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Thursday, August 02, 2012

La carta degli stenti e il ritorno del Pds

A leggere con attenzione la "Carta d'intenti" del Pd, presentata martedì scorso da Pierluigi Bersani, viene da augurarsi che non si trasformi in una realtà di "stenti" per gli italiani. Di concreto s'intravede solo la patrimoniale («non si esce dalla crisi se chi ha di più non è chiamato a dare di più»), quindi più tasse, sullo sfondo della solita paccottiglia ideologica di paroloni "de sinistra" (uguaglianza, diritti, cittadinanza, partecipazione, pace, cooperazione, accoglienza).

Bisogna riconoscere però che il segretario del Pd si sta muovendo bene sul piano delle alleanze, preparando il suo partito a giocare in una posizione di perno centrale in una coalizione di sinistra-centro. Al netto dei balletti – Vendola scarica Di Pietro, ma anche no; apre all'Udc, ma anche no – la foto di Vasto si conferma l'alleanza elettorale a cui punta il Pd. Bersani ha incassato l'ok di Vendola alla sua carta d’intenti, quello a Di Pietro sembra un ultimo avvertimento (cambi i suoi toni o è fuori) e il veto di Nichi a guardare al centro sembra caduto. No alle politiche liberiste, difesa dell’articolo 18 e riconoscimento delle coppie gay le condizioni poste per un’intesa con Casini. Vendola auspica un "Polo della speranza". Speranza per chi non è chiaro, se per gli italiani, o se la loro di andare a Palazzo Chigi, ma di certo come acronimo è indicativo: Pds.

In particolare alcuni capitoli del "manifesto" sono emblematici dell'arretratezza ideologica a cui la linea Bersani condanna il Pd. La stessa lettura della crisi, colpa di un populismo «alimentato da un liberismo finanziario che ha lasciato i ceti meno abbienti in balia di un mercato senza regole», rende bene l'idea di quale sia il distacco dalla realtà degli autori. Si enunciano generici "intenti", come il lavoro «parametro di tutte le politiche», la «dignità del lavoratore da rimettere al centro», il «tasso di occupazione femminile e giovanile il misuratore primo dell’efficacia di tutte le nostre strategie». Per poi passare al concreto: si propone di «alleggerire» il peso fiscale sul lavoro e sull'impresa. Giustissimo, ma le risorse necessarie non si ottengono tagliando la spesa pubblica, riducendo il perimetro dello stato e delle sue articolazioni territoriali, il Pd vuole attingerle «alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari». Viene teorizzato un nuovo conflitto sociale: tra produttori e rendita finanziaria. Si troverebbero tutti dalla stessa parte, tra i produttori, «il lavoratore precario e l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore e l'impiegato pubblico, il giovane professionista e l'insegnante». Ma di tutta evidenza difficilmente queste categorie di lavoratori potrebbero sentirsi tutelate da una stessa, univoca politica economica. Contrastare la precarietà è uno degli obiettivi, da centrare «rovesciando le scelte della destra nell'ultimo decennio». In concreto, quindi, maggiore rigidità del mercato del lavoro, senza superare il dualismo tra outsider e iperprotetti, secondo lo schema Ichino.

Il problema delle diseguaglianze, che pure esistono nella nostra società, va risolto secondo il Pd nell’ottica di una mera «redistribuzione» della ricchezza. Si conferma, dunque, in antitesi con quella che è ormai la visione delle sinistre europee più moderne e liberali, un concetto di uguaglianza sorpassato, ma duro a morire nella sinistra italiana, secondo cui la vera uguaglianza è quella delle posizioni di arrivo, non di partenza: risuona forte la condanna, morale e politica, per «ricchezze e proprietà smodate che si sottraggono a qualunque vincolo di solidarietà». Così come si coltiva ancora l'illusione che si possa «redistribuire» ancor prima di aver creato ricchezza: «La giustizia sociale non è pensabile come derivata della crescita economica, ma ne fonda il presupposto».

Si scrive «sviluppo sostenibile» ma si legge dirigismo... la proposta è «una politica industriale "integralmente ecologica"». Poco più avanti ecco spiegato cosa si intende per «politica industriale»: è il governo che individua «grandi aree d'investimento, di ricerca, di innovazione verso le quali orientare il sistema delle imprese». Resta da capire come sia conciliabile, dal punto di vista logico prima che politico, ritenere che l’economia abbia bisogno di essere "orientata" e allo stesso tempo che occorre puntare su qualità spiccatamente italiane come «il gusto, la duttilità, la tecnica e la creatività», che hanno invece bisogno del massimo della libertà per esprimersi.

Il capitolo sui cosiddetti «beni comuni» non lascia dubbi: nel Pd il mercato viene ancora vissuto come un intruso molesto. Sanità, istruzione, sicurezza e ambiente sono «beni indisponibili alla pura logica del mercato e dei profitti». In questi ambiti, pare di capire, non c'è spazio per operatori privati. Maggiore tolleranza per l’iniziativa imprenditoriale in altri settori, ma sempre sotto il rigido e occhiuto controllo statale: «L’energia, l’acqua, il patrimonio culturale e del paesaggio, le infrastrutture dello sviluppo sostenibile, la rete dei servizi di welfare e formazione, sono beni che devono vivere in un quadro di programmazione, regolazione e controllo». E non manca, ovviamente, il richiamo ai «referendum della primavera del 2011» (nucleare e acqua). Per il resto, si parla genericamente di «agganciare la crescita in un quadro di equità», si proclama che «il nostro posto è in Europa». Ma nessun impegno sull'"agenda Monti", che viene brevemente citato per aver avuto «l'autorevolezza di riportarci in Europa».
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