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Al di là dell’ultima polemica sui libri di testo – girano per le classi libri di storia indegni, lo sappiamo tutti, inutile prendersi in giro, l’hanno sottolineato anche intellettuali come Paolo Mieli ed Ernesto Galli Della Loggia – il problema va ben oltre qualche manuale un po’ troppo partigiano. Subito si sono levati gli scudi in nome della «libertà d’insegnamento», principio che viene spesso citato a sproposito e che così formulato non trova in realtà alcuna ragione per meritare una tutela particolare. Innanzitutto, già il riferimento all’«insegnamento», e non all’«educazione», indica che l’accento viene posto su chi insegna, che dovrebbe essere “libero”, e non sugli alunni e i loro genitori, cui evidentemente non si riconosce una eguale libertà educativa. Ma in concreto, con quell’espressione si intende davvero la libertà del singolo insegnante di insegnare ciò che vuole e come vuole? Se è così, già oggi quella libertà è negata principalmente dallo Stato, che impone programmi e metodi e che monopolizza il 95 per cento del sistema dell’istruzione. Ma a ben vedere proprio per questo è una libertà che non ha alcun senso rivendicare. La libertà di cui si dovrebbe parlare non è quella del singolo insegnante, ma da un lato quella di ciascuno di poter istituire una scuola riconosciuta come tale dalla comunità, rispettando alcuni semplici e ragionevoli criteri, quindi la libertà dei diversi progetti educativi di poter competere tra di loro nella formazione dei giovani; dall’altro, la libertà di ciascuno di scegliere per i propri figli il progetto educativo, quindi la scuola, che ritiene migliore.
Oggi in Italia questa libertà non c’è. Non solo per il monopolio pressoché totale della scuola pubblica, quindi di un solo progetto educativo – o meglio, di diversi progetti educativi che però promanano da un unico attore sociale. Un attore che – è bene ricordarlo per sottrarsi ai retaggi e ai riflessi dell’hegelismo imperante nella nostra cultura politica – non è un ente astratto, obiettivo ed imparziale, dotato di moralità propria, ma si incarna in un preciso gruppo di persone, con braccia, gambe, occhi e a volte persino testa. Ma addirittura oggi non è possibile scegliere tra le diverse scuole pubbliche, se non ricorrendo a sotterfugi e conoscenze. Le iscrizioni seguono di norma un criterio territoriale (il domicilio), all’oscuro dei risultati e quindi della qualità della scuola cui si sta iscrivendo il proprio figlio, della sezione e degli insegnanti che gli capiteranno in sorte. Per prima cosa, dunque, la “libertà di insegnamento” dovrebbe sottomettersi al giudizio dei risultati; poi, la libertà di offrire il proprio progetto educativo dovrebbe conciliarsi con il diritto dei genitori a scegliere quello che credono migliore per i propri figli. Di questa libertà negata nessuno sembra preoccuparsi.
Se di frequente la questione dei libri di testo viene sollevata, è proprio perché il mito della “libertà di insegnamento” non si realizza nella scuola pubblica. Gli insegnanti sono culturalmente, prima che politicamente, omologati e i libri adottati sono quasi sempre gli stessi. E ciò permette ad una vera e propria lobby dell’editoria scolastica di imporre la propria visione in pressoché tutte le classi. A causa dell’altissimo tasso di uniformità culturale, il docente che volesse distinguersi, esercitando dunque la propria mitica “libertà di insegnamento”, andrebbe incontro alle stigmate della “devianza”, sarebbe individuato come “eccentrico”, susciterebbe perplessità, sia da parte dei colleghi che dei genitori dei ragazzi, sulla propria competenza e persino sul proprio equilibrio personale, rischierebbe fino alla marginalizzazione sul posto di lavoro.
Si dirà che l’accesso alla carriera scolastica è aperto a tutti, a prescindere dal proprio orientamento politico-culturale, ma se il risultato che si determina nella scuola pubblica – e quindi nella scuola tout court – è comunque di un orientamento culturale nettamente predominante rispetto agli altri, ciò non può non condizionare i progetti educativi verso l’omologazione e quindi non può non essere riconosciuto come un problema. Un problema che dovrebbe essere percepito come grave proprio da chi straparla di libertà. Perché limita, direi nega, la libertà di educazione. Non si tratta di una banale questione politica destra-sinistra, ma di indirizzo culturale. Di destra o di sinistra, la cultura predominante nella scuola è quella statalista. E non potrebbe essere altrimenti – in questo bisogna riconoscere una coerenza e persino una efficienza nel nostro sistema scolastico – considerando l’attore sociale da cui promanano tutti i progetti educativi e a cui spetta la selezione del corpo insegnanti: lo Stato.
La scuola in Italia è “comunista” non nel senso che gli insegnanti sono “comunisti”, politicamente di sinistra. Sarebbe il meno. Lo è innanzitutto in quanto sistema collettivista, statalizzato quindi statalista, quasi “sovietico” nell’inseguire il mito dell’eguaglianza, al ribasso rispetto alla qualità e al pluralismo culturale. Uniforme nella cultura ma non nella qualità, questa scuola produce da decenni un progressivo appiattimento degli standard educativi verso il basso e, pur in una certa dicotomia destra-sinistra, un conformismo statalista. Nonostante la sfiducia nelle istituzioni e lo scarso senso civico degli italiani, continua a crescere cittadini nel mito dello Stato, disillusi proprio perché allo Stato attribuiscono una presunta moralità superiore che non gli appartiene e compiti che è strutturalmente incapace di assolvere.
E se volessi che mio figlio non si abbeveri alle culture stataliste dominanti nella scuola? Mi si riconosce questa libertà? Anche qui l’ipocrita risponde: “Va bene le scuole private, ma fatevele da soli”. Ok, ma ridammi indietro le tasse che pago, almeno la quota corrispondente ai costi che lo Stato non dovrebbe più sostenere per i miei figli se li iscrivessi ad una scuola non statale. Ad oggi invece lo Stato garantisce sì l’istruzione, ma solo a chi sceglie il suo progetto formativo – bella libertà! – e le poche scuole private che ci sono, sono accessibili solo alle famiglie più ricche. E a ben vedere sia le pubbliche che le private non abitano un contesto di reale competizione necessario a migliorare la qualità delle une e delle altre. La soluzione più ragionevole ed efficiente sarebbe la via “blairiana” di mettere scuole pubbliche e private sullo stesso piano, anzi, eliminare proprio la distinzione, con scuole pubbliche in competizione tra loro ma che si reggono su fondi (e gestione) sia pubblici che privati.
7 comments:
raramente mi è capitato di leggere tante sciocchezze tutte in un solo articolo. ma quando uno è accecato dall'ideologia...
Nessuno ti obbliga. La prossima volta vedi di andarti ad "illuminare" altrove, che qui non sei il benvenuto.
Due osservazioni. La prima: è impreciso dire che lo stato imponga agli insegnanti "programmi e metodi" in quanto, a partire dall'introduzione dell'autonomia scolastica (Legge Bassanini 1997 e seguenti) il concetto stesso di "programma scolastico" è stato superato. Oggi non esistono più programmi calati dal Ministero, ma una programmazione autonoma da parte dei vari insegnanti, dei gruppi disciplinari e dei singoli istituti (i famosi POF, Piani dell'offerta formativa). La seconda: non mi risulta che le iscrizioni debbano seguire il criterio territoriale del domicilio, almeno non per quanto concerne la scuola superiore, nella quale insegno. Chiunque è libero di iscriversi dove gli pare, anzi in genere gli istituti, che ricevono finanziamenti proporzionali al numero degli studenti, fanno a gara per accaparrarsi iscrizioni.
nervosetto oggi? nonostante le tue idee d'anteguerra (non mi ricordo se la prima o la seconda... parlando delle guerre puniche, ovviamente) hai sempre avuto il merito, a differenza della quasi totalità dei tuoi colleghi/omologhi/"parrocchiani" di non aver mai censurato e pure , quando ne ritenevi opportuno, di rispondere e contestare argomentando, insomma avevi il merito di essere civile e di non sottrarti al confronto e alla critica. ora questa brutta reazione. non ti fa onore.
Grazie per le precisazioni. Chiedo: quindi in teoria sarebbe possibile per un insegnante di liceo concentrare l'insegnamento di storia sulla Prima e la Seconda guerra mondiale e sui relativi dopoguerra, o anche inserire nel programma la teoria creazionista; o per quanto riguarda il metodo non adottare affatto libri di testo, o adottare non manuali ma monografie; o sostituire i temi con quiz a risposta multipla; le interrogazioni con solo prove scritte? Riguardo le iscrizioni, secondo la mia esperienza è molto molto difficile iscriversi ad un liceo al di fuori del proprio distretto di appartenenza o come si chiama, perché prima hanno diritto quelli che ci abitano. E comunque non c'è alcun modo di praticare una scelta sulla base dei risultati delle scuole (carriere degli ex alunni, valutazione dell'istituto, delle singole sezioni e dei singoli insegnanti), che non sono sufficientemente pubblici.
@ Jean o come ti chiami: come vedi argomento con chi argomenta. Ma se dici che scrivo "sciocchezze", non ti censuro, come vedi, ma almeno permettimi di suggerirti di frequentare altri lidi internettiani.
Se parliamo di scuola superiore, penso che il problema della scelta si pone soprattutto nelle grandi città; ad esempio in una città come la mia (250.000 abitanti) ci sono due licei scientifici, due classici, un commerciale, uno psico-pedagogico ecc. ecc.
Nel caso dei licei, la scelta tra l'uno e l'altro (entrambi nei pressi del centro) dipende da esperienze pregresse, passaparola, ecc. ecc. La concorrenza (sempre nella mia esperienza personale) è abbastanza agguerrita. Per città più piccole della mia, il problema quasi non si pone.
Problema libri di testo: quello che mi sorprende nella polemica che viene sollevata ogni tanto al riguardo è il peso che si dà a quanto scritto in delle pubblicazioni che (sempre nella mia esperienza) sono al massimo un canovaccio per delle lezioni che dipendono in grandissima parte dalla formazione passata e (ovviamente) dalle idee politiche degli insegnanti.
Per quanto riguarda la libertà di scelta sensu latu, è evidente che il sistema più liberale è quello del buono-scuola, valido per qualsiasi istituzione privata. Però in genere non ottengo risposte soddisfacenti dai liberali quando chiedo se sarebbero d'accordo a convenzionare anche scuole coraniche. La scuola pubblica non è forse anche un modo per tutelare gli studenti dall'influsso delle loro famiglie? (non è una domanda retorica, è un dubbio che ho veramente e a cui non so dare una risposta sicura).
potrei dire la stessa cosa visto che l articolo e solo un pasticcio di luoghi comuni non argomentati.
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