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Tuesday, July 25, 2006

Da cosa dipende il successo della conferenza di Roma

Dovrà gettare le basi per una forza multinazionale dotata dei poteri necessari a garantire il disarmo di Hezbollah e la fine del prepotere siriano e iraniano sul Libano

Molto, molto lucida e precisa, l'analisi di Lucio Caracciolo sulla crisi libanese, oggi su la Repubblica. Tutta in chiave descrittiva, mi conforta anche su molte delle mie considerazioni di questi giorni.
«Sul piano tattico, la posta in gioco è stabilire se Israele resterà esposto a tempo indeterminato alla minaccia dei razzi di Hezbollah, o se saprà neutralizzarla. Su scala strategica, la partita coinvolge il grande sponsor dei guerriglieri libanesi, l'Iran. Dall'esito della campagna libanese potremo trarre una risposta provvisoria alla questione decisiva: riuscirà Teheran ad affermarsi come grande potenza regionale, poggiando sulle sue ricchezze energetiche, sul deterrente nucleare in via di allestimento e sul richiamo del radicalismo sciita enfatizzato dall'intransigente contrapposizione al "nemico sionista"? E' soprattutto per scongiurare questo scenario che Israele oggi combatte».

Per «sventare questo disegno Israele sa di poter contare sull'appoggio esplicito degli Stati Uniti» e su quello, ovviamente meno esplicito, ma significativo, di importanti paesi arabi e sunniti che hanno compreso e temono le ambizioni egemoniche di Teheran sulla regione. Le dichiarazioni di oggi di Egitto, Giordania e Arabia Saudita, tutti paesi che saranno presenti al vertice di domani alla Farnesina, confermano la linea comune: un Libano democratico e pienamente sovrano, libero cioè da influenze siriane e iraniane. Questa crisi libanese quindi non rientra «nel vasto catalogo» delle guerre arabo-israeliane. E' invece «un capitolo del confronto Israele-Iran. Quasi certamente non l'ultimo e nemmeno il più cruento», azzarda Caracciolo.

Condoleezza Rice si sforza di ripetere che il cessate-il-fuoco non può significare un ritorno allo status quo ante. E' qui che dovrebbe entrare in scena la forza multinazionale, per consolidare il vantaggio tattico che Israele avrà saputo conquistare sul campo: il fatale indebolimento di Hezbollah e quindi dei suoi sponsor a Damasco e Teheran.

L'interrogativo centrale, dunque, è se la forza internazionale d'interposizione riuscirà a mantenere le posizioni conquistate da Tsahal, una volta che le truppe israeliane avranno cessato le operazioni oltre confine. Sarà una forza armata neutrale, o sarà chiamata prima o poi a combattere al posto di Israele contro Hezbollah per disarmare la milizia sciita? Sarebbe quest'ultimo l'unico modo per garantire che i piani siriani e iraniani di controllo del Libano falliscano. Ma se, com'è probabile, i paesi europei, a cominciare dall'Italia, non fossero disposti a tanto, allora la partita fra Israele e Hezbollah si riaprirebbe.

Tutto dipenderà dai compiti e dalle regole d'ingaggio fissati per la missione della forza multinazionale. Si accorderanno Stati Uniti, Unione europea, Onu e paesi arabi. La conferenza di domani è di fondamentale importanza per capire se c'è un sufficiente consenso politico per una forza multinazionale che sappia svolgere il lavoro necessario.

Sul Riformista, il solito Emanuele Ottolenghi ricostruisce preparativi e aspettative della crisi innescata il 12 luglio con gli attacchi Hezbollah in territorio israeliano. I piani studiati fra Teheran e Damasco sono stati mandati all'aria dall'inaspettata reazione israeliana: «L'errore di calcolo fatale a Hezbollah».
«Invece che calibrare la risposta militare, appellarsi alla comunità internazionale o accettare di dover negoziare con Hezbollah, Israele ha rifiutato ogni ipotesi di negoziato, lanciando un attacco militare su larga scala contro Hezbollah e contro l'infrastruttura libanese da cui Hezbollah dipende per mantenere la propria forza militare e quindi la propria influenza politica».
Ottolenghi ricorda come il 6 giugno scorso "i cinque" più gli Stati Uniti abbiano avanzato a Teheran un'offerta irrinunciabile, con un'apertura americana senza precedenti.
«Dall'accordo l'Iran avrebbe potuto estrarre la fine delle sanzioni americane, l'apertura di relazioni commerciali, l'accesso ai suoi beni finanziari congelati dagli Stati Uniti dopo la caduta dello Shah nel 1979. E tutto questo, mantenendo un programma nucleare civile, mantenendo il dispiegamento in Libano di più di 10 mila missili a media gittata puntati contro Israele e conservando la sua ipoteca militare e diplomatica sull'intera regione. Tutto questo senza dover rinunciare ai suoi legami con Siria e Hezbollah, al suo ruolo nel contesto del conflitto israelo-palestinese, alle sue mire egemoniche nel Golfo Persico».
La risposta iraniana è stata una non-risposta, mentre "i sei", e soprattutto gli Stati Uniti, avevano avvertito che non avrebbero aspettato oltre un mese. Anche per distogliere l'attenzione della comunità internazionale dalla sua non-risposta all'offerta, l'Iran ha giocato la carta Hezbollah. Con l'offerta del 6 giugno l'Occidente rinunciava di fatto a far pesare sul tavolo negoziale il sostegno iraniano al terrorismo e il suo ruolo destabilizzante in Medio Oriente. Ma «tutto questo è rimesso in discussione dalla guerra in corso nel Sud del Libano, scatenata da Hezbollah per conto dell'Iran e con la benedizione, il tifo e l'appoggio logistico siriano. Quella che doveva essere una mossa mirata a mettere in scacco Israele e rafforzare Hezbollah e i suoi alleati potrebbe finire coll'essere uno scacco matto alla milizia e un duro colpo al prestigio e all'influenza iraniana».

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