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Wednesday, December 06, 2006

Nuovi fusionismi cercasi

«Liberisti e di sinistra, libertari e liberal, in una parola "liberaltarians"». E' Christian Rocca, su Il Foglio, a spiegarci l'ultimissimo fenomeno della politica americana, «la nuova formula contenuta in un manifesto politico progressista pubblicato sulla rivista liberal The New Republic, a firma di Brink Lindsey, vicepresidente del Cato Institute».

I grandi successi del GOP, dalla sconfitta di Goldwater (1964) al trionfo di Reagan (1980), si devono all'alleanza strategica stretta tra i conservatori tradizionali e i libertari. Spinti da motivazioni diverse, si sono ritrovati nell'anticomunismo e nell'idea di Stato minimo, in difesa gli uni della tradizione, gli altri della libertà individuale. Lo Stato era il problema, non la soluzione.

Oggi questa alleanza «è entrata in crisi». Quando è nata, il problema era di «proteggere i valori tradizionali dall'intrusione del governo», mentre oggi - avendo ottenuto sostanziali successi, soprattutto negli anni '80, nella riduzione delle tasse e, in generale, dell'intervento del governo - i conservatori chiedono di «promuovere i valori tradizionali attraverso l'intrusione dello stato». Emendementi costituzionali per vietare il matrimonio tra gay; campagne per l'astinenza sessuale; fondi federali ai gruppi confessionali. Tutto questo, a chi quell'alleanza l'aveva stretta per difendere la libertà individuale dalle intrusioni del governo, non può andare bene.

La differenza è sostanziale: un conto è chiedere che lo Stato non soffochi i valori tradizionali che persistono nella società e ai quali i cittadini sono liberi di conformarsi, se lo desiderano; ben altra cosa è che lo Stato s'incarichi di promuoverli, restringendo così la libertà di quanti non desiderano conformarvisi.

«La rivoluzione conservatrice bushiana, dunque, ha preso in prestito dai liberal l'idea di usare gli strumenti statali e federali per promuovere i propri obiettivi». E c'è chi imputa, come segnalavamo qualche settimana fa, la sconfitta del GOP alle elezioni di mid-term proprio al tradimento dei propri principi, contrari al big-government: «Siamo stati eletti al Congresso per cambiare lo stato, ma il problema è che noi stessi siamo diventati lo Stato», commentava il senatore John McCain, all'indomani del voto del 7 novembre.

Anche coloro, come i Repubblicani, che sono andati al governo vedendo nello Stato un problema più che una soluzione, nel corso di tanti anni di gestione del potere hanno cominciato a prendere un'eccessiva confidenza con le leve del comando e sono indotti a confidare nell'espansione del ruolo dello Stato per perseguire le loro politiche.

Una «spaccatura» nella «grande tenda» del GOP. Ne ha parlato, sul Washington Post, Sebastian Mallaby, spiegando che secondo Lindsey i principi sono mutati, lo si vede dai flussi elettorali. Il Gop è stato «virtualmente cancellato» dal Nord-Est, ha subìto dei brutti colpi nel Mid-West, mentre «sempre più riflette i valori delle sue roccaforti nel Sud». Il risultato è che ha perso la propria «tinta libertaria» e si è fatto «più religioso e tradizionalista».

Non sono solo i valori del Sud il problema, ma anche la sua attitudine ad adagiarsi sugli aiuti federali. Ed «è difficile per il partito dello small-government rappresentare le comunità che traggono i maggiori benefici dal big-government». Il presidente Bush ha tentato di risolvere questa contraddizione, facendo contenti i libertari con i tagli alle tasse e i tradizionalisti con più spesa. Il risultato è stato un ampio deficit.

Brink Lindsey quindi propone una nuova alleanza: tra libertari e liberal di sinistra. «Storicamente», ricorda Rocca, hanno ottenuto grandi risultati: sulla lotta alla censura, la legalizzazione del divorzio e dell'aborto, sul garantismo. Oggi condividono soluzioni sull'immigrazione, sulle cellule staminali, sui diritti dei gay e sulla lotta al terrorismo senza limitare le libertà civili.

Tuttavia, ostacoli che potrebbero rivelarsi insormontabili per la nuova alleanza sono lo scetticismo dei Democratici nei confronti del laissez-faire e le loro politiche di espansione dell'intervento dello Stato, anche se proprio per questo - osserva Mallaby - il partito avrebbe bisogno di buone idee per contenere la spesa da chiunque ne abbia, libertari compresi.

In ogni caso, Lindsey muove da un'intuizione empiricamente fondata, da una tendenza che ci sembra di riscontrare sempre più spesso non solo nella politica americana, ma anche in quella europea e italiana. Sempre meno la categorie destra/sinistra servono a comprendere le divisioni politiche; sempre più lo spartiacque è tra chi vuole ampliare gli spazi della libera scelta individuale, negli ambiti economici come in quelli personali, e tra chi vuole restringerli.

A ridisegnare i confini nella politica americana provò già lo scorso 15 giugno David Brooks, sul New York Times:
«If American politics could start with a clean slate today, the main argument wouldn't be between liberalism and conservatism, words that have become labels without coherent philosophies. The main fight would pit populist nationalism against progressive globalism. The populist nationalist party would be liberal on economics, conservative on values and realist on foreign policy... The progressive globalists, on the other hand, would be market-oriented on economics, liberal on values and multilateral interventionists in foreign affairs».

6 comments:

Anonymous said...

Molto interessante.... come tutte le cose pianificate a tavolino per creare nuove illusioni, spesso anche tragiche, il più delle volte tragicomiche.
Stavolta lo Stato usato come instrumentum regni, come altre volte la religione o il nemico esterno o quello interno...

Tutto sommato i nostri statalisti italici non sono così ideologici come quelli di un tempo. No, oggi si limitano alla gestione.
Direi che usano lo Stato come strumento per arricchirsi ed arricchire le clientele.

Un po' qualunquista?

Anonymous said...

Volevo ringraziarti per avermi votato da Mario Adinolfi.

Anonymous said...

Se l'idea di ridisegnare i confini della geografia politica è attraente e lodevole, essa non deve però indurre a ricadere nell'errore di classificare pigramente le appartenenze ideologiche. E se uno è iperliberista in economia, conservatore sui valori e "mezzano" in politica estera, dove lo mettiamo? Anche le etichette di Brooks lasciano il tempo che trovano, quindi, laddove il nocciolo della faccenda è che gli assetti istituzionali devono incoraggiare l'assunzione di responsabilità individuale a tutti i livelli, anche e soprattutto a quello elettorale. Via i partiti e l'illusione di incasellare le complessità culturali per "raggruppamenti omogenei" (liberali, cristiani, social-socialisti, riformisti e quant'altro) elitari e autoreferenziati, avanti invece con sistemi capaci di favorire la compresenza di diverse quote ideologiche "ponderabili" all'interno delle singole persone fisiche, con tutto l'impegno necessario per valutarne peso specifico e scala di priorità.
Sì all'uninominale, no al proporzionale e no all'"unità" di questa o quella famiglia politica. Il sistema americano, in questo senso, è auto-correttivo: contano le persone, non i partiti, per cui si creano sempre nuove contaminazioni (anche se i riferimenti di massima rimangono sempre gli stessi).

JimMomo said...

"Il sistema americano, in questo senso, è auto-correttivo: contano le persone, non i partiti, per cui si creano sempre nuove contaminazioni (anche se i riferimenti di massima rimangono sempre gli stessi)."

Appunto, siamo d'accordo.

JimMomo said...

Per così poco, Ombra ;-)

Anonymous said...

mah, quelli del cato sono dei classical liberal, non dei libertari veri.