Nessuna risata è più facile, infantile e "stupida", banale direi, di quando (di solito) ci scappa da ridere vedendo qualcuno inciampare e cadere goffamente. Questa l'ironia, la satira con la quale
Michael Moore "strazia" il presidente Usa
George W. Bush nel suo ultimo "documentario",
Fahrenheit 9/11. Bush può davvero essere un "deficiente", un
unfit for command, ma a tutti capita di inciampare, o no? Almeno così è congeniata, tra menzogne e forzature fin troppo evidenti, la prima parte del film, comunque a tratti esilerante. Nella seconda invece è semplicemente di cattivo gusto l'uso strumentale e la banalizzazione che viene fatta del dolore delle vittime della guerra e delle immagini più cruente della battaglia. Tutto al solo scopo di far capire qualcosa di cui ci rendiamo bene conto: la guerra è una schifezza. Il succo è che Bush e la sua cricca sono tenuti per le palle dalla famiglia reale saudita e dalla famiglia Bin Laden. Per questo dopo il 9/11 non ha attaccato l'Arabia Saudita, ma prima l'Afghanistan (per gli oleodotti) e poi l'Iraq (per arricchire
Halliburton e
Carlyle). Insomma, la solita solfa trita e ritrita, nulla per cui irritarsi più di tanto. Per di più gli americani nel complesso ne escono bene. Il film è gradevole, in fondo sciocchino, direi infantile, ma costruito astutamente come
business.
Così all'uscita mi è scappato di dire all'indirizzo dei miei compagni di serata: «Insomma, non esiste un "caso America"». Non l'avessi mai detto. Il
Former MEP si è subito dissociato denunciando l'evidente degrado della democrazia americana di questi tempi, un pericolo anche per un futuro di democrazia e sviluppo per miliardi di persone. Vedere le avide
corporation comprare i voti dei
congressmen a discapito di molti temi cari alla maggior parte dei cittadini Usa (diritti individuali e promozione della democrazia) fa tremare i polsi. Persino
google e
yahoo fanno affari in Cina calpestando i diritti dei cinesi oppressi dalla dittatura e gli stretti rapporti economici Usa-Cina non fanno che indebolire l'attenzione sui diritti umani che «c'era una volta».
Già, "c'era una volta un bambino cattivo e uno buono". A parte che "una volta" non era così diverso, tutte queste questioni indubbiamente esistono, ma da qui a sostenere che esiste un "caso America" e che la politica, Radicale per giunta, deve innalzarlo a priorità mi sembra davvero eccessivo. La competizione tra gruppi d'interesse per influire sui processi decisionali è linfa vitale per le democrazie liberali, così come lo spietato ruolo di
watchdog dei media e quello di un'opinione pubblica matura ed articolata in centinaia di migliaia di influenti associazioni. A meno che non si voglia negare che proprio negli Stati Uniti questi elementi coesistono più che in ogni altro Paese. Né mi risulta che i rapporti economici, anche i più vantaggiosi e cinici, tra una democrazia e una dittatura, abbiano precluso dei cambiamenti, anzi forse hanno spesso contribuito a porvi le premesse. Gli Stati Uniti potrebbero certo essere più aggressivi nella promozione della democrazia e i diritti umani (anche se i più le rimproverano proprio il fatto di esserlo), ma la loro politica con la Cina - nonostante il cittadino americano forse ora ha altre legittime
priorità - non mi sembra tra le più tenere; numerosi
think tank studiano ed elaborano scenari su tensioni e conflitti dell'immediato futuro che ricevono l'attenzione dell'
establishment. Né riconoscere quel tanto di realismo che regge le relazioni internazionali significa vendersi al diavolo. Detto ciò, il monitoraggio delle democrazie avanzate è lavoro
necessario da affidare ad una
Organizzazione mondiale delle democrazie, perché nulla è acquisito per sempre nella storia umana. Tuttavia, la politica è anche saper individuare delle priorità, altrimenti si rimane intrappolati nella denuncia globale e non si è in grado "incasellare" una dopo l'altra azioni politiche concrete.
La discussione si è protratta fin troppo. Insomma io volevo solo dire che se in un clima di antiamericanismo dilagante ci mettiamo ad indicare gli Stati Uniti tra i primi problemi, rischiamo di scivolare su un terreno pericoloso (e già percorso a sufficienza). Ciò non significa chiudere gli occhi su quanto succede oltreoceano, ma avere coscienza del contesto politico in cui siamo e aggrapparci ad alcune certezze, non per cedere ad una debolezza, ma per aiutarci a vedere meglio gli obiettivi più urgenti.
Fuori dal cinema ho tirato quindi un sospiro di sollievo perché il film di Moore mi pare lontano dal poter truffare chiunque abbia un minimo di buon senso.
Ultima nota: nel nostro immaginario collettivo attribuiamo spesso agli Stati Uniti un potere d'influenza sugli eventi del mondo che di fatto non hanno e sottovalutiamo invece la costante e incisiva azione di attori internazionali che sono molteplici, incontrollabili, e - peggio ancora - per noi invisibili.