al fatidico passo indietro, un simile obiettivo (lo stesso, a guardar bene, che la Margherita si era data, senza successo, in queste elezioni) è quanto mai sensato. Anzi, se vogliamo, anche un po' ovvio. E però: siamo poi così certi che i famosi voti di centro (che nessuno saprebbe esattamente quantificare) si guadagnino spostandosi sempre più al centro? che i riformisti abbiano, per missione storica, quella di risultare sempre più simili ai moderati, quando non addirittura ai clericali? Ancora: ove anche le cose stessero esattamente così, e non lo credo, siamo davvero convinti di potercela fare senza aprire, sulla nostra sinistra, delle praterie? Io ho dei dubbi seri sulla possibilità e l'utilità di mettere in piedi un partito democratico di centrosinistra, per lo meno sulle basi di cui si è parlato sinora. Ma un partito democratico di centro che, a differenza dalla Dc degasperiana, nemmeno guarda troppo a sinistra, e che oltretutto non si farà mai, perché i Ds non potrebbero in alcun modo aderirvi, fatico persino a immaginarlo...»

E a pag. 7, rubrica delle lettere, rispondendo a un lettore che manifestava il suo disagio per l'inserto "il Sussidiario", di Giorgio Vittadini: «Lei ha ragione. Mea culpa, naturalmente. Il Sussidiario, un supplemento mensile "che esce grazie al contributo della Fondazione per la Sussidiarietà", lo ho ereditato. E' un lascito sul quale è certamente il caso di fare qualche ulteriore, rapida riflessione».

Monday, July 03, 2006

E sulle liberalizzazioni cade il centrodestra

Lungo il corporativismo corre il «filo che unisce fascismo, regime democristiano e sindacato comunista»

Ricco di spunti, come al solito, l'articolo di Francesco Merlo, su la Repubblica, che riflette sullo spaccato d'Italia messo in discussione dalle liberalizzazioni:
«In Italia non si entra nei mestieri, vale a dire nelle corporazioni, se non per cooptazione familistica. Filo che unisce fascismo, regime democristiano e sindacato comunista, la corporazione in Italia è una famiglia allargata, è tribalismo ristretto, è cosca feroce».

Franca ed equilibrata l'intervista di Antonio Martino al Corriere della Sera:
«... vorrei studiare per bene il pacchetto. Ho stima di Bersani, e anche sulle sue intenzioni non ho dubbi. Gli faccio gli auguri perché riesca a realizzarle. Se è il primo passo, un segnale della politica a venire, come si dice in gergo marinaro, acqua davanti e vento dietro: buona navigazione. Se va verso il mercato e la competizione».
E sul centrodestra ammette: «Abbiamo fatto meno di quello che avremmo voluto e potuto fare». Poi, piazza lo slogan "di governo" azzeccato: «Non servono manovre, ma riforme». Martino, lei è autorevole, carriera di governo l'ha fatta, perché non prende in mano le macerie liberali del centrodestra e gli dà una forma riconoscibile di lotta?

Ma che il centrodestra sia alla fine di una corsa - e non sappiamo su quale corsa salterà ora (anche se un tremendo sospetto lo abbiamo) - lo dimostra l'annuncio di un assessore del Comune di Milano: i tassisti stiano tranquilli, perché l'amministrazione non ha alcuna intenzione di applicare il decreto Bersani. C'è o no da aprire un fronte di lotta liberale nel centrodestra? E se non ora, quando?

Sono mesi che scrivo, su questo blog ma non solo, che non tanto e non solo nei diritti civili si vedeva l'involuzione antiliberale del centrodestra, ma anche in economia. Involuzione sottovalutata da tanti, troppi. E in troppi hanno preferito farsi cullare comodamente dall'illusione del '94, senza saper guardare oltre lisi schemi ideologici. Una conferma di quanto avvertiva Montanelli, cioè che la destra in Italia non riesce ad essere liberale. Mi pare che in questi giorni sia ormai evidente che la metamorfosi antiliberale sia compiuta, ma, immagino per debolezza, non mi sembra sufficientemente forte e consapevole la reazione di quanti si professano liberali. Quando capiranno che la loro priorità oggi è la Riforma del centrodestra e non combattere la sinistra? Sì, che hanno più nemici tra gli "amici" che nel campo avverso?

Prefer a feast of friends, to the giant family

The movie will begin in five moments... The mindless voice announced... The program for this evening is not new, You've seen this entertainment through and through. You've seen your birth, your life and death, You might recall all of the rest. Did you have a good world when you died? Enough to base a movie on? (Jim Morrison)Con oggi fanno 35 anni dalla morte di Jim Morrison. Parigi, 3 luglio 1971.

Awake.
Shake dreams from your hair
My pretty child, my sweet one.
Choose the day and choose the sign of your day
The days divinity
First thing you see.

A vast radiant beach in a cool jeweled moon
Couples naked race down by its quiet side
And we laugh like soft, mad children
Smug in the wooly cotton brains of infancy
The music and voices are all around us.

Choose they croon the ancient ones
The time has come again
Choose now, they croon
Beneath the moon
Beside an ancient lake

Enter again the sweet forest
Enter the hot dream
Come with us
Everything is broken up and dances.

(Ghost Song)

No more money, no more fancy dress
This other kingdom seems by far the best
Until it's other jaw reveals incest
And loose obedience to a vegetable law.

I will not go
Prefer a feast of friends
To the giant family.

(The Severed Garden)

Sunday, July 02, 2006

Liberalizzazioni. Il centrodestra sbanda

Avanza il "girotondismo" a destra

Mentre Prodi annuncia «altre liberalizzazioni», il centrodestra reagisce in ordine sparso al sorpresone Bersani, per lo più arrampicandosi sugli specchi, evidenziando ancora una volta il suo volto più retrivo e illiberale. Storace, La Russa e Castelli, e non ci stupiscono, la buttano in propaganda, ma neanche Forza Italia è da meno, con i "socialisti" Bondi e Cicchitto. La tesi è che vengano colpite "solo" alcune categorie, guarda caso vicine al centrodestra.

E' piuttosto vero il contrario, cioè che le categorie più solidamente "di sinistra" - i giornalisti, i magistrati, i sindacati, gli impiegati pubblici - vengono risparmiate, o comunque per esse vale l'inviolabile principio della concertazione. Ma occorre evitare del "benaltrismo", anche perché non bisogna far finta che le categorie toccate dalle liberalizzazioni siano solo tassisti e farmacisti. Ci sono anche altri professionisti, la cui collocazione politico-ideologica è molto meno netta di quanto si possa immaginare, assicurazioni, banche, società miste o partecipate dei servizi pubblici locali.

Inoltre, alcune misure vanno a vantaggio anche delle imprese e del commercio. Vengono abolite le commissioni comunali e provinciali per aprire esercizi commerciali, aboliti i vincoli per aprire panifici, le restrizioni su saldi e promozioni, il divieto per i professionisti di farsi pubblicità, e gli assicuratori diventano "broker" di polizze.

E poi, attenzione. Non è vero, in generale, che le liberalizzazioni "colpiscono" le categorie. I tariffari minimi, per esempio, proteggono illegittimamente gli studi professionali già avviati, indipendentemente dal loro valore di mercato, rispetto a quei nuovi laureati che lavorando a prezzi più competitivi vogliano crearsi una loro clientela. Allora, più che colpire "la" categoria, le liberalizzazioni colpiscono i "privilegiati" di quella categoria, aprendola invece a chi vorrebbe entrarci.

Solo da Benedetto Della Vedova e Marco Follini, tra l'altro firmatario del manifesto-appello di Capezzone, commenti costruttivi al pacchetto Bersani. Follini ritiene che «l'opposizione debba sfidare la maggioranza sulla trincea di liberalizzazioni più incisive e non invece dalla postazione di difesa degli interessi corporativi. Tra noi e loro la sfida dovrà essere sul terreno della concorrenza».

Il ragionamento che pare prevalere, per cui quanto di condivisibile e utile c'è nel pacchetto Bersani non si debba comunque riconoscere e anzi lo si debba attaccare per partito preso, si commenta da solo: girotondismo di destra.

E al centrodestra arriva la strigliata di Angelo Panebianco, sul Corriere di oggi: «È, all'apparenza, un Paese bizzarro quello in cui si deve attendere un governo di sinistra, nel quale abbondano gli statalisti incalliti per i quali concorrenza, mercato, liberalizzazioni sono bruttissime parole, per ottenere un forte segnale a favore della concorrenza. Naturalmente, non è tutto oro quel che luccica. Come ha giustamente osservato Francesco Giavazzi sul Corriere di ieri, queste misure di liberalizzazione sono state costruite in modo da toccare il meno possibile interessi rappresentati dalla attuale maggioranza. Le liberalizzazioni insomma non riguardano ambiti (come i servizi pubblici) dove scatterebbe il potere di veto dei sindacati e la maggioranza si dividerebbe. Ma questo non è necessariamente un motivo di biasimo per il centrosinistra. È piuttosto un punto a sfavore del passato governo di centrodestra».

Se è vero che ogni governo tende a liberalizzare sulla pelle delle fasce sociali altrui, «è l'alternanza stessa al potere che finisce per innalzare i livelli complessivi di libertà economica e di concorrenza nella società. Il problema però è che il passato governo Berlusconi fece, sotto questo profilo, troppo poco... non riuscì a introdurre concorrenza nemmeno nei settori ove era prevalente la sinistra. Scelse, piuttosto, in quell'ambito, di non scontrarsi con le lobbies sindacali. Deludendo così la parte di elettorato che aveva creduto nelle sue promesse di liberalizzazione. E facendo un cattivo affare elettorale: lungi dall'essere grata al centrodestra per non averne smantellato i privilegi, la maggioranza degli addetti del settore pubblico ha votato a sinistra... Il centrosinistra, con il pacchetto Bersani, ha fatto bene il mestiere suo. Il centrodestra dovrebbe cominciare a riflettere sul perché, quando governava, non riuscì a fare altrettanto».

Nessuna esaltazione. L'azione liberalizzatrice di cui abbiamo avvertito i primi vagiti, va seguita, difesa, incoraggiata. E il godere accontentandosi non è di casa su questo blog. Le categorie (tassisti, farmacisti, avvocati, notai) sono già sul piede di guerra e dovranno essere affrontate con spirito thatcheriano. In Parlamento, come argine difensivo, confidiamo nel presidente della Commissione Attività produttive. E' lo stesso Giavazzi a suggerire di rimanere coi piedi per terra, e fa bene. «Non lasciamoci abbagliare. Le norme approvate ieri sono state scelte con cura in modo da non far sorgere problemi all'interno della maggioranza: nulla sul lavoro, né sui dipendenti pubblici, né sull'università... così le scelte davvero difficili sono state rinviate».

Saturday, July 01, 2006

Liberalizzazioni. Ora avanti con spirito thatcheriano

Una lezione sul mercato al fu governo Berlusconi? "Agenda Giavazzi" lettera morta? Solo illusioni, quelle della Rosa nel Pugno, con il manifesto di Capezzone, ma, ancor prima, in campagna elettorale, quando Berlusconi derideva la Bonino, ingenua nel credere alle liberalizzazioni del centrosinistra? Scrive il Riformista:
«Il segnale c'è ed e fortissimo. Anche il più ostinato scettico nei confronti del centrosinistra attuale lo deve riconoscere, se ama il mercato e la concorrenza. La famosa "agenda Gavazzi", l'elenco delle riforme pressoché a costo zero da assumere all'esordio del governo per far capire a tutti che la competitività non è fatta solo di ricette da convegno, da ieri non è più un elenco di occasioni perdute».
Staremo a vedere. Certo, l'azione della premiata ditta Bersani-Letta va seguita, difesa, incoraggiata. E il godere accontentandosi non è di casa su questo blog, ma forse qualche sorrisetto in meno... sarebbe gradito.

Ecco cosa cambia (meglio, Phastidio), in concreto le misure, alcune delle quali risolvono burocraticismi incredibili, di cui non sapevamo:
  • Abolite le tariffe minime degli ordini e via libera alle pubblicità degli studi professionali
  • Farmaci da banco nei supermercati
  • Gli assicuratori potranno vendere polizze di diverse compagnie
  • Libertà di fare il pane
  • Una licenza, più taxi
  • Licenze più veloci per bar e ristoranti
  • Niente notai per passaggi di auto e moto
  • Chiusura dei conti gratuita se la banca modifica le condizioni
  • Ai privati tratte di trasporto pubblico, ma senza sussidi
  • Liberi saldi e promozioni
  • Multe antitrust più salate
  • Servizi pubblici appaltati tramite gara
  • Ma la battaglia non è vinta perché le categorie (tassisti, farmacisti, avvocati, notai) sono già sul piede di guerra e dovranno essere affrontate con spirito thatcheriano. In Parlamento, come argine difensivo, confidiamo nel presidente della Commissione Attività produttive.

    Oltre alle prime liberalizzazioni non sfugga la scelta "americana", davvero non di poco conto in difesa dei consumatori, di introdurre le class action: «Riprenderemo il testo approvato dalla Camera, nella scorsa legislatura, arricchito con telecomunicazioni, energia ed elettricità», ha annunciato Bersani. La più efficace, a mio avviso, delle misure antitrust, insieme alla fine del rapporto di esclusiva con una sola compagnia per gli agenti assicurativi.

    L'apprezzamento per le misure del Governo è bipartisan. Arriva dal Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi: «Un buon avvio. La situazione difficile dei nostri conti pubblici non è la causa prima, bensì la conseguenza del virus che ha colpito l'Italia. Il nodo è la scarsa libertà economica, i mille vincoli che impediscono alle imprese di crescere, un mercato del lavoro che protegge chi un posto ce l'ha a scapito di chi ne è escluso... Il valore del "pacchetto Bersani" non sta tanto nelle singole misure, peraltro significative (farmacie, notai, professionisti, class action, tassisti, RC auto, conti correnti), bensì nel segnale che finalmente si ha il coraggio di non sottomettersi alla pressione delle lobby. Finora nessuno c'era riuscito».

    Ma Giavazzi, in prima pagina, colpisce e affonda anche il misero Roberto Villetti. Ma come, nel momento in cui ci sarebbe da incassare un primo rilevante successo politico, lui si mette a fare questioni di "stile"? «All'interno della maggioranza di governo il merito va in particolare alla Rosa nel Pugno, che ha fatto del liberismo la sua bandiera e non ha abbandonato la battaglia, nonostante sia stata ripetutamente strapazzata dagli elettori. Questo risultato dovrebbe far riflettere chi, come Roberto Villetti, oggi propone di sciogliere la Rosa, un partito che dimostra di avere una funzione di pungolo purtroppo rara nella politica italiana».

    L'editorialista però, rimane coi piedi per terra, e fa bene. «Non lasciamoci abbagliare. Le norme approvate ieri sono state scelte con cura in modo da non far sorgere problemi all'interno della maggioranza: nulla sul lavoro, né sui dipendenti pubblici, né sull'università... così le scelte davvero difficili sono state rinviate».

    Troppo poco anche sulla riduzione della spesa pubblica. Fa qualche esempio, ma chiude in gloria quando chiama in causa i 40 milioni di euro di contributi ai quotidiani per l'acquisto della carta. Proprio necessari?

    Un riconoscimento arriva anche da Libero, in particolare da Alberto Mingardi, dell'Istituto Bruno Leoni, che ammette: il "pacchetto Bersani" può dare una «scossa positiva». «Che male c'è se è questo governo a fare a pugni con le corporazioni? Lo scandalo vero e che non ci abbia provato quello prima». Quindi, «se ce la fanno, giù il cappello». Mingardi si chiede se siano «cose di sinistra». Apparentemente no, non di quella sinistra, statalista e conservatrice, che siamo abituati a vedere in Italia, ma lo sono, "di sinistra", se pensiamo a una sinistra liberale. E nello stesso articolo di Mingardi emerge chiaramente come le liberalizzazioni, nel dare la parola al mercato e ai meriti, colpiscano i privilegi e diano una mano agli esclusi. «In un Paese normale le avrebbe benedette un esecutivo liberista, conservatore, presumibilmente: di centrodestra».

    Rimane una pecca: «Scoprendosi liberista, il governo colpisce in realtà i privilegi di chi non lo ama», delle categorie che tradizionalmente non lo sostengono. Vero solo in parte, visto che le misure di Bersani riguardano almeno una dozzina di categorie. Ma è pur vero che una categoria che di sicuro sostiene la sinistra, quella dei giornalisti, esce totalmente indenne.

    Azzurri marciano verso Berlino

    Non rimane che "eliminare" la Wehrmacht

    Con un rigore dubbio al 93° minuto, dopo una partita giocata in modo indegno, hanno superato gli australiani agli ottavi, non dei fulmini calcisticamente parlando.

    Ieri, passati in vantaggio con una prodezza di Totti-Zambrotta, in un primo tempo ben giocato ma certo non arrembante come pure l'inconsistente difesa ucraina avrebbe permesso, e consigliato, sono usciti indenni da un quarto d'ora di assalti ucraini (una traversa, un palo, un salvataggio sulla linea, due grandi parate di Buffon), grazie a un gol in fuorigioco (Cannavaro non tocca la palla di testa, ma partecipa all'azione da posizione irregolare).

    L'Italia di Lippi chiude la partita con sei difensori in campo contro i malcapitati ucraini. Ma l'Italia va. Note positive? Certo. Toni s'è sbloccato, Zambrotta, Cannavaro e Buffon giganti, Totti sempre meglio (due assist).

    In crescita, di forma e di gioco, ma sempre con quel neo di chiudersi troppo, e troppo presto, nella propria area di rigore a difendere lo striminzito uno a zero. Tattica che con squadre più forti in attacco (che per fortuna non abbiamo incontrato) non ci porterebbe lontano. Nel caso in cui passassimo in svantaggio, dove troveremo la mentalità di gioco che ci vuole per recuperare?

    Per carità, peggio hanno fatto Germania e Argentina. La Germania passa ai rigori, ma dopo 120 minuti del catenaccio che rimprovera all'Italia. Gli argentini hanno meritato di uscire. Hanno prodotto una melina irritante, senza verticalizzazioni, simulato falli inesistenti e perdite di tempo. Una squadra costruita attorno a un'ombra, Riquelme, che ha convinto solo contro la Serbia, ma con in campo contemporaneamente Messi e Tevez, gli unici che escono bene dalla disfatta.