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Thursday, August 25, 2005

La rivoluzione liberale può attendere

JimMomo su il Riformista di oggi:
Caro direttore, con il suo editoriale di oggi (ieri) ha fatto "centro". Faccio mio anche il richiamo di Ostellino ai vecchi concetti della politica. Le due coalizioni non saranno credibili come forze di buon governo finché le rispettive "ali centriste" non avranno abbracciato pienamente la cultura del mercato, lo spirito riformatore e il metodo del pragmatismo. In breve, finché non potremo definirle liberali. Come già avviene soprattutto nei sistemi politici anglosassoni. Questo, credo, avesse voluto dire Monti. Qui da noi invece (per ripescare vecchie ma utili categorie) i centristi sono sinonimo di clientelismo, spesa pubblica, economia sociale di mercato, corporativismo, clericalismo. Oggi si direbbe "moderati", ma io sono un po' all'antica. Cordiali Saluti

La brutta opinione che ho del centrismo italiano è evidentemente la stessa di Michele Salvati, il cui editoriale oggi sul Corriere della Sera si intitola «Il centro corporativo». Le priorità indicate da Mario Monti sono reali, altroché se lo sono, ma affidarci al "centro" rischia di essere per lo meno ingenuo. Perché «riavviare lo sviluppo è politicamente costoso: esige un progetto di riforme liberali», ma i maggiori ostacoli «al progetto riformista liberale non sono certo venuti da forze estremistiche», osserva Salvati.
«La realtà è che posizioni antiriformistiche e antiliberali sono ampiamente rappresentate nelle componenti più centriste e più moderate dei due schieramenti... in entrambi i poli di centri ce ne sono due, un centro riformista e liberale (piccolo) e un centro corporativo e che chiede protezioni, non riforme (grande)... Le difficoltà che incontra il Progetto Monti stanno nella società più che nella politica. In una società corporativa per storia antica, e per di più in declino — situazione nella quale molti si aggrappano con più forza a povere certezze e non pochi a ingiustificati privilegi — i partiti sono indotti dalla logica della competizione politica a soddisfare le domande che provengono dagli elettori. Non si vede dunque perché un grande centro dovrebbe disattenderle e imporre un programma severo e impopolare».
Dove si sottoscrive? Solo un appunto a Salvati. Scrive che alle prossime elezioni i due schieramenti si presenteranno con «diversi progetti di innovazioni strategiche (per rianimare lo sviluppo) e di protezioni selettive (perché è soprattutto sicurezza e protezione che chiedono molti elettori)», allora bisogna cercare «di far capire quali siano le innovazioni proposte e le protezioni concesse. In che cosa differiscano. Se siano efficaci, le prime, e giustificate, le seconde. Questo sarebbe un buon servizio reso all'opinione pubblica».

L'esercizio della leadership politica non è solo «soddisfare le domande che provengono dagli elettori». Ma avere volontà e capacità di schiudere dinanzi agli occhi dei propri cittadini orizzonti più promettenti che non «povere certezze», «ingiustificati privilegi», «protezioni concesse». Operazione che è soprattutto culturale e non elettorale, ma qualcuno, qui da noi, si è mai preso la responsabilità di provarci rischiando di suo? E' giunto il momento che qualcuno ci provi davvero, con coraggio, ad attuare riforme liberali e soprattutto a spiegarle ai cittadini. Sono certo che per quanto consunti da decenni di corporativismo e assistenzialismo, energie e sentimenti liberali non manchino nella società italiana. Dà la misura del grande statista saper essere impopolare per non essere anti-popolare. Blair c'è.

UPDATE: Un'altra analisi da infilare nel cassetto e conservare è quella di Gianfranco Pasquino su il Riformista di oggi (pag. 2). 1) In Italia il Grande Centro c'è già stato, non la Democrazia Cristiana, ma il Pentapartito (1980 - 1992) è c'è solo da stendere un velo pietoso; 2) il Grande Centro è la «bonaccia della politica»: grande numericamente, è sicuro del potere e non ha stimolo per innovare, se piccolo è decisivo in contrattazioni che «non avrebbero nulla di programmatico e molto di immobiliare (a cominciare dalle poltrone)». Invece il bipolarismo, seppure da perfezionare, è alternanza, il «sale della democrazia» (dà all'elettorato il potere di sanzionare comportamenti e credibilità), ed è includente, non taglia fuori le due ali estreme ma le addomestica; 3) il pregiudizio che il centro sia il luogo della moderazione, della competenza e dell'onestà (in medio stat virtus) è falso. Al di fuori, ci sarebbe ciò che è indicato come il peggio, ma che invece è il meglio, e il solo, che fa funzionare la democrazia: l'alternativa, il conflitto, il dovere del governo e della decisione. Da leggere.

Parte dalla medesima impostazione concettuale questo editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di ieri.
«Partito moderato è la parola d'ordine, il lasciapassare di tutti i trasformismi che hanno accomunato, da sempre, destra e sinistra in Italia nella soggezione agli interessi organizzati, nel rifiuto del riformismo, nell'opposizione al cambiamento e nell'incapacità di modernizzare il Paese. Per raccapezzarsi sarebbe dunque utile fare, innanzi tutto, pulizia concettuale. Recuperando vecchi concetti — individualismo e collettivismo, corporativismo e concorrenza, protezionismo e mercato, statalismo e globalismo, riformismo e massimalismo — ormai in disuso, ma che continuano ad avere un duplice pregio. Di costringere le forze politiche a confrontarsi, definendo e riempiendo di contenuti programmatici tali contenitori. Di facilitare lo sviluppo di un sistema politico di bipolarismo perfetto caratterizzato da programmi alternativi di governo... La (difficile) soluzione, infatti, sta nel rafforzamento della componente riformista all'interno di entrambi gli schieramenti, che riduca il potere di coalizione e di veto di conservatori e radicali».

4 comments:

Anonymous said...

Meglio di tutti, Pasquino, a pag. 2 del Riformista. L.C.

JimMomo said...

Hai ragione! Aggiorno subito.

Anonymous said...

Non sempre sono d'accordo con te, ma questo post è straordinario! GM

CM said...

Già.